L’anziano Abdul si lamenta che si sta stretti. La voce di qualcuno lo zittisce. Gli scafisti urlano e si esortano a vicenda. Talib li sente dire che occorre far presto, che all’orizzonte il cielo è piombo. Il rombo monumentale del sei cilindri scuote l’aria, Keita raccomanda di non strappare troppo. “Ce lo perdiamo” gli sente urlare Talib, e spera sia solo per il possibile strapparsi della cima, non per lo spezzarsi del legno. Il fuoribordo accelera piano, la cima si tende, il legno del barcone geme. Alla fine, si muovono. Aumentano gradualmente la velocità. Si dirigono a Nord. Il sole è già alto. L’aroma salmastro corre loro incontro, si fa respirare invitante. Talib pensa che è l’odore del futuro che gli entra nelle narici, l’odore dell’Europa. Osserva la costa che si allontana: una distesa di dune abbacinanti sotto uno sfondo azzurro scuro, solo qualche sfilaccio di nubi sopra. Lasciano un cielo terso per immergersi sotto un cielo oscuro.
[da Migrazione]
Il capoposto si chiama Fiore. È un volontario in ferma prolungata. Da civile era tappezziere. In nero. Si sbatteva in giro per trovare lavori e guadagnare poco meno di quello che guadagna oggi, ma adesso mangia gratis in mensa e ha le ferie pagate. Ogni tanto, in silenzio e senza avere il coraggio di confessarlo a nessuno, benedice Falcone, Borsellino, il tritolo che li ha fatti saltare per aria, gli inventori dei Vespri Siciliani e l’onnicomprensiva che gli ha permesso di comprare la Uno di seconda mano e il telefono cellulare. Vuole sposarsi. Nei momenti di noia conteggia tot lire a turno, tot turni al mese, e moltiplica. In due o tre anni i soldi ci saranno.
[da Nulla può essere successo]
Arriva un camion bianco col cassone pieno di sacchi e di ragazzi tra i dieci e i quindici anni. Il pilota dell’aereo è sceso sulla pista e s’accosta al finestrino del camion per firmare qualcosa e scambiare due chiacchiere in una lingua che nessuno, nel plotone dei mercenari, comprende. “Swahili?” chiede il francese rosso all’americano, che nel frattempo ha estratto dallo zaino un altro pacchetto di sigarette e se ne sta accendendo una. L’americano si stringe nelle spalle e spara verso l’alto un’alitata di fumo. S’avviano in fila indiana lungo il bordo della strada, ognuno coi suoi venti e rotti chili di equipaggiamento tattico sulle spalle, mentre i ragazzini smontano dal cassone e iniziano a trasferire i sacchi dal camion all’aereo. L’italiano guarda incuriosito. “Cassiterite” dice il portoghese alle sue spalle. I ragazzi caricano sulle spalle sacchetti tutti uguali, di dimensioni modeste ma apparentemente molto pesanti. Una sottile polvere rossa copre tutto, ragazzi, sacchetti e camion. Posano il carico sull’aereo e corrono a prendere un altro sacchetto. “Muovetevi” urla l’americano. L’americano si chiama Kurt.
[da Kadogo]
Il signor Nino aveva un figlio. Sono venuto da lui perché lo sapevo, me l’aveva detto il medico del SERT. Suo figlio è volato da un balcone, si faceva di trielina anche lui. La trielina dà allucinazioni vivide e potenti. Chissà che ha visto. Ha scavalcato la ringhiera e si è buttato giù, senza un grido. Sono venuto dal signor Nino perché se non mi aiutava lui chi l’avrebbe fatto mai? Quando sono entrato la prima volta mi ha squadrato per un quarto d’ora. Mi ero ripulito: avevo infilato un paio di jeans puliti e una polo nuova per fare buona impressione. “Sei quello del SERT?” mi ha chiesto. “Sì”, ho detto io. “Quanti anni hai?” “Sedici”. Non ha aggiunto altro. Ha iniziato a spiegarmi cosa dovevo fare e come comportarmi. Mi chiedo sempre cosa gli abbia detto il medico di me. Lui mi ha sempre trattato in maniera corretta. Io faccio il mio lavoro, coi clienti buongiorno, buonasera e basta. Mi sono trovato una stanza per dormire. Mia madre non mi cerca più.
[da Certe volte vorrei]
Dov’ero quando è successo? È cominciato tutto con questa domanda. Poi è stato un conteggio di minuti, coincidenze e ritardi. La ricapitolazione delle parole scambiate con un passante, con la portiera, con il professore del primo piano. Tempi. L’ossessione dei minuti sprecati. Ho trascorso le mie giornate compilando elenchi di memorie. Orari e tempi soprattutto. Tre minuti trascorsi con la portiera, forse quattro. Due col professore, credo. L’ascensore sempre occupato. Altri minuti persi nell’indecisione se fare le scale a piedi oppure attendere la cabina. “Ma lei non ha proprio visto nessuno scendere le scale?” mi ha chiesto uno dei poliziotti al commissariato. “Nessuno” ho risposto. Chissà se saprò mai chi occupava l’ascensore. Anche i poliziotti hanno steso precise scalette della giornata, dei tempi, dei ritardi. “È stata una questione di minuti” mi hanno assicurato. È incominciata così la mia ossessione: solo una questione di minuti.
[da Ouroboros]
Furono uccisi due dipendenti comunali: un vigile urbano – un certo Guccio, detto Baddaredda – e un geometra dell’ufficio tecnico, Ernesto Liberatore. Chi li ammazzò attese con pazienza che finalmente fermassero l’auto di servizio davanti al cancello dell’autoparco comunale, e li bersagliò con sedici colpi. Li trovarono compostamente seduti sui sedili davanti, con le facce sbigottite. I colpi erano stati tutti indirizzati al cuore, otto a testa, con precisione da poligono. Nessun proiettile era andato sprecato. Sorprenderli non doveva essere stato difficile. Il venerdì Baddaredda e Liberatore eseguivano i sopralluoghi per la rilevazione degli abusi edilizi, non era un mistero per nessuno. Eppure, la loro uccisione non aveva nulla a che fare con cantieri sequestrati né con costruttori rancorosi.
[da Disastro aereo nel mare di Sicilia]
Giugno 2004. È scaduto il mio ultimo contratto. A giugno ho mollato tutto. Il 31 marzo i marines ci avevano assegnato un turno di sorveglianza in città. Il fuoristrada che dovevamo utilizzare si è guastato all’ultimo momento. Ci è toccato prenderne uno diverso, con soli quattro posti. “Rimani tu”, mi ha detto il capomacchina. “Tanto è un giro veloce. Ci vediamo più tardi”. Un’ora dopo erano tutti morti. Sorpresi da un commando in una strada di Falluja e falciati a colpi di Kalashnikov. Lì vicino, un gruppo di giovani iracheni era intento a scaricare un camion. Sono stati loro i primi a infierire sui cadaveri, dopo averli tirati fuori dall’abitacolo. Immagino sia stato come quando pestavo i tossici: la rabbia che da piccola si fa grande, le mortificazioni di una vita banale che trovano sfogo attraverso la violenza fisica su un corpo indifeso. L’uomo che si fa belva. La folla li ha martoriati, trascinati sulla strada, insultati, colpiti e, infine, impiccati a un ponte. Dovevo morire quel 31 marzo e invece sono vivo.
[da Noi eravamo infinito]
Presi gli accordi con un certo Mephìs che si spacciava per ambasciatore di Romedor al Senato di Melizia. Non credo possedesse nessuna lettera di accredito diplomatico, ma Romedor ha così cattiva fama nell’Universo Riconosciuto che pochi governi ammetterebbero ufficialmente di averci a che fare. Mephìs era un lungagnone con una frangia stopposa davanti agli occhi. Mi abbordò al termine di una delle mie prediche. Dei! che predica quel giorno, con numerosi fenomeni di estasi tra la folla, anche. Mi disse che la polizia di Melizia stava preparando una retata per arrestare me e tutti i miei collaboratori. “Per i suoi collaboratori non posso fare nulla” mi sibilò nell’orecchio, “ma se il tesoro di cui si racconta è vero, e se accetterà di continuare la sua attività sul nostro pianeta, forse potremo metterci d’accordo”. Che dovevo fare? Mi dispiaceva per Ruben e Alina. Molto. E anche per i ragazzi dello staff. Meno per Alfen, il mio procuratore. S’era montato la testa e pretendeva percentuali sempre più alte. Accettai la proposta del sedicente ambasciatore e me la filai da Melizia su un grosso cargo la cui pancia imbarcò tutti i miei risparmi.
[da Ultimo asilo]