La sera del 2 dicembre 2023 C’erano sei re è stato presentato al Circolo di Cultura di Piazza Armerina. Quella che segue è la presentazione del libro fatta da Orietta Falcone, che ringrazio per l’attenzione e la sensibilità che ha saputo dimostrare. (ma.mi.)
Buonasera a tutti e benvenuti ancora una volta.
Questa sera siamo qui riuniti per incontrare un libro. I libri, in fondo, sono come le persone. Si incontrano, parlano tra di loro, polemizzano anche tra di loro oppure si sostengono a vicenda.
Il Circolo di Cultura, si occupa anche di diffondere il messaggio dei libri ed è a questo proposito che ho letto con grande piacere ed emozione il più recente lavoro letterario di Mauro Mirci “ C’erano sei re” e ammetto che ha costituito per me ragione di riflessione e di meditazione.
Il primo accostamento molto sintetico, che in qualche modo costituisce la summa del messaggio di Mauro, sta in una citazione di Hannah Arendt, con la quale apro la mia introduzione e che ribalto alla vostra attenzione: “L’essenza di chi si è può cominciare ad esistere solo quando la vita se ne va, non lasciandosi dietro che una storia”.
Perché è di storia che si tratta, storia con la esse minuscola, che non si interseca o sovrappone con la grande Storia, che rimane sullo sfondo, lontana come un passato per quanto mitico ed eroico, ma meritevole soltanto di essere obliato, ove non addirittura esorcizzato.
Memorialistica familiare, più che un’autobiografia, un genere in fondo non nuovo, già esplorato anche autorevolmente, da Natalia Ginzburg a Luciano De Crescenzo, passando per altri autori che non cito per ovvie ragioni di brevità.
Dove però sta la novità del lavoro di Mauro? Una delle ragioni della novità del suo messaggio, è nello stile fresco, spontaneo, scorrevole e disincantato, a tratti quasi naif, che rende la lettura agile, rapida, piacevole.
È un viaggio introspettivo attraverso legami affettivi tra il protagonista e i suoi genitori, dove l’autore ripercorre le tappe della sua vita, scandendone un ritratto intimistico, complesso e delineando tratti che sono a volte stravaganti e a volte opprimenti e dolorosi.
La vicenda familiare si snoda su uno sfondo contemporaneo, a partire dalle nebbie tardo infantili che restituiscono la figura di un padre mitizzato, rimpianto, amato ma in effetti mai davvero conosciuto.
Il primo ricordo: felice, quasi bucolico. Il padre che conduce il figlio non ancora adolescente a raccogliere le olive da spremere per la produzione dell’olio.
Già una dichiarazione del legame indissolubile con la nostra terra, con le nostre radici mediterranee e le nostre origini greche. Ma anche il primo contatto con il dolore, per la prematura scomparsa del padre, indefinito come il dolore della prima adolescenza, senza precisa coscienza, senza maturazione, senza nome.
E’ a questo punto che entra prepotente nella narrazione la figura centrale, assoluta sovrana più che protagonista della stessa: la madre.
Figura femminile di riferimento per innumerevoli culture e religioni, ancora una volta mediterranee, si accolla il peso di fare da madre e da padre all’ Autore e alla sua piccola sorellina. Il mito si incarna in una contemporanea Demetra che si impegna con sacrificio, con dedizione e con silenziosa fatica quotidiana a portare avanti i figli e riuscendo ad assicurare loro la migliore formazione, prima scolastica e poi universitaria e preparare un dignitoso posto nel mondo.
Ma è una dea particolare, rifiuta la distanza dall’umano, è soprattutto madre. Madre siciliana, donna di Piazza Armerina: dura e fragile, testarda e dolce, critica e comprensiva. Gravata sì da tante contraddizioni ed incoerenze che talvolta possono risultare intollerabili al giudizio dell’Autore ancora giovane.
Ma sarà lui stesso a riabilitarla di pari passo con l’avanzare degli anni e il raggiungimento di una faticosa maturità.
Il racconto è estremamente prodigo di particolari, che si estendono anche ai comprimari della vicenda: le nonne, le immancabili zie premurose.
La descrizione non ha un ritmo lineare, ma questo non è un limite dell’Autore, anzi è una sua felice caratteristica di stile e una sua connotazione.
Viene ripudiata la concezione rettilinea dello scorrere degli eventi e il Tempo stesso recupera una propria dimensione di circolarità.
Si va così avanti in una felice incoerenza cronologica, ciò che lo stesso Mauro definisce “un diario disordinato”, poco rigoroso anche con episodi gustosi e umoristici, tra i quali vorrei evidenziare la narrazione dell’episodio del soccorso dell’Autore quindicenne, colto da improvvisa perdita dei sensi.
Qui la mamma, da vera madre italiana, non esita a fermare la prima automobile che incontra per strada per ottenere un passaggio verso il Pronto Soccorso, come un gesto irriflesso, dettato dall’ istinto primordiale di protezione, salvo poi rendersi conto, in corso di salvataggio, di averlo caricato su …un carro funebre.
Mitica la risposta del soccorritore: “Stia tranquilla. Dicono che viaggiarci da vivi porti bene”.
Il romanzo si svolge quindi così tra tanti episodi, talvolta tristi, talvolta lieti, talvolta grotteschi, talvolta ordinari, così come sono i fatti della vita comune di ogni giorno.
Rimane in fondo, e mai risolto, il rapporto tra una madre totalizzante, iperaffettiva, iperprotettiva e un Autore che non ha mai smesso il suo ruolo di figlio, anche quando le vicissitudini dell’esistenza hanno ribaltato ed invertito i ruoli tra i due protagonisti, dove a pag 152 del libro cita testualmente: “La malattia si mangia prima i ricordi del passato recente, poi erode sempre più a fondo”.
La malattia che si comporta con cinica ironia, che gioca impietosamente con l’integrità della persona: ne rispetta il soma, il corpo ( fanno fede le analisi dei valori, sempre perfette), ma ne devasta l’anima senza rispetto, ne distrugge lentamente la memoria, diventando l’autunno dei ricordi, che si distaccano e si perdono cupamente, come foglie ingiallite che il vento spazza via, cosa chiaramente evidenziata nella copertina con questa foglia che tanto ricorda le atmosfere malinconiche di Prevért e Cosma’.
Tutto nel mondo del protagonista e voce narrante di questo romanzo che sembra stare in bilico tra il dramma e la commedia, complice una prosa dal registro brillante e capace di toccare le corde dell’anima, attraverso un percorso emozionale fatto di delicata memoria e profonda commozione, perché sa scuotere nel profondo la sensibilità del lettore.
Ma questa è materia che intendo lasciare al giudizio della vostra sensibilità.
Infine, a chiusura di questa introduzione, quasi per omaggio alla concezione circolare del tempo dell’Autore, oltre che per stima verso il lavoro stesso, mi prendo la libertà di citare l’apertura di quello che considero il più grande libro di memorie scritto nel ‘900.
Le parole che seguono non sono mie; sono tratte da Confesso che ho vissuto di Pablo Neruda.
“Queste memorie, o ricordi, sono discontinue e a tratti si smarriscono perché così è appunto la vita. L’intermittenza del sonno ci permette di sostenere i giorni di lavoro.
Molti dei miei ricordi sono svaniti a evocarli, sono divenuti polvere come un cristallo irrimediabilmente ferito. Le memorie del memorialista non sono come quelle del poeta. Uno è vissuto forse meno, ma ha fotografato molto di più e ci appassiona con la precisione dei particolari.
L’altro ci consegna una galleria di fantasmi scossi dal fuoco e dall’ombra della sua epoca. Forse non ho vissuto in me stesso; forse ho vissuto la vita degli altri.
Da quanto ho lasciato scritto in queste pagine sempre si staccheranno – come sugli alberi d’ autunno e come al tempo della vendemmia –le foglie gialle che vanno a morire e le uve che rivivranno nel vino che è sacro. La mia vita è una vita fatta di tutte le vite: le vite del poeta”.