La scena ha un sapore bucolico: padre e figlio, insieme, si dedicano alla raccolta delle olive. Il figlio è un ragazzino di dieci anni, forse undici. Scopre due cose. Il suo nonno paterno si chiamava Angelo, come lui. E poi che, una mattina, nonno Angelo aveva baciato i figli, era uscito di casa ed era scomparso. Lo avevano poi ritrovato annegato in una vasca di irrigazione.
Comincia così C’erano sei re, romanzo in cui il protagonista, ricordo dopo ricordo, narra una storia che parte da lontano e diviene un diario poco rigoroso – anzi, per nulla rigoroso – nel rispetto dell’ordine cronologico degli eventi, perché i ricordi di ciò che si è vissuto ordinati non sono mai e, nel riassumere il passato, nel rimandarlo a memoria e nel raccontarlo, raramente la voce del narratore segue un ordine preciso, ma divaga e s’aggancia a un episodio o all’altro, seguendo la nostalgia e la forza con cui i fatti tornano alla mente.
Mauro Angelo (alter-ego dell’autore, che del protagonista condivide il nome e, stando a quanto scrive, anche una certa parte di biografia) ci racconta della sua famiglia, tutta mammocentrica, con al vertice la nonna-matriarca Valeria e le cinque figlie. Una è Paola, la madre del protagonista. Il teorico capofamiglia è nonno Samuele, un orco gentile, incapace di generare maschi. In un’epoca in cui di patriarcato non s’era ancora sentito parlare (gli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale), “nella testardaggine di ottenere un figlio che tramandasse il suo cognome, sfornò cinque femmine e poi s’arrese”. Col risultato di trovarsi per casa un gineceo preponderante per numero e carattere, in mezzo al quale “tirava avanti e faceva il burbero, delegando a nonna Valeria tutto quello che lei non gli consentiva di comandare”.
Tutto, nel mondo del protagonista e voce narrante di questo romanzo, sembra stare in bilico tra il dramma e la commedia, complice una prosa dal registro brillante ma capace di toccare, con delicatezza, i tasti della commozione. Le pagine scorrono veloci, tra riflessioni profonde: la storia di un viaggio della speranza per incontrare un improbabile santone, la sanatoria di una casa di campagna, i rimproveri di una badante permalosa, la corsa verso l’ospedale a bordo di un veicolo inusuale, una teoria di figure che compongono un universo opprimente e amorevole allo stesso tempo, e anche stravagante, intenso e struggente.
All’origine di tutto il male che si porta via il padre appena cinquantenne del protagonista, e il rapporto conflittuale con la madre Paola, invadente e affettuosa allo steso tempo.
La narrazione in prima persona s’avvolge attorno a un nocciolo rappresentato dal male che affligge la madre del protagonista. Ha un nome preciso, ma Mauro Angelo preferisce chiamarlo in un altro modo.
“È offensivo, mortificante. La chiamo malattia. Chi vuol capire capirà”.
Una malattia che è il centro del romanzo, l’agente che muove la narrazione. Distrugge, inarrestabile, i ricordi e l’identità della madre.
“La malattia si mangia prima i ricordi del passato recente, poi erode sempre più a fondo. Si porta via i nomi, i visi, i gesti, le parole, i pudori, la curiosità, gli affetti. E infine la capacità di articolare una frase, di comprenderne una anche semplice, di masticare il cibo, di camminare. Resta solo un corpo dallo sguardo spento, col quale non riesci più a comunicare, e che solo perché continui a essere un figlio incapace di affrancarsi da questo stato subalterno e doloroso, continui a chiamare Madre.”
C’erano sei re è un romanzo che racconta di un figlio che non sa smettere di essere figlio, e di una madre che lentamente scompare. Un romanzo che sa scuotere nel profondo la sensibilità del lettore.