di Mauro Mirci
Possiamo ringraziare l’editore Aulino, di Sciacca, se il piccolo classico di Giuseppe Guido Lo Schiavo ha rivisto la luce degli scaffali dopo anni di irreperibilità nelle librerie e, salvo congiunture fortunate, anche in rete.
Edito nel 1948, nello stesso anno ne è stato ricavato, dal regista Pietro Germi, un film intitolato “Nel nome della legge”. Nel cast, oltre a Charles Vanel, a un Massimo Girotti agli inizi di carriera e al caratterista Saro Urzì (indimenticabile in film come Sedotta e abbandonata o quelli con protagonista Don Camillo), trovarono spazio anche attori non professionisti, tra i quali Bernardo Indelicato, che su repubblica.it ha lasciato una testimonianza viva e lucida della sua esperienza
La trama del romanzo, abbastanza fedelmente seguita nel film, vede il giovane uditore giudiziario Guido Schiavi giungere nel paesino di Capodarso, per assumere la direzione della locale pretura, lasciata quale “sede vacante” dal suo predecessore, Piovan. Bastano le poche battute dei suoi superiori, una serie di raccomandazioni e amare considerazioni, a delineare il quadro complessivo di distanza culturale e assoluta diffidenza della “Legge” che identifica la popolazione di Capodarso. Dove la vera autorità è il barone Lo Vasto e la legge effettivamente riconosciuta è quella del massaro Turi Passalacqua.
Il libro ha dato origine ad alcune controversie circa il messaggio veicolato, che forse non aveva la stessa capacità di suscitare polemiche quando il libro fu pubblicato (e il film proiettato). Nel 1948, infatti erano in molti a non ammettere nemmeno l’esistenza della mafia. È stato necessario attendere le stragi degli anni ‘70 e il maxiprocesso degli ‘80 perché fosse ufficialmente messo nero su bianco che esisteva un’associazione a delinquere assai organizzata, violenta e priva di scrupoli, chiamata Mafia. Una organizzazione con la quale lo Stato e la società civile sono oggi consapevoli di non dovere accettare alcuna forma di dialogo. Una consapevolezza che fa a pugni con il finale della storia, nel quale il malvagio Ciccio Messana viene pubblicamente consegnato alla Legge dello stato dagli scagnozzi di Turi Passalacqua e il pretore riconosce in questi il vero “re del paese”. Un’alleanza inaccettabile, certo.
Ma la storia prende lo spunto dall’esperienza di Giuseppe Guido Lo Schiavo (trasparente il legame col nome del protagonista Guido Schiavi), giovane magistrato e giurista giunto sino alla presidenza della Suprema Corte di Cassazione, presso la Pretura di Barrafranca, cittadina in provincia di Enna poco distante dal monte Capodarso, il cui nome l’autore prese a prestito. Cittadina difficile per la presenza di un fenomeno mafioso radicato e letterariamente testimoniato. Vale la pena citare il libro di Salvatore Vaiana, “Una storia siciliana tra ‘800 e ‘900”, edito da Bonfirraro, sottotitolato: lotte politiche e sociali, brigantaggio e mafia, clero e massoneria a Barrafranca e dintorni. Se al lettore questi titolo e sottotitolo non diranno molto, basterà far riferimento al romanzo “La mossa del cavallo”, di Andrea Camilleri, e rivelare che proprio dal volume del Vaiana il Maestro ricavò importanti spunti per la vicenda di mafia narrata nel suo romanzo. E vale la pena, forse, riflettere sul ruolo e l’autorevolezza che Sciascia assegna a don Mariano Arena ne “Il giorno della civetta”, trasferendo nel romanzo dialoghi e confidenze scambiati con il capitano Renato Candida (il vero Bellodi), che la mafia l’aveva combattuta davvero, sul campo, e dell’esperienza diede conto nel suo libro “Questa mafia”, ancora oggi acquistabile presso l’editore Salvatore Sciascia di Caltanissetta.
Infine, non trascurerei alcune delle battute conclusive de “Il giorno della civetta”, che Leonardo Sciascia mette in bocca a Bellodi e alcuni amici.
“E gli uomini: sono molto gelosi gli uomini?”
“In un certo modo” disse Bellodi.
“E la mafia: cos’è questa mafia di cui parlano sempre i giornali?”
“Già, cos’è la mafia” incalzò Brescianelli.
“È molto complicata da spiegare” disse Bellodi “è… incredibile, ecco”.
Ecco, se per Sciascia, che della sue reale esistenza aveva contezza, la mafia era difficile da spiegare, e… incredibile, è possibile immaginare quanto difficile da comprendere e, ancor più, da rendere a parole, fosse il fenomeno per un magistrato agli esordi della carriera, precipitato nei primi anni ‘20 del XX secolo nel cuore della Sicilia rurale, dove la legge dello stato è costantemente messa in discussione (ancora oggi, spesso) da usi locali che sconfinano nel tribalismo più selvatico.
Resta il merito di aver lasciato testimonianza di quel mondo, del disagio dell’uomo delle istituzioni che deve convivere con una società chiusa e diffidente che rifiuta leggi “straniere”, delle usanze d’onore, le atmosfere, i silenzi colpevoli, di una terra forse irredimibile, sicuramente ancora irredenta.