di Mauro Mirci
“Caro librino mio” (1) è un volumetto che Amazon dà indisponibile. Nella descrizione si legge poco. Non c’è nulla sulla quarta di copertina e le informazioni commerciali dicono che assomma a 64 pagine, pesa 290 grammi ed è stato messo in commercio, nel 1995, da Giunti. Una minima descrizione si trova su libreriauniversitaria.it. “Un libro per le prime letture, ricco di illustrazioni a colori e di simpatiche avventure. In questo racconto troverai le emozioni, le idee e i sentimenti di un bambino che guarda il mondo e la vita di tutti i giorni con piccoli grandi occhi, e poi confida i suoi pensieri al librino del cuore.”
Insomma, un libro per bambini o ragazzini, scritto guardando le cose del mondo con gli occhi di un bambino.
Se ne trova notizia in una pagina html relativa al concorso Fahrenheit, in una recensione che dice: “Io ho letto un bellissimo libro, ve lo consiglio perché ci sono dei bei disegni e perché fa ridere. In ogni pagina ci sono tante frasi, alcune sono noiose ma la maggior parte no. Lo consiglio a quelli a cui piace ridere”. Se trovate che lo stile sia elementare e l’approfondimento critico discutibile, avete ragione. L’estensore della recensione ha infatti più o meno 7 anni e frequenta la 2^ B di una scuola elementare di Imola. O, più correttamente, aveva circa 7 anni e frequentava la seconda elementare nel marzo del 2000, data della recensione [che potere trovare qui: http://kidslink.bo.cnr.it/fahr-ele/fahr2000-ele/msg00089.html ]
Insomma, troppo poco per farsi un’idea precisa dell’opera, ma, almeno nelle linee generali, qualcosa sappiamo.
Dell’autrice, Lucia Tumiati, scopro che è una signora ormai di una certa età, di origine veneziana. Padre medico e antifascista, madre ebrea. Le leggi razziali del 1938 costringono madre figlia a separarsi dal padre e a vivere nascoste. Partecipano anche alla lotta partigiana, come staffette. Nel 1945 la madre muore e Lucia si ricongiunge al padre, a Firenze. Si laurea in lettere e si dedica alla scrittura, soprattutto a quella per ragazzi.
Copio e incollo un brano tratto da un’intervista rilasciata in rete (1).
“La libertà non è un dono eterno. E non esiste solo la libertà politica. La libertà dal dolore, dalla solitudine, dalla emarginazione, dalla incultura. Un autore non è un maestro, non è un genitore, non è un ‘confessore’. Rappresenta, o vorrebbe rappresentare, un amico, un amico particolare e un poco misterioso, che ti dice le cose che nessun altro ti racconta. Per crescere meglio, in un mondo solidale e più giusto. Nei molti libri che ho scritto ho cercato di privilegiare la dimensione privata rispetto a quella pubblica e politica, anche se la mia vuole essere prima di tutto una dimensione impegnata e democratica.”
La sua attività letteraria è stata (è?) lunga e intensa, ed è stata dedicata soprattutto al mondo dell’infanzia e della prima adolescenza. Ha scritto romanzi, racconti e fiabe per ragazzi e bambini, ha ricevuto premi letterari, ha collaborato a riviste e periodici, è stata amica di Gianni Rodari.
Mi riuscirebbe assai difficile attribuire intenti razzisti e discriminatori a una donna del genere. E, per questo, mi domando: ma come fa una cosa scritta da Lucia Tumiati a finire al centro di una polemica accesissima per i suoi contenuti razzisti e discriminatori?
Anche se la risposta la conosco benissimo: è cambiato il punto di vista. Anzi no: è proprio cambiato l’osservatore.
Siamo, oggi, una nazione che non può più trattare con paterna condiscendenza il diverso e lo straniero. La seconda generazione di immigrati, con cittadinanza o meno, parla i dialetti delle nostre regioni e gli slang delle italiche periferie. La gran parte dei bambini e dei ragazzi di arrivo recente guardano la stessa TV di un pari età italiano da generazioni. E, soprattutto, apprende i modelli di comportamento e gli indirizzi di tassonomia sociale dagli stessi social media. I balletti, le sfide e i meme circolano, pari pari, sul cellulare del nipote di un vecchio imprenditore bergamasco e su quello del figlio del nigeriano col permesso di soggiorno in scadenza. Lo straniero, insomma, non è più un elemento esotico, anzi, non è nemmeno più straniero. Perché è difficile definire straniero chi parla il tuo stesso dialetto, ha studiato nella tua stessa scuola, magari è pure nato nello stesso ospedale. Avrà magari problemi legati allo sradicamento della famiglia dalla patria di provenienza, alla necessità di confrontarsi con modelli culturali distanti da quelli della famiglia. E, al contempo, vivrà il disagio di sentirsi più italiano che somalo, o egiziano, o cinese. Perché della terra da cui viene la famiglia sa poco, e magari non c’è stato mai; conosce la realtà in cui vive, l’Italia cioè, o meglio quella piccola porzione d’Italia di cui ha esperienza diretta. E che talvolta lo rifiuta.
Quella italiana non è più una società (apparentemente) uniforme, nella quale si distingueva, per colore diverso o lingua, l’elemento “diverso”. Quella di oggi è un conglomerato eterogeneo alimentato da sempre nuovi arrivi e contaminazioni. La cosa non è negoziabile o efficacemente contrastabile. Si tratta di un processo irreversibile, già avvenuto ovunque nel mondo, in ogni epoca e latitudine. Sin dal tempo dello spostamento dei primi ominidi dalla Rift Valley verso nord, sin dal tempo della migrazione bibliche della tribù di Abramo, alle più recenti migrazioni verso il Nuovo Mondo o, ancor più recentemente, dal Terzo Mondo verso l’Europa, i popoli vagano e mischiano, coi vicini e le nazioni conquistate, DNA e usanze.
A dispetto di ogni insofferenza, diffidenza e paura, gli essere umani, di qualsiasi colore e caratteristica che li distingua, continueranno a miscelarsi (e, facendolo, a generare nuove convenzioni di separazione etnica).
E, in questa continua mutazione, dobbiamo accettare che cambi anche la sensibilità verso i cliché etnici e sociali. Ciò che una volta era normale, adesso è violenza. Lo sfotto e il pregiudizio basato su caratteristiche somatiche e cromatiche sono diventati, ancor più che esercizio di scorrettezza, proprio espressioni di imbecillità e incultura. Non sono più accettabili i “sì badrona” di Via col vento, o certe parodie della gente africana presenti in film della commedia italiana o della pubblicità di qualche anno fa [roba tipo queste, per capirci: https://www.youtube.com/watch?v=Yk5XZke9-T0].
Insomma, la globalizzazione ha colpito al fegato anche gli italici sciovinismi e la ridicolizzazione etnica. Non si può fare più. E’ cretino farlo. Era accettata nel passato (nemmeno passato da tanto). Crudelmente accettato. Allo stesso modo in cui era accettato picchiare i figli per educarli meglio, sopprimere i neonati malformati, far praticare l’aborto dalle mammane, uccidere la moglie infedele e godere delle attenuanti del delitto d’onore. Cambia il mondo, cambia la lingua, cambiano le convenzioni. E la convivenza di generazioni diverse causa incapacità comunicativa e scarsa disponibilità a guardare le cose con occhi dell’altro.
Poi viene fuori lo scandalo. La pagina di un libro scolastico: due bambini che s’incontrano. E il bambino italiano che dice alla bambina con le treccine: “Sei sporca o sei tutta nera?”. Una frase per la quale, negli anni ’70, non esisteva alcun tipo di sensibilità e che sarebbe stata bellamente ignorata. Infatti, quella frase sta in un racconto del libro “Caro bruco capellone”, edito da Mondadori nel 1973.
L’editore Giunti ripubblica il libro nel 1996. Epoca diversa, sensibilità diversa. E infatti, è polemica. La stessa Lucia Tumiati risponde, dalle pagine di Repubblica, a un lettore scandalizzato. Scrive: “I bambini piccoli (ieri più di oggi) non hanno mai visto un loro simile di altro colore e, se lo vedono, la prima reazione, come per qualsiasi altra novità, è di sorpresa. Ma la sorpresa non è razzismo.”
Il lettore scandalizzato, per la verità, non fa marcia indietro, e ribatte: “Lei paragona il colore scuro della pelle di un bambino allo sporco e alla cacca… e insegna questo, grazie al suo prezioso libro di testo, fin dalla tenera età di cinque anni ai nostri bambini.” (2)
Insomma, nessuno cambia idea. Resta il fatto che, a distanza di ventitré anni la polemica si riaccende, per la pubblicazione del testo su un libro per le scuole elementari. E amplificata, stavolta, da un gran battage sui social media.
Povera Lucia Tumiati, ributtata in mezzo alla mischia da un improvvido redattore di libri scolastici. La prosa garbata e retrò di una autrice dalla onorevole storia personale e professionale è stata gettata nella terra di nessuno che divide le trincee dei benpensanti buonisti di sinistra da quelle dei neo-proletari neo-fascisti. Il brano tratto da un libriccino per bambini, ormai praticamente fuori commercio, è preso a morsi e sputi da folle inferocite e politically correct di entrambi i fronti, mentre trasversali frotte di hater abituali recano necessario rifornimento di energie tossiche e chiamate alla pugna a chiunque interessi.
Ecco, è tutto, o quasi.
Aggiungo solo che ho provato, forte, lo stimolo di astenermi dallo scrivere qualcosa sulla faccenda. Per paura di finire anche io nella mischia tra picchiatori virtuali di due o tre fazioni diverse, ognuna delle quali potrebbe accusarmi di tenere per la squadra avversaria, come ormai accade d’abitudine per ogni questione e a ogni divergenza d’opinioni. Sintomo evidente, ritengo, della difficoltà nello sviluppare ragionamenti autonomi e non partigiani, a confondere la realtà con un campo di battaglia e a dividere l’umanità in amici e nemici.
(ma.mi. 27.09.2020)
(1) http://zazienews.blogspot.com/2010/07/lucia-tumiati.html
(2) Chi vuole, può leggere il testo integrale qui: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/02/23/come-essere-razzisti-senza-volerlo.html