di Mauro Mirci
Il 17 gennaio 1991 la giornata cominciò in maniera movimentata. Nell’appartamento da studenti in cui abitavo, un bell’appartamento con quattro stanze, due bagni, otto posti letto, un comodo soggiorno e grandi cumuli di immondizia che di cui raramente ci disfavamo, abitava anche un neogeologo di nome Sergio. Abitava ancora con noi studenti perché frequentava uno studio tecnico dove faceva pratica professionale e non lo pagavano. Sergio mi aveva preso a benvolere. Mi dava consigli, gli piaceva ascoltarmi, forse perché lo incuriosiva l’accento curioso dei galloitalici piazzesi. Una volta, addirittura, mi aveva portato con sé ad assistere a una tragedia nel teatro greco di Siracusa. Mi pare fosse l’Oreste… no, Egisto, era l’Egisto.
E insomma, tra noi c’era una certa confidenza e lui s’era assunto l’obbligo di sgrezzarmi un poco. In quel periodo, tra l’agosto e la fine del 1990, si era tutti in trepidazione per questa strana faccenda dell’Iraq che aveva invaso il Kuwait. Giovanissimo e digiuno di una qualsiasi formazione politico e geopolitica, non mi capacitavo di come un dittatore buono, che aveva combattuto contro l’Iran nemico dell’occidente, adesso fosse diventato a sua volta un nemico. Quel che intuivo (“capivo” sarebbe una parola grossa), era il pericolo che un conflitto determinasse la chiamata alle armi. Erano ancora tempi di servizio militare obbligatorio e non ero sicuro che, con una guerra in corso, sarebbero bastate le due canoniche materie annuali per evitare la cartolina rosa.
Ma era una situazione ipotetica. In fin dei conti ci credevamo poco. Perciò, quando Sergio, quella mattina del 17 gennaio 1991, cominciò a girovagare per l’appartamento declamando ad alta voce le ultime notizie, all’inizio non capii, poi mi sembrò uno scherzo. “Tutti per aria”, comiziava. “Tutti bombardati. Donne e bambini, giovani e vecchi. Bombe e bombe, bum, pezzi di bambini nel cielo, pezzi di donne nel cielo, viva l’America, viva la libertà, viva il petrolio.”
Be’, d’accordo, non ricordo se abbia pronunciato esattamente queste parole, ma il senso di quello che diceva, pur se ascoltato alla fine del dormiveglia dal quale mi strapparono, era questo. Ne sono certo.
Poi, col tempo, ci siamo abituati ai bombardamenti umanitari. Kosovo, Serbia, Iraq (dopo l’11 settembre), Libia. Non li ricordo tutti. Se vuoi donare la libertà a un popolo, bombardalo. Te ne saranno grati e, se non lo saranno, comunque non potranno lamentarsene.
Stamane, quando ho acceso la TV, non ho potuto evitare di pensare al quel 17 gennaio. Per quel che mi riguarda, per la mia personale memoria della storia recente, fu il momento zero dell’attuale stato di guerra perenne. Combattuta in posti lontani, sporchi, abbandonati dal nostro Dio e abitati da feroci saladini. Così mi dicono, così mi tocca credere. Chi può verificare?
In ogni modo, oggi la guerra è entrata in casa mia in maniera più educata. Ho acceso la TV, appreso la notizia che durante la notte avevano bombardato alcuni impianti siriani per la produzione di armi chimiche con oltre 100 missili. 120, secondo un successivo testo scorrevole, in basso nello schermo.
La 7, ben organizzata, aveva già convocato un generale (in pensione) il quale ha spiegato come il bombardamento sia servito a salvare la faccia di Trump solo nei confronti di chi non capisce che non ha potuto bombardare le zone sotto tutela russa. Però, in fin dei conti, dal punto di vista strategico, non è che sia stata questa grande azione militare. Non saprei argomentare meglio, ma in fin dei conti che m’importa? Hanno bombardato lì, mica qui. E’ una notizia di cronaca in TV, e finché non esce di lì equivale alla fiction. Poco interessante, peraltro, perché in pochi capiscono la trama di questa storia.
Apprezzo il senso della misura. Poco rumore, poco sensazionalismo. Un nuovo bombardamento umanitario, tutto qui. Chi è morto se lo meritava, degli altri non facciamo menzione: non è detto ci siano. E, in ogni modo, anche se ci sono, sarà bene non dirlo nemmeno. Non parlate al conducente. Non parlate del conducente.
Conduciamo serenamente la nostra vita di ogni giorno. Accompagnare i bambini a scuola, fare la spesa, prendere un caffè al bar, incontrarsi, aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare, grattarsi.