L’unica che c’è

di Mauro Mirci

Questa è la storia di una foto importante.
Una foto unica.
La guardo ogni volta che vado a far visita a mia madre. Lei non la vede nemmeno più, così come non vede quasi nulla di ciò che è abituale. Fa parte del panorama quotidiano esposto ai suoi occhi, sempre presente. E sempre uguale, perché qualsiasi cambiamento potrebbe avere conseguenze terribili per lei. Ma è un tutt’uno, un’immagine complessiva che sta lì, alla quale non dedica attenzione.
Una foto che è quel che è, e sarebbe stata diversa se solo chi l’ha scattata avesse posseduto uno smartphone. Ma era il 1981 e certe tecnologie esistevano solo in Spazio 1999. 1999, anno che sa di passato remoto. Un’altra era. E infatti è già un millennio fa. Sono cose che ti fanno sentire abbastanza vecchio, soprattutto se in quel millennio che fu ci hai vissuto per più di trent’anni. Un po’ ti senti come un dinosauro sopravvissuto al Cretaceo. Il fatto di condividere lo stesso destino con qualche miliardo di esseri umani tuoi coetanei non attenua la sensazione di sentirsi una via di mezzo tra un grande custode della memoria e un maturo signore nato all’epoca dei grandi sogni spaziali e adesso, quasi esclusivamente, alle prese con mutui, bollette e noiosissimi scartafacci d’ufficio.

Nel 1981 ancora sognavo lo spazio. Con la fantasia eccitata da film e fumetti di fantascienza, di nascosto dai genitori e clima permettendo, mi sdraiavo per terra nel terrazzo di casa, occhi al cielo, braccia sotto il capo. E guardavo le stelle. La città non era illuminata come oggi, i lampioni emanavano una luce triste. Ma il firmamento era lì, sopra di me, ben visibile. Allora sapevo distinguere Piccolo e Grande Carro. E sapevo che la prima stella a sorgere, la più luminosa di tutte, era Venere. Provavo a indovinare la posizione di Proxima Centauri e della nebulosa Testa di Cavallo. Le piazzavo a caso, da qualche parte tra la Via Lattea e il buio del vuoto siderale. Poi m’intristivo. Pensavo che non avrei mai visitato altri mondi, che l’Arkadia esisteva solo nei cartoni animati, che ero legato a doppio filo alla terra.
Qualche volta, a pensare queste cose, mi veniva da piangere. E se non piangevo mi portavo appresso la tristezza per un bel pezzo. Quindi tanto valeva sfogarsi e tornare sulla terra per intero. Sia con il corpo, che già c’era, sia con la mente che rischiava di rimanere, vagabonda, in orbita da qualche parte nell’universo.

Poi son successe delle cose. Sono sopravvenute altre tristezze più meritevoli di attenzione. Ho dimenticato le stelle.

Ci voleva questa foto per riportarmi tutto davanti agli occhi. Un brutta foto. Ribadisco, se mia zia avesse posseduto uno smartphone, avremmo potuto verificare il risultato dello scatto, ritentarlo, rimetterci in posa.
Invece no. Nel 1981 il telefono serviva a telefonare, attaccato al suo cordino e alla presa. Non esisteva nemmeno la distinzione tra fisso e mobile, perché non ce n’era motivo. Le foto si scattavano con la macchina fotografica. Mio padre possedeva una Ferrania, credo che il modello si chiamasse Eura. O Diana. Sì, più probabilmente Diana. “Fotocamera per il medio formato, prodotta negli anni ’60 e destinata ai fotografi meno esigenti”. Era una macchina graziosa, leggera, tutta manuale. Facile da usare, nonostante tutto. A patto di non essere mia zia.
Mia zia aveva due grossi problemi. Il primo era una grande diffidenza nei confronti della tecnologia e di tutti i suoi frutti. Questo per dire che una macchina fotografica Ferrania, praticamente un giocattolo, nella mia famiglia era considerata “tecnologia” comunque. Tecnologia complicata, secondo mia zia, che nel 1981 aveva, credo, solo quarant’anni o giù di lì.
Il secondo problema era la maniera con cui la già più volte nominata zia affrontava di solito qualsiasi impegno le venisse proposto da chiunque non fosse lei stessa. Ché, se giungeva autonomamente a decidere qualcosa da fare, si poteva essere sicuri che l’avrebbe condotta con il massimo impegno e suprema diligenza. Ma se, come quel 12 aprile 1981, di far qualcosa le fosse stato chiesto, si poteva avere discreta certezza che prima avrebbe risposto no, non lo so fare. Poi avrebbe avanzato le scuse più disparate per eludere l’impegno. Infine, messa con le spalle al muro, avrebbe acconsentito, ma anche premesso che comunque non garantiva sulla qualità dei risultati.
Non so se poi i risultati dipendessero effettivamente dalla sua incapacità a condurre a buon fine qualsiasi attività di contenuto pratico, o se, solamente, mettesse il minimo di cura nel fare le cose richieste giusto per dimostrare che, veramente, non le sapeva fare e, così, dimostrarci quanto avessimo fatto male a chiederle di farle.
Qualcuno potrebbe obiettare che, descritta così, appare una persona abbastanza inaffidabile. E, non so, forse lo era davvero. Inaffidabile, intendo. Ma quel pomeriggio del 12 aprile 1981, verso le sei, sette del pomeriggio, in casa con noi c’era solo lei. E a lei dovemmo affidarci per scattare la foto di famiglia che avrebbe dovuto ricordare il quinto compleanno di mia sorella. La trafila di tentativi di dinieghi ed elusioni l’ho già descritta. Le fu cacciata in mano la Ferrania già pronta da usare. C’era solo da inquadrare la scena e scattare.
Mi zia portò a termine l’incarico con la consueta perizia. Non so se abbia chiuso gli occhi al momento di scattare (è possibile), oppure diede uno strappo al momento di schiacciare il pulsante di scatto.
Fatto sta che l’unica foto scattata quel giorno è un manuale di come non si fa una foto. Mia sorella è l’unica che viene bene: di profilo, mentre soffia sulla candelina col numero 5 (candelina che mi ha consentito di datare la foto). Mio padre, con un’espressione inspiegabilmente preoccupata, viene privato di un ciuffo di capelli, mentre io, già occhialuto, subisco l’asportazione della calotta cranica e del relativo scalpo. Ben peggio va a mia madre, praticamente decapitata, visibile solo dalla mandibola in giù. In compenso si vede abbastanza bene la sua collana. Tovaglia e stoviglie fanno un figurone, piazzate in primissimo piano e ben illuminate. Osservando questa grande superficie candida sembra di trovarsi davanti a un panorama artico. Un picco ghiacciato (un tovagliolo credo) colpito in pieno dal flash, proietta la sua ombra sino alla spalla di mia sorella, inopportunamente oscurandola. Con un po’ di sforzo la zietta avrebbe pure anche potuto coprirle il viso, con l’ombra del tovagliolo. Ma è andata così, qualcosa di guardabile nell’immagine doveva pur venire.
Ogni volta che vedo questa foto mi viene da piangere, come quando guardavo le stelle. Un poco è perché rivivere quel momento trascorso in famiglia è impossibile tanto quanto viaggiare negli spazi siderali. Un po’ per il senso d’impotenza che provo a guardare l’unica foto in cui siamo insieme, tutti e quattro, in un momento felice. Anzi, in un momento qualsiasi. Non ci sono altre foto del genere, né sullo stesso rullino, né su altri. Non avevamo l’abitudine di scattare foto in famiglia. Le immagini erano affidate alla memoria. Solo a quella. Forse è per questo che le immagini di quell’epoca che mi tornano in mente sono solo belle.
Se voglio rivederci com’eravamo davvero, anche se solo in quell’attimo congelato nell’emulsione della carta fotografica, quella è l’unica foto che c’è. Ed è una foto brutta. Brutta in maniera irrimediabile. Ma è l’unica, bisogna farsela bastare. Sta in una cornice da due lire, nel mobile della televisione. La osservo ogni volta. Lo sguardo (chissà perché) preoccupato di mio padre, l’espressione concentrata di mia sorella, il sorriso di mia madre (sì, s’intravede appena, ma c’è).
E guardo me stesso. La mano sinistra aggrappata al braccio di mamma. Un mezzo sorriso, gli occhi persi nel vuoto. Forse pensavo alle stelle.

 

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