di Mauro Mirci
Angelo Maddalena, di Pietraperzia (EN). Studia da geometra, poi si trasferisce a Milano, per studiare materie letterarie all’università cattolica. Fa brevi esperienze di esperto esterno in progetti nelle Scuole e supplente prima di dedicarsi alla scrittura e alla musica. E soprattutto al viaggio. Ogni volta che ci sentiamo, prima gli chiedo come sta, poi dov’è. In genere non è mai dove mi aspetto. Da anni gira l’Italia e l’Europa, in compagnia della sua chitarra, proponendo testi suoi e di altri autori siciliani. I suoi scritti, ironici e immediati, rappresentano un punto vista inusuale rispetto ad argomenti e temi di stretta attualità, come il disagio dei diseredati, i movimenti di protesta, la marginalità del Centrosicilia, lo sfruttamento dell’essere umano, la solitudine.
Ha esordito con il romanzo autobiografico “Un po’ come Giufà”, edito da Lancillotto e Ginevra, piccolo editore dell’ennese. Dopo aver, per primo, tradotto in italiano il romanzo di Girolamo Santocono “Rue des italiens” e avere pubblicato con alcuni piccoli editori, Angelo ha optato, convintamente, per l’autoproduzione, divenendo editore di sé stesso sotto lo pseudo-marchio Edizioni Malanotte. Ha recentemente autoprodotto un diario illustrato del suo viaggio in Argentina, “Buenor Aires stupor tour”.
Le ultime notizie lo danno in tour per la presentazione del nuovo libroillustrato e musicato (il CD “cammina” assieme al libro) “In viaggio con Leopardi”, percorso attraverso tre città dove il poeta di Recanati ha abitato: Bologna, Firenze e Pisa.
Insomma, lo conosco da quattordici anni, ormai. Mi sembrava il caso di porgli alcune domande.
Mauro – Ciao Angelo, come va? Dove ti trovi, adesso?
Angelo – Ciao Mauro, va bene, grazie, tornato ieri da una piccola tournée per presentare lo spettacolo e il libro In viaggio e in canto con Leopardi, con un cd allegato Maddalena canta Leopardi. Mi trovo a Dolceacqua, dove vivo da più di un anno con la mia compagna Ilaria e la sua gatta Saponetta.
M – Ti ho conosciuto, quattrodici anni fa, che avevi appena pubblicato un romanzo autobiografico dal titolo “Un po’ come Giufà”. L’editore aveva un nome suggestivo: Lancillotto e Ginevra. In quel libro descrivevi sia la vita del tuo paese d’origine, sia i tuoi primi viaggi. Adesso, dopo tanto tempo, che rapporto hai con quel libro?
A – Grazie intanto per aver iniziato questa conversazione partendo dal mio primo libro, che ho pubblicato nel 2003, quando non ero ancora “famoso”. Quel libro rimane per me sempre la base, il trampolino di lancio, detto con una frase forse un po’ strafatta. Ricordo quando ci incontrammo con te al Sicilia Roma Festival nel 2004 appunto, o forse era dicembre del 2003.
M – Se la memoria non m’inganna, era il 2003. Io ero senza voce e tu senza la tracolla per la chitarra.
A – C’erano anche Alfio Antico, Alessio Di Modica, Luca Recupero, e c’eravamo io e te! E tua moglie Agata. Quel libro quindi mi aprì un po’ di porte, di orizzonti e mi fece incontrare persone interessanti e importanti. Poi cominciai a fare spettacoli “annessi” alla presentazione del libro, spettacoli di cantastorie tradizionale e primi esperimenti da cantautore, quindi posso dire che senza quel libro non sarei riuscito a uscire dal guscio che mi stavo creando in quel periodo: l’isolamento in campagna, la fuga dal mondo, poetico e romantico tutto ciò, ma pericoloso da un punto di vista del narcisismo che può provocare, infatti io grazie alla letteratura riuscìi a venirne fuori: voglio ricordare anche il racconto che scrissi in quel periodo, Acqua, cavalli e noci, ambientato proprio nel cuore di quel periodo “selvatico”; e pubblicato nell’antologia Selvatico e coltivato (Stampalternativa edizioni), che fu il primo racconto pubblicato da una casa editrice seria che ebbe una distribuzione nazionale importante per me che allora, con Lancillotto e ginevra, arrivavo in libreria…da distributore e non solo da scrittore: cioè portavo io i libri in libreria, perché Lancillotto e Ginevra, come tante
case editrici, diceva di avere una distribuzione ma…
M – E, sempre a proposito di quel libro, chi è Giufà, secondo te? Lo stupido, il furbo, il finto tonto?
A -Giufà per me è una figura che riflette e riporta in un certo modo l’anima del mediterraneo: l’ingenuità e la scaltrezza, la generosità e l’intelligenza pratica, l’arte di arrangiarsi, il rifiuto di certe regole sociali troppo rigide, insomma: un artista della vita, un maestro dell’arte di vivere giorno dopo giorno, e di ingannare e irridere i presuntuosi e gli arroganti.
M -Giufà è una figura, quasi una maschera, siciliana, che però proviene da culture diverse dalla siciliana. Fino a che punto ti riconosci in Giufà, se ti riconosci in lui?
A – Proprio dopo la tua prima domanda su Giufà, mentre scrivevo, pensavo al côté (perdonami questo francesismo) “napoletano” di Giufà, anche se Giufà viene dalla Turchia, da una regione che confina con la Siria credo, e poi si diffonde in tutto il bacino mediterraneo e anche in Sicilia. Tu avevi iniziato a scrivere un romanzo su Giufà che mi avevi fatto leggere molti anni fa e mi manca non poter leggere la continuazione.
M – Be’, diciamo che la continuazione non c’è. Non l’ho mai terminato. Mi sono fermato quando sembrava che la cosa fosse interessante, proprio come avrebbe fatto Giufà.
A – Io mi riconosco molto in Giufà, credo che la mia vita sia una sorta di “inno a Giufà”, un po’ per la mia poetica, un po’ per la mia origine mediterranea, e comunque ho sempre vissuto “alla Giufà”, soprattutto dopo la pubblicazione del mio primo libro, perché da allora mi sono messo in cammino in cerca della mia strada con uno spirito di ingenuità e scaltrezza, a volte di “falsa ingenuità”, ma non per ingannare o nascondermi, ma per difendermi dal mondo e al tempo stesso poter “attaccare” il mondo: due esempi mi vengono da fare: una volta su un treno tra Roma e Civitavecchia due tipi volevano rubarmi la bicicletta, e ci stavano riuscendo, un po’ con minacce e un po’ per via della mia ingenuità. A un certo punto, quando il treno stava per fermarsi alla stazione, e la bicicletta era nelle loro mani, ho fatto un gesto molto “alla Giufà”, e cioè l’ho fatto senza pensare al pericolo, ma perché lo facevo ingenuamente, forse per una ingenuità inconscia e di difesa: praticamente andai dai tipi e mi ripresi la mia bicicletta, dopo che loro mi avevano intimidito e pensavano che ormai fosse fatta: infatti dopo che io me la ripresi dalle mani di uno dei due, credo che loro siano rimasti per un attimo bloccati da quella mia ingenuità quasi irreale, infatti dopo un po’ mi si avventarono contro, ma io mi misi a urlare e loro scapparono alla fermata del treno. Un altro esempio “estremo” è la nascita di alcune mie canzoni ma in particolare Mi scantu di jurnu di un pastore errante siciliano: dopo le minacce, i soprusi e le pressioni del giovane pastore nei miei confronti, mi chiese di scrivere una canzone per lui, altrimenti mi avrebbe bruciato la casa (magari non lo avrebbe fatto ma intanto lo disse, e altre cose me le fece per davvero, fuori o dentro la mia casa, come illustra bene la canzone), allora io ho scritto questa canzone di cui Daniela F., di Palermo, dopo averla ascoltata, disse: “Tu ti sei difeso dalla violenza con la poesia”, e poi una donna di Caltanissetta dopo averla ascoltata disse: “Con questa canzone racconti di gesti mafiosi e delinquenziali subiti come fossero caramelle”. Credo che in questo ci sia molto Giufà, in quest’arte in parte inconsapevole di transfigurare la realtà con l’ingenuità, ma al tempo stesso raccontarla, senza sconti, quindi in un certo senso riscattarsi e vendicarsi.
M – Mi è difficile non identificarti con la Sicilia. Nonostante l’inarrestabile vagabondare, il tuo accento è rimasto presente e siciliano è rimasto il tuo modo di costruire le storie e le frasi. Ma questo interesse per la Sicilia, in Italia e in Europa, c’è davvero, oppure è una sorta di autogratificazione che i siciliani riservano, quasi con una funzione consolatoria.
A – Il secondo cd di canzoni che ho autoprodotto con Mariella Siciliano, che tu hai conosciuto prima che decidesse di mettere fine alla sua vita terrena, si chiama Certi voti, e comprende 11 canzoni tutte in lingua siciliana tranne una. Credo sia stata una tappa obbligata per me (e credo in generale per un cantore popolare che viaggia e si apre diversi orizzonti) partire o passare dal periodo “folk”o tradizionale quindi vernacolare. Poi il fatto di viaggiare, come diceva Ignazio Silone, e la lontananza, aumentano forse il bisogno di raccontare e ricostruire certe parti delle proprie origini: l’ho fatto in almeno due monologhi teatrali, ma senza accenti folklorici, anzi: memoria storica rimossa più che altro o a rischio di cancellazione. Io poi sono uscito per la prima volta dalla Sicilia a 19 anni, e quindi, come c’è scritto nel libro Il gattopardo, “se un siciliano esce dalla Sicilia dopo i 18 anni, la scorza gli si è già chiusa”. E poi la narrazione e la canzone popolare, che ho abbracciato subito come stile narrativo, mi hanno riportato spesso alle origini. Purtroppo l’interesse per la Sicilia, che tu lucidamente chiamavi “nuovo Tibet” quando nel 2004 i primi belgi venivano a comprare casa a Pietraperzia, attirati da me (col senno di poi me ne pento), è spesso, in Italia e in Europa, vissuto senza consapevolezza e con funzione consolatoria: sia per chi è siciliano, sia per chi ascolta gli artisti siciliani. Io non potevo evitare un approccio profondo e non consolatorio (anche se un po’ di consolazione c’è sempre nel ricostruire e riportare un mondo lontano e perduto), visto che ho iniziato il mio percorso da cantastorie con i testi di Ignazio Buttitta e Rosa Balistreri. Purtroppo però, anche questo non è sempre una garanzia di profondità: quando penso a Carmen Consoli che canta e cita Rosa Balistreri o a Carlo Muratori che canta Buttitta, mi viene un certo disgusto, visto che lo stile di vita e di arte che loro promuovono è lontano anni luce da quello della Balistreri e Cicciu Busacca e Ignazio Buttitta. Ti posso fare anche un esempio: una volta, quando ero ancora “pivello” e senza un percorso definito, andai a trovare a casa sua Carlo Muratori che doveva farmi fare uno spettacolo vicino Siracusa. Mi sentii trattato da dilettante, umiliato. Mi fece cantare una storia di Ciccio Busacca e io sentii diffidenza per lo stile povero dei cantastorie che aveva coinvolto migliaia di persone nel profondo, comunicando direttamente un mondo di miseria e di riscatto del popolo siciliano. Confesso di esserci rimasto male. Rosa Balistreri non suonava la chitarra in modo “accademico”, ma l’arte popolare e la semplicità del racconto e del canto popolare hanno un valore indipendente dalla perfetta padronanza dello strumento. Pochi cantastorie, che io sappia, sono stati maestri di chitarra. Ho conosciuto gente che ha fatto il conservatorio o ha studiato chitarra per anni ma che non ha mai scritto una canzone. Ecco, mi turba pensare che un riconosciuto cantore popolare come Muratori possa nutrire diffidenza verso la genuina canzone popolare. Che, proprio per essere popolare, non può sempre avere una esecuzione “professionale”.
M – Il tuo percorso artistico ti ha portato lontano. Adesso scrivi, componi, suoni, canti, reciti monologhi. Cosa avrebbe pensato il te stesso adolescente del te stesso di oggi?
A – Ma, diciamo che in un certo senso, l’adolescente che ero, e chi mi conosceva da adolescente, sapeva che dipingevo, scrivevo e abbozzavo anche canzoni fin dalla più tenera età, senza nemmeno saper suonare la chitarra, perché ho iniziato a prendere possesso dello strumento verso i 25 anni, anche se prima avevo fatto qualche tentativo. Poi devo dire che io sono cresciuto in un contesto ricco di stimoli, anche se non troppo “visibili”, però mia zia Nunziata, la sorella di mia nonna, scriveva poesie ed era una donna molto irregolare e anarchica per i suoi tempi (nel libro Un po’ come Giufà l’ho chiamata la “zia Silvia”), e suo padre, cioè mio bisnonno, era uno scrittore: Vincenzo Jaria, e anche traduttore dal francese di alcune novelle di Zola. Poi effettivamente, ho dovuto fare tutto un percorso per tirar fuori le cose che avevo da dire, e l’adolescente che ero direbbe: “Be’, non avrei mai immaginato di arrivare a tal punto, o meglio, immaginato sì, cioè sapevo che dovevo fare questo, dentro di me, ma non conoscevo la strada per arrivarci, e il percorso per tentativi ed errori è stata la cosa più bella e divertente di tutto ciò”.
M – Avrei voluto sempre chiederti una cosa. Te la chiedo adesso. Cosa spinge un ragazzo della Sicilia centrale a rinunciare a un futuro da geometra per affrontare un percorso di studi a Milano e in discipline assolutamente diverse da quelle tecniche?
A – Questa domanda che mi fai mi rende orgoglioso e anche “soggetto di riscatto epico” (la dico grossa!) per chissà quanti giovani del centro Sicilia e non solo del centro Sicilia: chissà quanti hanno studiato quello che non volevano perché costretti più o meno ufficialmente dai genitori o da altri adulti di riferimento. Per me è avvenuto proprio questo: il geometra era l’ultimo tipo di scuole superiori che avrei voluto fare, ma la professione (anche quella di ripiego) di mio padre e il suo condizionamento direi perverso – ma forse salvifico, alla lunga, per me – mi hanno fatto “ripiegare” verso il Geometra. Ricordo che mi ero iscritto all’Istituto d’arte di Enna e il mio compagno di scuola media con il quale ci eravamo iscritti, Sebastiano L., ci restò malissimo quando gli dissi che mi ero iscritto al Geometra di Caltanissetta! Certo, da allora, dopo le frustrazioni e le umiliazioni durate 5 anni, per cui conseguii un diploma controvoglia, dissi a me stesso che costasse quel che costasse, non avrei mai più accettato decisioni dall’alto e contro il mio volere e la mia “vocazione” (è un termine cattolico ma ci sta bene). L’Università a Milano e le discipline letterarie erano quello che volevo, anche se Milano fu una scelta anch’essa “obbligata”, ma che poi ho capito essere una grande risorsa, rispetto a piccole città del centro nord più “poetiche” forse ma molto più provinciali e grette (come poi ho potuto scoprire viaggiando). Quando pubblicai il mio primo libro, la mia professoressa di Latino dell’Università mi disse che io scrivevo con uno stile più libero di chi aveva fatto studi classici, che spesso possono inibirti, perché i modelli classici ti fanno sentire in un certo senso “inadatto” a dire certe cose che altri hanno detto prima di te.
M – Le tematiche da te affrontate sono sempre legate a eventi e personaggi “contro”, o ad autori che affrontano il discorso sulla società, sulle diseguaglianze sociali, sulla ripartizione delle ricchezze, da punti di vista diversi da quelli soliti e condivisi da gran parte della gente. O forse no, non è vero che la gran parte della gente sia distante dalle tematiche affrontate da Angelo Maddalena e dai suoi autori di riferimento?
A – La mia formazione cattolica e sociale mi ha sempre portato a vedere il mondo dalla parte degli oppressi, per usare un termine un po’ “datato” ma purtroppo oggi poco usato. Nel percorso di viaggi e di scrittura (e lettura) della realtà ho capito che non riuscivo a fare a meno di raccontare il mondo dal punto di vista di chi non ha voce. D’altronde ho fatto anche un corso di giornalismo e ho pubblicato alcuni articoli per Il Giorno di Milano (quando ancora era un quotidiano con una identità importante) e un altro quotidiano milanese che non esce più: La Notte. Alla fine degli anni ’90, a Milano, durante l’esperienza del servizio civile, ho iniziato a leggere e studiare gli scritti e la figura di don Lorenzo Milani. E quell’incontro è stato importante a livello di coscienza sociale e politica. Col tempo ho capito che volevo raccontare la realtà in forma letteraria e non giornalistica, quindi ho valorizzato sempre di più uno stile diaristico. E poi con i monologhi teatrali e le canzoni valorizzavo una narrazione teatrale e poetica, e, ovviamente, politica: nel senso di osservare la realtà e le sue trasformazioni profonde, i conflitti popolari dei nostri giorni e la memoria storica di quei conflitti. Tutto ciò mi ha portato a riflettere sul fatto che il mio punto di vista era sempre più “obliquo”, e quasi mai retorico o “compiacente”, quindi la “gran parte della gente”, e soprattutto gli “organizzatori” di certi eventi o direttori di certi teatri (e anche molti editori) si sono appiattiti sempre di più alle “richieste di gran parte della gente”, quindi, come mi disse un anno fa Aldo Rapé, regista e attore di Caltanissetta: “i tuoi monologhi sono molto coraggiosi e non parlano di cose che la gran parte della gente vuole sentirsi dire e ne parlano in un modo che la gente vorrebbe fosse più regolare, più neutro o comunque meno diretto” (più o meno disse così Aldo Rapè). Poi però è vero anche quello che dice Tina, una donna di Ventimiglia che ha visto il mio spettacolo In canto con Leopardi al teatro Cristallo di Dolceacqua: “Tu sei unico, soprattutto perché sei vero, senza filtro, e in un mondo di merda (leggi: finto e plastificato, anche in molte sue espressioni artistiche finto alternative) sei raro, la gente cerca questo, anche se spesso si vergogna di ammetterlo, cioè molta gente sa di aver bisogno di cose vere, dirette, ma spesso se ne vergogna” (di queste cose parliamo approfonditamente nel libro Poveri, poeti e pazzi, autoproduzioni Malanotte, 2014)
M – Hai sviluppato uno stile che, a mio parere è molto diretto, pur mantenendo un’ironia assai tagliente che lo contraddistingue. A tratti direi che è quasi giornalistico. Quali sono gli autori ai quali fai riferimento?
A – Come dicevo prima, ho abbandonato la “carriera” giornalistica per dedicarmi a uno stile narrativo vivo (con le canzoni e i monologhi teatrali) e comunque della realtà (con i diari e i libri in generale che ho pubblicato), in questo senso ho mantenuto uno “sguardo giornalistico”, uno stile da reportage, ma di quelli che si pubblicavano fino a un po’ di anni fa e adesso sempre più rari. Il primo libro, Un po’ come Giufà, è stato influenzato, nello stile, dal romanzo storico e autobiografico Rue des italiens, che poi ho tradotto, perché era il primo libro di “letteratura proletaria” che leggevo, ed era un po’ quello che volevo fare e poi ho continuato a fare: raccontare la realtà senza mai dimenticare chi non ha voce e chi lotta o lavora e di cui si sa e si parla poco (in Amico treno non ti pago parlo anche di ferrovieri licenziati e maltrattati da Trenitalia e delle loro lotte). Gli scrittori che mi hanno ispirato, a livello generale, sono stati Sebastiano Vassalli, di cui ho letto alcuni suoi romanzi storici quando ero ancora all’Università, poi Herman Hesse, letto sempre in quel periodo, ma lui mi affascinava per i racconti di “vagabondaggi” e della “lotta tra mondanità e ascetismo” (Siddharta). Poi nel tempo ho scoperto Thoreau, John Fante e Cioran. Thoreau mi ha aiutato a capire che potevo vivere un periodo in campagna radicale, come ho fatto dal 2000 al 2003, per poi uscirne e raccontarlo, e che non era importante e fondamentale sacrificare una vita per la terra, come ha fatto il tipo del film e del libro In to the wild (Nelle terre estreme). Fante mi ha fatto scoprire una scritture “terapeutica” applicata alla famiglia e alla figura del padre in particolare. Cioran mi ha aiutato soprattutto spiritualmente, come impostazione mistica.
Le mie espressioni artistiche – e questo me lo ha fatto scoprire bene Cioran – nascono da una rottura, o comunque da una frattura, un dolore per un qualcosa che non trova via d’uscita. Penso al filone delle canzoni “della famiglia”: Il rospo di mio padre, La sedia di mia sorella, Ferito felice, sono alcuni esempi di una “terapia” a base di parole e chitarra, altrimenti rischierei il crimine, o l’autolesionismo, o la follia. E’ una fortuna e un motivo di rammarico, perché vedo molte persone che rimangono prigioniere di retorica o di sentimenti inespressi o di pigrizia comunicativa, e quindi si rivolgono agli psicologi o peggio ancora si danno all’autodistruzione, quando il canale dell’espressione creativa e artistica sarebbe soprattutto un’occasione per far uscire da sé stessi una bellezza e una poesia, sì tragica, ma liberatoria e quindi condivisa. Un’altra cosa dolorosa è vedere molta gente che ha fatto e fa corsi di teatro e di scrittura ma che poi si inibisce a causa di insegnamenti troppo rigidi o di “depressione” dovuta a maestri-guru che oltre a farsi pagare tanti soldi rovinano la spontaneità e la serenità di molti “aspiranti artisti”. Io per diversi motivi sono riuscito a evitare corsi e ricorsi, e ho trovato la strada come maestra di vita, “all’antica”.
M – Grazie Angelo.
Di sé stesso, Angelo Maddalena racconta.
Sono nato nel 1972. Nel 2003, ho autoprodotto le canzoni contenute nel cd Getta la bomba, con Salvatore Legname, a Pietraperzia. Lui è un polistrumentista e arrangiatore e aveva allora un piccolo studio di registrazione a Pietraperzia, prima a casa sua e poi in un piccolo locale che aveva preso in affitto (quel locale c’è ancora e lo usano alcuni ragazzi di una band di Pietraperzia, vicino la Chiesa Madre, almeno fino a un anno fa c’era ancora). Poi ho pubblicato il primo libro Un po’ come Giufà. Da allora mi sono spostato in Toscana e poi a Torino con un passaggio breve a Genova e a Marsiglia. Ho scritto e interpretato otto monologhi teatrali di cui due in francese, e tra il 2007 e il 2016 ho presentato i miei spettacoli in Francia, Belgio, Spagna e Algeria. Il salto di qualità per l’autoproduzione dei cd l’ho fatto nel 2014 con Pani picca e libertà seguito, nel 2016, da Mistico errante (autoproduzioni Malanotte). Dopo le pubblicazioni di Amico treno non ti pago (Eris edizioni) e A piedi è un altro mondo (Euno edizioni) ho potenziato l’autoproduzione di racconti verità e diari di viaggio pubblicati a partire dal 2013, gli ultimi titoli sono: I diari della bicicletta (2016) e il diario illustrato Buenos Aires stupor tour (gennaio 2017). Ad aprile del 2017 è uscito In viaggio con Leopardi (autoproduzioni Malanotte) con progetto grafico di Ivan Catalano (che aveva firmato anche quello del cd Mistico errante): lo spettacolo In canto con Leopardi ha già attraversato tre regioni: dopo l’esordio al Cinema Teatro Cristallo di Dolceacqua (fine aprile), nel mese di maggio è arrivato a Milano (Libreria Les mots), Bologna (XM24, Festival Oltre l’editoria), Magenta (libreria Il Segnalibro), Ispra (circolo ANPI Punta e mazzetta) e Torino (circolo Arci B Locale), con ultima data a U Bastu, a San Biagio della Cima, Liguria di estremo ponente.
[Piazza Armerina – Dolceacqua – 28 maggio, 2 giugno 2017]