“Il coraggio è una cosa”, un libro sull’identità.

di Mauro Mirci*


Nella mia vita da lettore e di amante del cinema ho letto e visto diversi libri e film che hanno, in modi diversi, come tema la disabilità. In linea di massima, e senza giurarci sopra perché magari la memoria mi inganna, ricordo opere spesso molto belle, alcune struggenti, però tutte caratterizzate dalla presenza di un conflitto. Poteva essere il conflitto tra il mondo dei normoabili con quello dei disabili, oppure interiore del disabile che tenta di vincere la propria disabilità. In linea di massima ricordo opere nelle quali la disabilità è, sostanzialmente, diversità, e  come tale è raccontata in opposizione alla “normalità” (le virgolette sono d’obbligo) della società umana. Normalità, ovviamente, che potrei definire come l’insieme di consuetudini che regolano le azioni degli esseri umani normodotati. I quali si suppone siano la stragrande maggioranza dell’umanità. Però mi sono imbattuto in una articolo del Corriere della Sera online. Si tratta di un pezzo del 20 giugno 2011, vecchio di qualche anno, cioè, ma non tanto da dubitare dell’attualità dei dati riportati. E i dati riportati dicono che: “Oltre un miliardo di persone vive con qualche forma di disabilità.  Questo corrisponde approssimativamente al 15% della popolazione mondiale.  Almeno un quinto di costoro,  qualcosa come 110-190 milioni di individui è costretto ad affrontare difficoltà ‘molto significative’ nella vita di tutti i giorni”. Detto questo dato, mi risulta veramente difficile considerare l’85% della popolazione mondiale come una stragrande maggioranza, senza tener conto che la minoranza è equivalente, più o meno, all’intera popolazione della Cina. E anche a voler tenere conto solo del dato di minore entità, ossia 110 – 190 milioni di persone che sono costrette ad affrontare difficoltà ‘molto significative’, basta fare un conticino alla buona  per rendersi conto che stiamo parlando dello stesso numero di individui che popolerebbero una megalopoli grande da 40 a quasi 70 volte Roma. Un bel po’ di gente, insomma.

Danilo Ferrari con Maria Stella Accolla, sua accompagnatrice e “lettrice di sguardi”

Messo così il problema assume tutto un altro aspetto. Non si tratta più di casi sporadici da trattare con compassione e fastidio, ma di una quantità di individui che fanno parte della nostra società e che meritano attenzione. Anzi, “meritano” non è forse il verbo giusto.  “Meritare” implica il guadagnare qualcosa a seguito di un’azione meritevole, mentre l’ “esistere”, come esseri umani, deve implicare il possesso di diritti indiscutibili e inalienabili, senza che nessuno possa porre a condizione la contropartita di azioni meritorie. Forse “reclamare”, “pretendere”, oppure  “sollecitare”.  Ecco, forse sono queste le parole giuste.

“Reclamano, pretendono, sollecitano la giusta attenzione”, per quanto generica possa suonare questa frase.
La questione, così posta, ci appare come una querelle tra “diversi” che reclamano diritti e esseri, che potremmo definire, che ne so “conformi”, che  forse non voglio riconoscerli.
Ritorniamo, infine, all’elemento conflittuale di cui parlavo prima.
Sennonché, nel libro di Danilo Ferrari, questo elemento conflittuale non c’è. È, anzi, un testo molto piano, lineare, pacato. Dà un’idea di serenità. Molto diverso da come lo avevo immaginato. Forse m’era aspettato un libro più esplicitamente di denuncia, che mettesse i cosiddetti normoabili di fronte alle proprie responsabilità. E sì, un po’ lo fa, ma senza alcuna formula di lamentazione o di autocommiserazione. Lo fa quando scrive, per esempio: “Faccio parte di quel segmento dell’umanità per cui il bicchiere è sempre mezzo pieno e dire che qualche problema ce l’ho anche io.” Ora, non è l’evidente ironia della frase, e neppure la dichiarazione di ottimismo che contiene. È quell’anche io a definire l’atteggiamento di Danilo Ferrari. Questo, almeno, nella mia personale lettura. “Anche io” lo vedo come una attestazione di comunanza, di presa d’atto che la sua condizione particolare non lo esclude dalla comunità umana ma lo rende solo un soggetto “un po’ particolare”, appartenente a una comunità fatta di persone tutte, ognuna a suo modo, un po’ particolari e con qualche problema.

Non è una cosa di poco conto perché questa logica trasforma il concetto di “diverso”, che si collega direttamente a quello di “conforme”, nel concetto di identità. Secondo il filosofo inglese John Locke, è l’identità personale che designa la consapevolezza di un ente razionale di essere sempre il medesimo e distinto da tutti gli altri, mentre, in senso più ampio, l’identità è la coscienza, anche collettiva, della propria individualità e personalità. È curioso come sia facile passare da un’idea di perfetta individualità a una di ampia collettività. Lo stesso termine che sembra confinare l’individuo nell’ambito della sua persona, definisce, in maniera letterale nella matematica, o per traslato in altri campi, l’appartenenza a stessi insiemi o la condivisione di lingua, religione, esperienza, cultura, aspirazioni.
Ecco, mi sembra che il libro di Danilo Ferrari, prima ancora che qualcosa che aiuta ad avvicinarsi alle esperienze dei disabili, e forse a liberarsi di qualche preconcetto, sia una bella e convinta dichiarazione di identità. A me è parso che l’autore dica “ecco, io sono questo, sono fisicamente fatto così, mi tocca convivere con questa sedia che, di fatto, fa ormai parte di me, ma sono identificabile in quest’oggetto più o meno come chiunque altro è identificabile con le parti del suo corpo”. E mi pare che dica, anche “Però, al di là di ciò che si vede, sono Danilo Ferrari. Ho sogni, desideri, bisogni e soffro e amo come te, chiunque tu sia. Sono un individuo particolare, come chiunque altro, e quindi chiunque è uguale a me e io a chiunque”.
Se è vero ciò che mi sembra di aver compreso, allora questo non è un libro che parla di differenze, ma di cose in comune. Non è un libro sulla disabilità.
È qualcos’altro. È più una sorta di diario non quotidiano, dove alle date si sostituiscono traguardi, o momenti di passaggio o espressioni di gratitudine.
La prefazione di Roberto Olla dà un’interpretazione del testo di Danilo Ferrari. Scrive: “Non si trova nessuno che voglia misurare il suo coraggio nella terra  selvaggia del proprio io. Dall’oblò dell’astronave del suo corpo dispettoso, Danilo ha colto al volo un’occasione preziosa ed ha iniziato un viaggio dentro sé stesso. Non è uno di quei viaggi con cui fai carriera nelle redazioni, eppure dovremmo tutti, alla fine, avventurarci nei territori che lui sta esplorando.”
Questo diario, se così ci decidiamo a definirlo, inizia con l’aforisma “Io sono quello che sono”, subito seguito dal primo capitolo (o episodio), dove l’autore scrive: “Di me neonato tanti dissero la stessa cosa. ‘Vivrà ben poco, non festeggerà il suo primo anno di vita… Per non soffrire dimenticatelo, pensatelo come mai nato’ ”. Invece il bambino sopravvive, sente l’energia fluire in lui, quasi si convince che basti desiderare camminare per farlo. Non è possibile farlo con le proprie gambe, lo fa con la sedia a rotelle. Le parti di ferro e plastica diventano parti dell’essere umano. Poi viene la decisione di un intervento correttivo per “porre fine a quel rivolo di saliva” che lo imbarazzava e interferisce con il suo desiderio di relazionarsi con gli altri. Perché la dignità del proprio aspetto va difesa sempre, anche se altri possono non capirlo. A seguire, Danilo Ferrari racconta i suoi primi anni scolastici, non per descriverne le difficoltà, ma per ribadire, se ancora ce ne fosse bisogno, che il suo coraggio non è servito per vincere difficoltà provenienti dal mondo, ma per conquistare autonomia di pensiero e dignità. Dopo un periodo di comprensibile sconforto parla alla persona che definisce Acqua che sgorga da masso, goccia che scava la roccia, musica nell’aria. Scrive: “All’inizio del nuovo anno scolastico parlai con Lei, fu come spalancare una finestra sprangata da anni, mi investì una luce coinvolgente, fui spinto fuori a forza dalla mia sedia, non poteva più essere la mia scusa. Non era lei che doveva garantirmi il rispetto degli altri. Ero io a dovere dimostrare chi sono.”
Più avanti introduce l’idea di “Corpo dispettoso”, col quale tocca convivere, quasi fosse un’entità estranea ma tuttavia complementare. In contrapposizione alle parole di chi dichiara solo intenzioni, senza far seguire azioni, anche se potrebbe, scrive: “Allora io sono contento di dire, che se anche potessi andare autonomamente da un’altra parte, non ho intenzione di spostarmi da dove sono, perché sto bene dove sto. Abbastanza soddisfatto, con tutte le mie rigidità.”
No, non ho intenzione di raccontare per filo e per segno tutto il libro. Spero lo leggiate, invece, con l’attenzione che merita, soffermandovi sulle parole di speranza che contiene, sugli episodi in cui l’autore dimostra il suo carattere forte e la sua volontà ferrea. Non tanto sulle patologie. Parla anche di quelle, certo, senza far leva su alcun sentimento di compassione, ma quasi come fosse un mero dovere di cronaca, un’informazione necessaria da passare al lettore per la comprensione del contesto.
Molto più sentito è quanto scrive a pagine 29, invece.
“Qualcuno ha creduto in me, perché ho già appeso alla parete della mia stanza un diploma e una laurea e sono un giornalista pubblicista. Come capirete ciò che mi piace fare è scrivere, dettando a qualcuno i miei pensieri oppure utilizzando il computer con puntatore ottico.”
Insomma, la dimostrazione che la forza di volontà e, certo, l’aiuto di persone amorose e disinteressate, forse non può risolvere tutto, ma di sicuro è una leva potente per sollevare qualsiasi peso e affrontare ogni tipo di difficoltà.
Il coraggio. Mi ero ripromesso di parlare del libro lasciando alla fine il discorso sul coraggio. Non credo di aver fatto un torto né al libro né al suo autore. Il coraggio è già nel titolo, e anche se non ci fosse quella parola stampata in copertina, ogni frase del testo è così lineare, netta, serena e diretta da far capire subito che non può che essere il frutto di un grande coraggio e decisione di dire le cose come sono, senza perifrasi e infingimenti. Parole d’amore per l’amore, di gratitudine per la gratitudine, di dissenso per ciò che non si condivide.
Questo libro è un ottimo libro perché rappresenta un’ottima occasione: quella di interrogarsi su cosa sia il coraggio. Non il coraggio di cui si parla per gli scontri violenti. Quello è un’altra cosa: è incoscienza, paura trasformata in adrenalina, violenza repressa. Piuttosto il coraggio necessario, ogni mattina, per affrontare lucidamente gli impegni quotidiani senza che la routine ci vinca e ci trasformi in vittime della nostra esistenza. Sulla scorta delle parole che Danilo Ferrari ha scritto, direi che è il coraggio necessario per rendere ogni giorno un giorno nuovo, per trovare nuovi obiettivi e raggiungerli. Per fare. Nonostante ci sembri che tutto cospiri per determinare l’inerzia, l’immobilità, il non fare. C’è un piccolo Don Abbondio dentro ognuno di noi. Un piccolo Don Abbondio che, per ogni sua omissione di coraggio, si giustifica dicendo che il coraggio, chi non l’ha, non se lo può dare. Ce lo dice sfacciatamente e, suprema vigliaccheria, usando a giustificazione le parole sprezzanti del suo creatore.
Bene, il messaggio di Danilo è che il primo obiettivo consiste nel far tacere quel piccolo Don Abbondio e dimostrare che il coraggio, anche quando non lo si ha, lo si può trovare. Un libro è importante perché può dare un esempio. Nella prefazione a firma di Padre Enzo Fortunato, laddove si parla della collaborazione di Danilo con la rivista “San Francesco Patrono d’Italia”, leggo: “Nel suo primo editoriale, così si racconta: Sono Danilo Ferrari, nato in quel di Paternò il 29 settembre 1984, non avendo nessuna intenzione di commuovervi con le mie peripezie (perché a ognuno già bastano le proprie), voglio raccontarvi le mie avventure.”
E ancora, sempre Padre Enzo Fortunato scrive: “Danilo vive molto intensamente le sue esperienze, e la sua vita, in maniera molto più cosciente e forte di molti altri ed è per questo che ha molto da insegnare: i suoi limiti, se così si possono chiamare, sono diventati ali per volare in alto.”

Da sinistra: Mauro Mirci, Maria Stella Accolla, Enzo Casale, Danilo Ferrari, Silvana Barresi, Piero Ristagno

*Testo dell’intervento del 13 maggio 2017, in occasione della presentazione del libro “Il coraggio è una cosa” a Piazza Armerina.

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