di Mauro Mirci
Il 21 settembre è un giorno particolare. È il giorno dell’equinozio d’autunno, ossia la data in cui notte e giorno hanno la stessa durata. Il giorno successivo si lascia l’estate e ci si inoltra nell’autunno. Mi sembra una buona metafora del momento in cui la parabola dell’essere umano raggiunge l’apice e inizia il declino. Non credo sia un caso se il 21 settembre è anche il giorno in cui la comunità internazionale ha deciso di ricordare il morbo di Alzheimer.
Elois Alzheimer fu un neuropsichiatra tedesco che, nel 1906, descrisse per primo la malattia che poi prese il suo nome. I sintomi che Alzheimer rilevò in Auguste Deter, una donna di 51 anni che aveva preso in cura, erano perdita di memoria, mutamenti di carattere, delirio di gelosia, incapacità a provvedere alle cure domestiche e a sé stessa. Per circa settant’anni si è creduto che la malattia colpisse solo persone di età inferiore ai 65 anni e, per questo, si parlava di “demenza presenile”. Tuttavia, è stato successivamente riconosciuta la malattia in pazienti più anziani, con un picco del 30% negli ultraottantenni.
Per ritornare alla data del 21 settembre, Giornata Mondiale dell’Alzheimer, se il paragone con il passaggio dall’estate all’autunno della vita regala un sorriso, vivere l’esperienza dell’Alzheimer e delle demenze in genere è invece devastante.
Non voglio dilungarmi in una descrizione dell’Alzheimer e dei suoi sintomi. Chi avesse interesse a farlo può consultare il sito dell’A.I.M.A. (Associazione Italiana dei Malati di Alzheimer), dove sono pubblicate numerose pagine web che illustrano i diversi aspetti della malattia. Aggiungerò unicamente che l’Alzheimer è solo il più diffuso tra i mali che causano demenze, ma non ne è l’unica causa. Inoltre tutte le forme di demenza sono fortemente invalidanti e, per tale motivo, coinvolgono in ogni modo possibile e immaginabile le persone più vicine ai malati. Con conseguenze che si possono facilmente immaginare, ma che la maggior parte di chi non ha occasione di assistere un familiare affetto da demenza difficilmente s’impegna a immaginare.
Dire questo sembra ovvio, ma per esperienza condivisa, ovvio non è. E ciò è forse una della cause della scarsa attenzione a questa malattia da parte di istituzioni che, viceversa, dovrebbero essere estremamente sensibili al problema. Raccontare che il malato, gradualmente ma in maniera inarrestabile, perde coscienza di sé e di tutto ciò che lo circonda è solo una parte della storia. Il resto lo possono descrivere tutti coloro che assistono persone malate. E la prima cosa che, probabilmente, ognuno di costoro racconterà, sarà la sensazione di solitudine e disperazione che ha provato quando ha cominciato davvero a rendersi conto che suo marito, sua moglie, il genitore non era più la persona cara, amata, di prima della malattia. Credo che chiunque viva accanto a un malato di Alzheimer non possa mai dimenticare qual è stato il momento in cui ha capito con cosa aveva a che fare. Che la persona amata, anche se apparentemente uguale a prima, invece non era più la stessa.
Poi arriva il momento in cui si è convinti di essere perfettamente soli, in cui si maledice il destino per quel che è capitato. Contribuiscono a questa sensazione di solitudine molti fattori. Il principale è l’ignoranza. Chi si trova a confrontarsi con l’Alzheimer e con le demenze in genere non sa cos’ha davanti. Stenta a comprendere che malattia sia, non ne afferra cause e dinamiche. Ne vede, anzi, ne subisce gli effetti terribili. Può anche capitare che non trovi nel medico di famiglia o nelle strutture sanitarie più vicine la spalla adeguata alla quale appoggiarsi. La cosa che più comunemente gli capita è di sentir confondere le demenze con le patologie psichiatriche. Discende, uno per uno, tutti i gironi dell’inferno della malattia, senza esclusioni di pene, ivi comprese mortificanti sedute con le commissioni per il riconoscimento delle invalidità civili e insinuazioni – più o meno garbate – che il malato stia invece simulando.
Chi affronta Alzheimer e demenze soffre della mancanza di informazioni, subisce gli effetti dell’assenza di una rete di assistenza sia al malato che ai familiari, i cosiddetti caregivers, “i prestatori di cure”.
Le demenze sono patologie degenerative che coinvolgono le funzioni cerebrali, e solo alla fine (ma di solito per motivi connessi alla perdita della coscienza di sé) arrivano a compromettere le funzioni fisiche. I malati si mantengono spesso
in buone condizioni di salute. Ciò comporta che il familiare si trova nella condizione di non dover semplicemente somministrare cure e fornire generica assistenza. Ciò è quello che crede prima di prendere coscienza della vera natura della malattia. In realtà l’assistenza consiste nel farsi completamente carico del familiare. Il processo è graduale, esattamente come la malattia. E, come la malattia, inarrestabile. Pian piano ci si trova a prendersi cura del malato quasi esattamente come si fa per un bambino piccolo. Ma nel caso della persona affetta da demenza, le difficoltà sono amplificate e spesso insormontabili. Anche perché il malato è più grande e pesante del bambino. E molte volte meno disposto ad accettare cure e attenzioni. Il familiare si trova di fronte a una quantità di problemi cui crede di poter far fronte con l‘abnegazione e la buona volontà, ma che possono determinare non solo conseguenze per il corpo (assistere il malato richiede anche logoranti sforzi fisici, per non dire della possibilità che abbia scatti di violenza), ma anche e soprattutto frustrazioni e ferite morali tali da compromettere seriamente la salute del prestatore di cure.
Molto potrebbero fare le istituzioni, le aziende sanitarie. E tanto utili sarebbero strutture diffuse sul territorio, quali i centri diurni. Non solo per questioni strettamente mediche e diagnostiche, ma anche per creare reti di relazioni e per far circolare informazioni. Conoscere l’esperienza di chi ha affrontato gli stessi problemi può fornire una forma di conforto a chi si prende cura di un malato. Senz’altro è una fonte di notizie utili per affrontare il proprio personale calvario.
Quella che state leggendo non è una trattazione scientifica del problema. È giusto che degli aspetti eminentemente tecnici e medici di ciò che è relativo ad Alzheimer e demenze si occupino gli “addetti ai lavori”. Tra i quali non ricomprendo solo i medici.
Ma anche i “non addetti ai lavori” possono fare qualcosa. Raccontare la propria esperienza, per esempio. Ho provato in prima persona gli effetti benefici di questa terapia, che consiste nel sedersi col familiare di un altro ammalato per raccontarsi ciò che si è passato e si continua a passare tra le mura domestiche, dove il mondo non vede la tua sofferenza. E spero che si possa vincere l’isolamento e la sensazione di vergogna che provano costantemente i familiari degli ammalati.
Il passo dal raccontare la propria esperienza al raccontare tout-court è breve. Ho scritto, alcuni anni fa, un racconto dove, nella finzione narrativa, introducevo alcuni episodi realmente vissuti. Mettere su carta quegli episodi, affrontare cioè il processo di elaborazione che trasforma un’idea di storia in sostantivi, verbi, aggettivi e via discorrendo, mi ha aiutato a pormi alcune domande che fino a quel momento non ero riuscito a formulare. Alla fine sapevo, di me e dalla mia esperienza, qualcosa che prima non riuscivo a comprendere, anche se ero ancora convinto fosse comunque qualcosa di personale e difficilmente condivisibile. A convincermi del contrario un breve dialogo con Massimo Carlotto, presidente della giuria del premio al quale avevo inviato quel racconto. Mi disse poco, in realtà, solo che nel mio racconto aveva riconosciuto fatti e sensazioni che anche lui aveva vissuto. Ma quel poco mi bastò.
Non so se, al di là della provocazione del titolo, raccontare la malattia come ho fatto io abbia realmente effetti terapeutici. In ogni modo, altri si sono impegnati nel raccontare l’Alzheimer. Con sorpresa, ho scoperto che due di loro hanno pubblicato le loro storie con Nulla Die, il mio stesso editore. Sono romanzi diversi per punto di vista, trama, stile, ma accomunati dall’intento di dare voce alla malattia e ai suoi effetti su malato e familiari.
Ho colto l’occasione per mettermi in contatto con gli autori e ho chiesto loro di parlarmi di sé e dei loro romanzi. La disponibilità è stata piena e immediata.
Scrive Sandra Luigia Rebecchi, autrice di “E adesso statemi a sentire”.
“Il mio libro è il racconto in prima persona di una donna che ricorda con estrema lucidità il suo passato tragico, mentre vede svanire i ricordi a breve termine ed è consapevole che le sta succedendo qualcosa di drammatico, anche se non sempre capisce cosa e perché. Ho scritto dopo quattordici anni di malattia di mia madre, che ha superato tutte le aspettative di vita grazie anche all’assistenza di noi figlie, guidate solo da auto informazione ed affetto, ma lasciate sole dalle istituzioni, costrette a farsi carico di spese e decisioni.
Mentre finivo di scrivere il libro e poi subito dopo la pubblicazione, durante le prime presentazioni, mi sono resa conto che il mio romanzo si connota a pieno titolo nella categoria dei romanzi informativi: si tratta di scritti che riescono ad arrivare alla gente e ad informarla con scrupolo e correttezza, quando l’autore si sia documentato in modo accurato, cosa che ho fatto.
Il fatto che ci si possa informare attraverso la lettura di un romanzo è efficace perché l’approccio emotivo precede sempre quello concettuale, fa da veicolo a verità più o meno tristi, combatte miti e false credenze. La decisione di far parlare proprio l’ammalato è impervia, visto che si tratta pur sempre di persone malate, però ho affrontato volentieri l’impegno aggiuntivo perché sono convinta che mettersi dall’altra parte, riuscire a vedere le cose da un altro punto di vista sia già fare un passo avanti per vivere meglio il periodo della malattia, periodo doloroso senza alcun dubbio, ma pur sempre parte della vita. In più siamo abituati alla necessità di sostituirci all’ammalato di Alzheimer in molteplici occasioni: che una volta almeno possa parlare lei!, ho pensato: è stato il mio principale intento.Una delle prime presentazioni del libro è stata fatta assieme a un medico, primario e geriatra, che mi ha confermato la correttezza delle mie pagine dal punto di vista tecnico. La tipologia del racconto richiama la medicina narrativa, nata in Gran Bretagna nel 1990 e poi ripresa dagli americani. È una frontiera da scoprire, perché narrare il dolore pare faccia veramente bene.
Il libro ha vinto il secondo premio Raffaele Artese-Città di San Salvo e il premio della giuria popolare. In occasione della premiazione, ho appreso dal sindaco che nella loro città stanno aumentando a dismisura i casi di Alzheimer precoce: ci si ammala intorno ai 50 anni! Si stanno mettendo al lavoro per creare strutture pubbliche a beneficio dei famigliari, lottando contro i tagli sconsiderati alle spese mediche fatte negli ultimi anni.
Un’altra presentazione è stata fatta in coppia col primario di un ospedale romano. La reazione dei presenti, tra cui molti parenti di ammalati, è stata partecipativa e commovente: si capiva chiaramente che qualcuno non aveva trovato ancora il coraggio di parlare del suo guaio.
Sono straconvinta che parlarne faccia bene a tutti noi.”
Luca Favaro, autore di “Il tempo senza ore”, scrive:
“Lavoro come infermiere da ventisei anni, nel corso dei quali ho fatto esperienze in vari ambiti; per un periodo ho lavorato in una casa di riposo nelnucleo per malati di Alzheimer. Proprio in quel periodo, mio padre, cinquantasettenne, ha cominciato a manifestare strani sintomi, all’inizio si trattava di dimenticanze, ma poi col tempo si sono sempre più spesso verificate vere e proprie amnesie, accompagnate da uno stato depressivo, a cui si dava la responsabilità dei sintomi. Un giorno, insospettito dal fatto che quando vedevo lui, mi sembrava di vedere i ricoverati nel nucleo dove prestavo servizio, l’ho fatto visitare da un medico specialista nelle demenze che ha fatto diagnosi di “Alzheimer presenile”, un morbo che colpisce le persone non proprio anziane e che rispetto all’Alzheimer dell’anziano, ha un andamento leggermente diverso. Da qui è cominciato il calvario, vissuto principalmente da mia madre che conviveva 24 ore su 24 con lui, e di riflesso anche da noi figli.
Mio padre, che fisicamente era sanissimo, mentalmente era sempre più confuso, ingestibile, sempre più frequentemente manifestava atti di violenza e aggressività verbale soprattutto nei confronti di mia madre.
“Il tempo senza ore” è la storia di Marco Galeotto, un insegnante di musica e direttore di coro che, all’apice della sua carriera, viene colpito da amnesie ingravescenti che lo portano alla diagnosi di Alzheimer presenile. L’altra protagonista è Margot, una giovane francese che si innamora di Marco al punto di decidere di sposarlo nonostante la diagnosi infausta, per amore e anche con una buona dose di incoscienza. Aiutati dall’amico Sigi, i due vivranno una vera e propria discesa negli inferi. Nella storia ho raccolto una serie di eventi realmente vissuti da me e dai miei familiari, altri vissuti da persone che abbiamo conosciuto che hanno passato il nostro stesso calvario. Ogni aneddoto è assolutamente reale.
Nella narrazione, ho usato un linguaggio a volte molto duro, in realtà ho voluto ricreare con realismo la situazione che ci si trova a vivere assistendo un malato di Alzheimer, perché quello è lo scopo del romanzo: dare voce a una quotidianità che diventa col tempo un inferno, la percezione del tempo si altera, i minuti diventano ore, le ore diventano giorni. Tutto ruota attorno a una situazione che spinge all’isolamento, avvolti da una malattia che colpisce la persona in tutte le sue dimensioni: fisica, mentale, sociale e anche spirituale.
Lo scopo del romanzo comunque è anche quello di dare risalto all’importanza dell’amore. Un demente non perde la capacità di amare, e anche se perde le capacità cognitive, non perde comunque quelle affettive, come per dire che la mente dimentica, ma il cuore no.”
Ecco, è tutto. Leggere quanto scritto da Sandra Luigia Rebecchi e Luca Favaro mi conferma nella mia convinzione che il racconto sia un ottimo mezzo di diffusione, capace di arrivare dove altre forme di scrittura non riescono, in particolare toccando le corde più intime dell’animo umano. Raccontare non risolve i problemi del malato, ma può essere di aiuto ai familiari che soffrono assieme a lui ma, diversamente da lui, hanno piena consapevolezza di ciò che patiscono. È un ciclo virtuoso, nel quale comunque il livello di benessere di chi assiste non può che avere effetti positivi sulla qualità dell’assistenza.
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Note
(*) Ho rubato il titolo di questo pezzo al romanzo di Luca Favaro. Mi è sembrato che quella del tempo senza ore fosse una descrizione molto bella della sostanziale atemporalità nella quale, loro malgrado, piombano i malati di Alzheimer e le persone affette da altre forme di demenza.
Nel testo che avete letto si è fatto riferimento:
alla Giornata Mondiale dell’Alzheimer
all’AIMA – Associazione Italiana dei Malati di Alzheimer
a “E adesso statemi a sentire”, di Maria Luigia Rebecchi. Nulla Die ed.
a “Il tempo senza ore” di Luca Favaro. Nulla Die ed.
al racconto “Considerata l’età” di Mauro Mirci, pubblicato dalle edizioni del Caffè Letterario Moak
Altri libri come quelli di cui si è parlato:
“Ero dunque sono”, di Tiziana Morrone. Ne parla Repubblica online.
“Ma tu chi sei” di Bruno Arpaia, Guanda ed.