di Mauro Mirci
Definire questo libro di Francesco Randazzo non è facile. Si potrebbe dire che sfugge alle classificazioni un po’ come il suo autore, che è uomo di multiforme ingegno amante della buona letteratura e delle tavole del palcoscenico. Di multiforme ingegno come il protagonista dell’Odissea, testo al quale, in corso di lettura, vien subito di accostare “Tu non lo sai da dove vengo”, anche perché ne viene esplicitamente citata la parte in cui Ulisse giunge nella terra dei Lotofagi. Il loto. Germoglio dolcissimo che garantiva l’oblio a chiunque ne mangiasse.
Nel nostro caso, il protagonista – che potrebbe pure essere Randazzo in persona, perché no? – incrocia un anziano malmesso e maleodorante. E decisamente svanito. Il protagonista – facciamo che si chiami Francesco, cosa cambia? – sta in macchina e pianta una frenata “spaccareni” per non investire l’anziano, “un vecchio alto e tremante, un vecchio con le braccia lunghe e le mani affusolate”. Com’è, come non è, il vecchio gli chiede un passaggio. Deve andare in via Canfora. 91.
Nell’Odissea, per dare ragione di comportamenti umani difficilmente comprensibili, o di eventi apparentemente inspiegabili, il buon Omero metteva di mezzo gli dei. Randazzo, non essendo più di moda l’Olimpo, attribuisce colpe e motivazioni alla propria educazione.
“Che sia maledetta l’Azione Cattolica e quegli anni di idiozia adolescenziale passati in parrocchia a fare volontariato e a innamorarmi di ragazze buttanelle che pomiciavano con tutti tranne che con me, che sia maledetto questo cuore di marmellata che c’ho e m’impietosisce sempre quando dovrei farmi i sacrosanti stracazzi miei e tirar dritto, che sia maledetto questo mio spirito di sinistra buonista e sprezzante”. Eccetera, con altre quattro o cinque righe di considerazioni su una vita difficile che non ha remore a metterci alla prova.
Insomma, il vecchio trova posto sul sedile del passeggero e si parte, alla volta di via Canfora 91. Che sembrerebbe impresa facile, a dispetto del traffico catanese – perché la nostra Odissea si svolge per intero nella città Etnea – sennonché il passeggero indica percorsi che conducono altrove. E il nostro protagonista, seppur si renda conto della indicazioni errate e nel suo flusso di coscienza esprima apertamente la voglia di disfarsi dell’olezzante passeggero, non riesce a passare dal pensiero all’azione, sicché si tiene il suddetto nell’abitacolo, scarrozzandolo per Catania senza giungere, in realtà, in nessun luogo.
Ora, non è che basti la narrazione di un viaggio infinito per meritare a un testo l’accostamento all’Odissea, ma il fatto è che Francesco Randazzo fa agire, nel suo testo, due personaggi che rendono l’idea di un tempo indefinito che rende infinite le distanze. È l’elemento temporale che conferisce al viaggio un’aura particolare e mitologica. Un allungarsi del tempo delle scene, alternato a improvvise accelerazioni. Ecco, non saprei spiegare meglio. Un uso sapiente dell’elemento cronologico, così da dare coloriture di malinconia, di disillusione ma anche di speranza. Se il vecchio appare in preda ai suoi vaneggiamenti e riferisce a tratti di un passato confuso – forse era un giudice, o forse no – ma che lo ha segnato profondamente, il protagonista, colui che in prima persona narra la storia, s’inganna di certo quando immagina di potersi liberare del suo passeggero e tornare alle incombenze di ogni giorno. Non può perché non sa farlo e perché non è sua facoltà decidere del proprio destino: anche lui è creta nelle mani degli dei che hanno deciso il corso del tempo e la forma dello spazio. Dei che ne hanno fatto il compagno di viaggio di un vecchio e, solo in questo ruolo, gli hanno assegnato un significato nell’universo.
E poi ci sarebbe da dire del finale.
Ma forse non è il caso.