di Mauro Mirci
L’espressione della rumena è dura. Mi riprovera sottovoce il ritardo mentre indossa il cappotto, e borbotta qualcosa nella sua lingua. Riesco a distinguere il nome Pietro.
– È il tuo fidanzato? – le chiedo, ma lei mi volta le spalle.
– Paghi mio lavoro, non sono affari tuoi.
Va via. Mi lascia sulla porta. La osservo scendere svelta le scale, mentre le falde del cappotto si aprono come ali e i tacchi alti picchiano sul marmo dei gradini. Tic tic tic, sempre meno rumorosi, sempre più lontani. Sento il portone aprirsi, giù. Un motore passa e s’intrufola per un istante nell’androne, poi svanisce. Il portone si chiude. Più nulla.
Appendo la giacca all’attaccapanni
– Maria – sento urlare. Allora entro e mi chiudo la porta alle spalle spingendola lentamente ma con decisione contro lo stipite. Lo scatto della serratura ben oliata sancisce il passaggio di consegne e, al tempo stesso suona alle mie orecchie come il benvenuto della casa in cui sono cresciuto, abbandonata per vivere un poco di vita e ritrovata per fatti contingenti.
– Maria – urla ancora mia madre. La sento spostarsi. Il rumore caratteristico di mamma: un fruscio di veste da camera, uno sbatacchiare di ciabatte, qualche lamento contro il mal di schiena e gli anni impietosi. Mi volto perché possa vedermi bene. Lei attraversa soglia e si affaccia nel corridoio.
– Ah, sei tu. Dov’è Maria?
– Oggi è giovedì.
Le vedo fare il muso storto.
– Oggi è martedì.
– No, mamma, è giovedì.
Con la mano mi manda a quel paese e rientra in cucina. La seguo. Sta finendo di avvitare la caffettiera grande, quella da sei tazze.
– Potevi preparare quella piccola.
– Vengono anche la nonna e le zie.
Nota il mio disappunto.
– Avete avuto questioni?
Mi riprendo subito. – No – dico, – nessuna questione. Ci sono le tue sorelle?
– Erano qui prima. Adesso sono salite al piano di sopra, non le hai incontrate? Ma gli ho detto che mettevo su il caffè, quindi tra poco tornano.
Al piano di sopra. Nell’appartamento di nonna.
– Siediti – dico a mia madre.
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