L’ultimo anno di Francesco Lanza
di Mauro Mirci
Il 1932 sembrava l’anno della ripresa, nonostante tutto. Attendeva sempre una risposta alle sue insistenti domande d’impiego. Potevano gli amici farsi sordi ai suoi appelli? Potevano, a quanto pareva, e questo è quanto pensava, ma ciò che sperava era diverso e la risposa che si dava era: no, non potevano farsi sordi.
Nel frattempo scriveva.
In gennaio fu a Roma, a ricordare a chi di dovere le sue aspettative. E qualcosa scrisse, sul tavolinetto dell’albergo, approfittando della carta intestata. Poi a Tripoli, e furono le Storielle tripoline e le Storielle libiche. Non erano i Mimi (meno vissute, meno partecipate: non erano storie della terra sua, ma piuttosto una parodia). Non ci si avvicinavano neppure.
Scrisse ancora. Qualche articolo, qualche prosa. Venne anche il saggio su Goethe e l’anima di Roma, ma roba da poco.
Aveva alcune storie da finire. Su una s’arrovellava da quando era tornato dalla Russia. Come dire: una storia che viene da lontano. L’altra s’ispirava a luoghi più vicini, ossia il lago di Pergusa, e andava a comporre un altro capitolo di Proserpina.
Ma era un modo per ingannare la solitudine e fingere un futuro che non arrivava.
Intanto passano i mesi.
Il posto ministeriale non arriva.
Possono gli amici aver dimenticato?
Possibile?
Nel frattempo con Peppino Loggia si fanno esperienze spiritiche e “di vago sentore teosofico”.
Lo scrive all’amico Navarria il 15 ottobre.
“Non arricciare il naso e non pensare che io mi lasci trascinare dalla suggestione”.
No, trascinare dalla suggestione no, eppure, con quei fenomeni che si avverano – e sì, si avverano, davanti ai suoi occhi – il suo scetticismo deve fare i conti. Non basta lo sguardo divertito e distante, un certo atteggiamento da adulto che si confronta con i giochi dei bambini, la convinzione di raccogliere esperienze che magari finirano scritte a gran ludibrio di coloro che, sussiegosi e litanianti, evocano demoni e defunti con grandi cerimonie condite di cabbale e magie nerovestite.
No, non basta.
In meno di un mese rompe l’indugio e decide che qualcosa c’è.
Qualcosa c’è.
Scrive ancora a Navarria. È il 10 di novembre.
“Si tratta di un fenomeno del quale voglio rendermi conto.”
Possono gli amici aver dimenticato?
No, non hanno dimenticato.Voleva un posto da ministeriale e posto da ministeriale è stato: Ministero dell’Aeronautica. Un lavoro che è anche metafora del volo che vorrebbe compiere per lasciare tutto e ritrasferirsi a Roma, che è il centro di tutto ed è anche il posto migliore per fare quel che gli preme di più. Che è scrivere.
Via, via da Valguarnera Caropepe.
Carrapipi.
Il posto lontano da tutto, dove arrivano solo coloro che si perdono e i braccianti in cerca di grano da mietere. Lo sanno bene nel ragusano, nel nisseno, nel catanese: così lontano?, a Carrapipi?, per significare un posto lontano, lontanissimo, un finis terrae.
Alla fine dei conti 1932 è stato veramente l’anno della ripresa. C’è riuscito per un soffio, ma lo è stato. La partenza per Roma è il 28 dicembre, dalla stazione di Valguarnera.
In treno lo colgono i brividi di febbre. Troppo desiderato questo viaggio perché riuscisse. Già a Catania deve interromperlo.
La sera del 31, mentre Catania prepara i festegiamenti per l’arrivo del 1933, chiuso in un camera dell’Hotel Sangiorgi, scrive all’amico Corrado.
“Caro Corrado, mi ero l’altro ieri messo in viaggio per Roma, ma in treno sono stato colto da una febbre tale che ho dovuto fermarmi all’albergo. Si tratta di una iniezione suppurata con sintomi di setticemia. Per due giorni e per due notti ho delirato con la febbre a 41, solo come un cane. Ora la febbre è a 39. Ho telegrafato a parecchi amici, ma tutti si sono limitati ai semplici doveri di cortesia. Questa solitudine mi dà una maggiore disperazione. Aspetto domani mio fratello per tornare a casa. Ricado nella trappola, è proprio il mio destino.”
Niente, non è destino. Roma è là, irrangiungibile in riva al Tevere. E Valguarnera è come l’Ade, che lo ritrascina in sé. E se lui, Francesco Lanza, scrittore di scrittura elegante e promettente, è Euridice, chi mai impersonerà i panni di Orfeo? Forte la fortuna puttana, che dopo averlo tratto fuori da quel Limbo odiatissimo che è divenuto il suo paese, incuriosita e maliziosa ha girato gli occhi per guardarlo e ricacciarlo dentro?
A me pare che il Lanza vada ricordato, più che per la “prosa d’arte”, per l’indiscutibile merito di aver svelato ai “dotti” del suo tempo la ricchezza della narrativa orale della cultura contadina; per questa stessa ragione credo che il modello di riferimento per la stesura dei Mimi siano stati “Le Parità” di Serafino Amabile Guastella, demoetnografo della contea di Modica, piuttosto che Luciano o Roumanille.