di Mauro Mirci
Il problema non sta tanto nel raccontare bene le storie, quanto nel trovare le storie da raccontare. A raccontare le storie sono più o meno tutti capaci. Basta avere chiaro in testa qual è l’argomento, non perdersi in divagazioni e arrivare alla fine senza stufare chi legge (o ascolta). Se poi c’è un colpo di scena finale tanto meglio: l’attesa non sarà stata vana. A raccontare storie sono bravi anche quelli digiuni di lettere. Questa è una cosa che so sin da bambino, quando la signora Maria, un’anziana vicina di casa che badava a me ogni tanto, mi sedeva su una seggiolina e mi teneva lì raccontandomi di Giufà e delle sue stramberie furbe e sciocche al contempo. Ricordo con nostalgia la volta che, anche lei seduta e con le mani giunte in grembo, iniziò a narrarmi di come Giufà, cacciatore per l’occasione, se ne andava in giro per le campagne all’alba in cerca di un “canta-la-noit” (gli amici amanti del piazzese scritto mi perdoneranno, spero, la grossolana ortografia) da sparare, perché sua madre gli aveva detto di questo animale (un gallo? Mah, chi lo sa?) che cantava col primo sole e aveva carni deliziose. E il bello è che Giufà il “canta-la-noit” lo trovò sul serio, lo accoppò e se lo portò a casa tutto orgoglioso.
Ma s’era sbagliato (che Giufà sarebbe stato, viceversa?) e anziché un “canta-la-noit” verace, aveva fatto fuori un poveraccio che aveva passato la notte in osteria e se ne tornava a casa alticcio e intonando stornelli. La madre di Giufà, che come tutte le madri di tutti i Giufà del mondo, era “sperta” in maniera proporzionale all’imbecillità del figlio, prima si disperò, poi dichiarò al figlio che era un disgraziato, rovina della sua vita e della casa, e gli disse d’andarsene via non farsi vedere fino a che non le fosse passata l’arrabbiatura. Lui se ne andò in paese, gironzolò un poco, e alla fine s’infilò nell’osteria, dove bevve e, da Giufà che era, si vantò con dovizia di particolari della cacciagione che aveva portato in casa. Sua madre se lo vide presentare il mattino dopo. Le urlò da dietro la porta: “Mammà, ti passò l’arrabbiatura?” Lei andò ad aprire e si trovò davanti Giufà, coi ferri ai polsi, tra due carabineri, il maresciallo con la faccia costernata, ma deciso a compiere il suo dovere, e i figli del “canta-la-noit”, che pare fosse il barbiere del paese. “Signora, dove ha messo il corpo?” chiese il maresciallo. “Quale corpo?” domandò a sua volta la madre di Giufà. “La persona che suo figlio ammazzò e le portò cadavere in casa,” fece il maresciallo con voce secca. “Ah!” esclamò la donna. “Ma quale persona. Mio figlio sparò un ‘canta-la-noit’. Solo che non era buono e lo buttai nel pozzo.” “Nel pozzo?” disse il maresciallo, con un’espressione che non prometteva bene. “Nel pozzo, sissignore. Non si può?” “Dipende,” disse il maresciallo, “da che tipo di ‘canta-la-noit’ ha cacciato vostro figlio.” Insomma, si diressero tutti al pozzo e il maresciallo fece segno a un carabiniere di legarsi con una corda e scendere giù. Ma quello, che veniva dal Norditalia, cominciò a fare “ne” e “basta là” e faceva finta di non capire. L’altro fece vedere che teneva la catena dei ferri di Giufà e non poteva lasciarla nemmeno per un istante. I figli del barbiere guardarono dentro al pozzo, e quando videro che era buio e profondissimo si misero a piangere e urlare che erano troppo disperati per compiere certe imprese. Tolto il maresciallo, che pesava sul quintale (scenderlo lo si scendeva, ma chi ce la faceva a riportarlo su?) e tolta la madre di Giufà, che per sesso e per età non era idonea, rimaneva solo Giufà. Così lo legarono, lo calarono e attesero. Quello, da dentro il pozzo, urlò ai figli del barbiere: “Com’era fatto vostro padre?” “Cosa vuol dire com’era fatto? Come a un cristiano, no?” “Ma piedi quanti ne aveva?” “Oh, bella” E due ne aveva, quanti ne doveva avere?” “E lana ne aveva?” “Ma quale lana e lana!” “E aveva le corna, giusto?” Si può immaginare la reazione dei figli del barbiere a quelle parole. Si buttarono sul parapetto del pozzo a urlare improperi e promettere legnate. “Cornuto ci sei tu. Appena sali ti facciamo vedere noi!” Fortuna che intervenne il maresciallo a riportare la calma. Fece buttare un’altra corda nel pozzo. “Lega il corpo alla corda, così lo portiamo su e vediamo coi nostri occhi com’è fatto questo ‘canta-la-noit’.” E tutti rimasero meravigliati nel constatare che si trattava della carcassa di un “crasto” dalle grandi corna attorcigliate. Ovviamente, la madre di Giufà se la rideva sotto i baffi (che, da bambino, immaginai avesse davvero, come li aveva la signora Maria, che mi raccontava la storia). Sapeva che il figlio avrebbe parlato, e nel pozzo aveva gettato l’animale. Cosa fu del cadavere del povero barbiere, però, la signora Maria non seppe mai dirmi, tanto che, ricordo, mi convinsi che, per non volermi svelare il segreto, la madre di Giufà fosse proprio lei. Più d’una volta fui tentato di chiederle del figlio (ero un bambino, in fin dei conti), ma per fortuna non lo feci mai. Anche perché la signora Maria figli non ne aveva avuti mai mai, né col primo, né col secondo marito, e chissà che dolore avrei ravvivato con la mia domanda. Molti anni dopo la stessa storia l’ho ritrovata nella raccolta “Il mare colore del vino” di Leonardo Sciascia, con il titolo “Giufà”, ma traslitterato in caratteri arabi, perché pare che la figura del ragazzo sciocco provenga dall’oriente. Il barbiere diventava però, in quel racconto, un cardinale, e i carabinieri erano sbirri armati d’alabarda. Invece, nel librettino “Le storie di Giufà”, a cura di Francesca Maria Corrao ed edito da Sellerio, il titolo viene italianizzato in “Giufà e il canta-mattino” e la vittima è un non meglio identificato suonatore di zufolo. La storia, però è sostanzialmente la stessa, e chi ne ha poi ricavato un testo scritto (come me, adesso) non ha fatto altro che rielaborare e magari un po’ modificare ciò che già, anche solo in forma verbale, esisteva. Insomma, ha dato forma di narrazione scritta alle azioni di personaggi che venivano prima raccontate a voce. E così ritorniamo al primo rigo di questa storia, dove dicevo che il problema non sta tanto nel raccontare bene le storie, quanto nel trovare le storie da raccontare. Se la signora Maria non m’avesse raccontato, quand’ero bambino, la storia di Giufà e del “canta-la-noit”, difficilmente mi troverei qui ora a riflettere sulla provenienza delle storie. E vero è pure che, distratti dalle vicende quotidiane, spesso non ci accorgiamo delle storie che ci piovono addosso. Ma ci sono occasioni in cui non si può fare a meno di notare come certi avvenimenti siano, come dire, già “ben confezionati”, come fossero avvenuti apposta perché qualcuno li racconti. Hanno dentro tutto quello che occorre per fare un racconto con antefatti, fatti, sviluppi e finale. Di solito, nelle storie che scrivo per ARAI, ometto i nomi, per una regoletta che mi sono dato e che sarebbe noioso stare qui a spiegare. Ma in questo caso infrango la regola e qualche nome lo farò. L’antefatto è questo: una disposizione del direttore generale dell’Azienda Ospedaliera vieta ai medici del reparto di ostetricia di far partorire le pazienti nell’ospedale di Piazza, e di dirottarle verso Enna o Nicosia. La cosa, per carità, ha pure un suo senso: c’è un piano regionale della sanità da attuare; bisogna “far massa critica” (ossia avere quel numero di pazienti che consenta a una struttura sanitaria d’essere economicamente vantaggiosa) e quindi “depotenziare” le strutture che questa “massa critica” non la raggiungono; è opportuno che una sala parto sia vicina a una sala rianimazione, ché coi parti non si sa mai, pare vada tutto bene e poi succede il guaio. E da questi possibili guai, pare abbia tratto spunto il direttore generale nel dare la sua disposizione. Pare infatti che, allarmato da un “guaio” successo nell’ospedale di Leonforte, abbia deciso di non rischiare “guai” analoghi a Piazza dove, appunto, la sala rianimazione non c’è. E quindi il divieto di far nascere nuovi piazzesi. Divieto sancito dalla forma scritta, con disposizione notificata ai medici. Solo che i nascituri sono un po’ tutti Giufà. Hai voglia a vietargli di nascere, ma se si mettono in testa di venire al mondo c’è poco da fare. E così, un po’ prima della mezzanotte del 21 marzo 2011, giunge nell’ospedale di Piazza la signora Consuelo. Sarà che è il primo giorno di primavera, sarà che il pupetto è dispettoso e vuol dare un dispiacere al direttore generale, fatto sta che inizia il travaglio e trasportare la signora Consuelo a Enna (30 chilometri) o a Nicosia (una cinquantina) sembra proprio la scelta più sbagliata. Michele Arco è un medico. Uno di quelli che hanno ricevuto la notifica del divieto di nascere. È anche un pubblico dipendente, e sarebbe tenuto a rispettare e far rispettare le disposizioni dei superiori gerarchici. Per fortuna è un medico prima che un dipendente pubblico. E un essere umano. Quindi disobbedisce e fa nascere il bambino. Sono le 23 e cinquantanove. Da quando sua madre è entrata in ospedale non è passata nemmeno mezz’ora. Al dottor Arco, a questo punto, tocca rimettere le vesti del dipendente che ha violato le regole. Alza la cornetta, chiama la polizia e si autodenuncia. Fosse un’altra storia ci ricamerei sopra ancora un po’, inserirei qualche dialogo (di fantasia), qualche descrizione d’ambiente, qualche pensiero dei protagonisti (immaginato). Ma, come dicevo prima, la storia è più importante del modo in cui la si racconta. O, almeno, certe storie lo sono. E questa è già abbastanza bella così.
[Ma è di questi giorni una triste notizia. Una fatalità o il costo di un risanamento di bilancio?]