di Mauro Mirci
Ed eccolo, il nostro eroe, abbigliato come un barbone, alla ricerca di una punta da trapano del nove, esplicita richiesta dell’imbianchino che monta il controsoffitto: Cinquanta tasselli da otto, visto che vai là. Ossia “là” dove vendono i tasselli. Ma “là” il nostro eroe non trova tasselli dell’otto: solo del nove. L’imbianchino, contattato telefonicamente, dice: Va bene, però avanza la richiesta di una punta di pari diametro. Tale buco, tale tassello. E’ così che il nostro eroe, impegnato in occasionale lavoretto manuale casalingo, e adeguatamente abbigliato, s’è trovato vestito da barbone a girare di sabato pomeriggio per un paese che s’accinge a indossare il vestito buono per lo struscio e la discoteca. La tenuta, che taluni non esiterebbero a definire indecorosa, consiste di: camicia a riquadri azzurri su sfondo bianco, tutta schizzata di vernice grigio grafite e quindi, in definitiva, a riquadri e pois; jeans lisi a vita alta, anch’essi schizzati di vernice, e inoltre impolverati e squarciati al cavallo (con conseguente ingresso d’aria gelida atta a raffreddare eventuali e inopinati bollori). Scarponcini in pelle, modello vagamente Clarks, stravecchi. Per coprire le vergogne l’eroe ha indossato un giubbottone blu, comprato con gli sconti ai tempi dei canonici di legno, lungo sino a metà coscia. Buono per nascondere lo squarcio, non per le ventate ascendenti di area gelida (ma a salire non era l’aria calda?).
Solo che il nostro eroe conosce un po’ di gente e quindi, anziché insistere con il venditore di ferramenta perché gli si reperisca, e in fretta, una punta da trapano del nove, finisce al banco di un bar a sorbir caffè in compagnia di un assessor giovine, di un ragazzone magrissimo e flemmatico, e del venditore di ferramenta medesimo. I caffè li offre il venditore di ferramenta: un po’ per buon cuore, un po’ a titolo di risarcimento per non aver soddisfatto la richiesta di ‘ste benedette punte del nove, accidenti a loro. Che l’imbianchino s’arrangi con la punta dell’otto, cogita il nostro eroe, mentre butta giù l’espresso. Poi s’esce, e il nostro eroe ottiene quello che cercava più della punta da trapano. Ossia una storia da raccontare. Gliela regala il ragazzone magro e flemmatico. E’ un ultraventenne, probabilmente universitario (al nostro eroe pare di aver capito così), che confida all’assessor giovine di aver trovato un lavoro online, remunerativo e di tutta comodità: modera le chat che fioriscono al margine delle partite di Bingo in internet. Il nostro eroe estende i padiglioni auricolari. Apprende così che il Bingo, anche se funesto per le tasche di coloro che vengono catturati dal fascino del gioco, può esser una dignitosa fonte di reddito. E apprende che i giocatori solidarizzano e fanno amicizia, ma quando perdono tendono a farsi prendere dall’astio, danno in escandescenze e diventano violenti. Tutto virtualmente, s’intende, perché ogni azione e vilipendio si consuma sul monitor di un computer. Ma siccome ne va del buon nome della casa da gioco, ossia del portale che gestisce il gioco, serve qualcuno che riconduca i nervosi sulla via della ragione. Un buttafuori digitale, insomma. Ma come fai?, chiede il nostro eroe al suo nuovo amico, Li disconnetti? E il ragazzone flemmatico non dice sì, ma nemmeno no, e fa capire che, sì, all’occorrenza sa essere anche duro, e se le ammonizioni agli indisciplinati si sono rivelate vane, li acciuffa per la collottola virtuale e con un altrettanto virtuale calcione li espelle senza pietà. Il nostro eroe trova che sia un mestiere originale: un buttafuori demuscolarizzato, e chi l’avrebbe creduto mai possibile? Gli chiede pure come si fa a farsi assumere. Se vai in quei siti lì c’è il link Lavora con noi, basta cliccare, dice il ragazzone. Il nostro eroe è contento. Ha una storia da scrivere. Lo dice al ragazzone flemmatico e quello ride. L’assessor giovine conferma: guarda che lo scrive davvero. Un’ombra di preoccupazione attraversa la fronte del ragazzone flemmatico. Solo per un attimo il nostro eroe si preoccupa che, scrivendo del buttafuori virtuale, possa metterlo in qualche modo nei guai col datore di lavoro. Ma è solo un attimo. Una storia è una storia: si deve raccontarla.
* Pezzo apparso su ARAI news n. 17 – Marzo 2011