di Pasquale Faseli
Dal dopoguerra ad oggi la lotta alla mafia, tra alterne vicende, ha fatto registrare perdite di vite umane solo sul fronte dei servitori dello Stato e dei privati cittadini. Un sacrificio inutile perché le cosche invece di indietreggiare hanno conquistato nuovi territori e, con azioni a tenaglia, dal piede dello stivale sono arrivate alla rotula indisturbate. Per ogni cento mafiosi assicurati alla giustizia ce ne sono altri mille pronti a sostituirli perché la mafia non è costituita solo da quelli che delinquono, questi sono solo la punta dell’iceberg. La mafia più pericolosa è quella sommersa, fatta da innumerevoli formiche mafiose che lavorano incessantemente per procurarsi vantaggi ridicoli gli uni sugli altri. Questa mafia sommersa procrea senza sosta quella che delinque, la procrea e la sostiene, trasformando dei semplici criminali in paladini di un costume, di un modo di essere, di un modo di vivere. Il criminale può essere arrestato, annientato; il mafioso mai, perché lui incarna un’idea, e, tolto di mezzo lui, l’idea rimane e lui viene subito rimpiazzato. Dentro ogni mafioso c’è un retaggio culturale così radicato, come di scienza sin dentro la coscienza, che lo fa sentire combattente di una religione non confessata e senza idoli, ma pur sempre una religione.
Vorrei adesso citare due libri per me esemplari su quanto detto sin qui. Il primo è “Dieci anni di mafia. La guerra che lo Stato non ha saputo vincere” di Saverio Lodato. È una sequenza impressionante di inquirenti e forze dell’ordine che cadono sotto la mannaia mafiosa tra l’indifferenza generale. Uomini difensori degli ideali di giustizia, che a un certo punto sentono intorno a loro il vuoto anticipatore della loro condanna a morte. Amici, colleghi e conoscenti, si allontanano, si eclissano, si negano al telefono, ed essi capiscono che la loro ora è vicina, che la loro sorte è ormai ineluttabile; sono cioè dei morti che camminano, oppure morti che ancora non sanno di esserlo, come si usa dire nel gergo mafiato. Poi, dopo il loro assassinio si levano le condanne contro la mafia, si fanno manifestazioni, ci si indigna per qualche ora e, infine, tutto torna come prima. Le indignazione a posteriori sono come le lacrime di coccodrillo.
Il secondo libro è “Il prefetto di ferro” di Arrigo Petacco, Mondadori. (Alcune frasi del libro sono intercalate alle mie nei paragrafi che seguono).
Siamo nel 1924, Mussolini sta compiendo il suo primo viaggio in Sicilia in veste di Presidente del Consiglio. Il programma prevede una visita di quindici giorni, ma se ne torna a Roma con una settimana di anticipo. Cosa gli fa anticipare il rientro?
A Piana dei Greci, tra la folla plaudente e il cordone dei poliziotti, lo accoglie don Francesco Cuccia, il sindaco. Mentre gli siede alla sinistra sull’auto scoperta, don Francesco Cuccia, con tono di amichevole rimprovero formula a bassa voce a Mussolini la sua domanda: “Voscenza, signor capitano, è con mia… è sotto la mia protezione. Che bisogno aveva di tanti sbirri?”.
Per Mussolini questa frase fu peggio di uno schiaffo, ma fu anche una rivelazione. Se un semplice capomafia di un paesino si sentiva superiore a lui, il futuro duce, chiamandolo addirittura capitano, che per Cuccia rappresentava il più alto grado di qualunque gerarchia, allora la mafia doveva essere qualcosa di indefettibile. Lasciamo da parte quello che successe dopo, con l’incarico dato al prefetto Mori di ripulire la Sicilia dalla mafia, cosa che si avverò fin quando Mori non giunse a quel livello dei gerarchi fascisti collusi con la mafia. Ed esaminiamo da vicino don Cuccia. Costui, al suo paese era sindaco, duce, monarca, Presidente del Consiglio, e di quello che accadeva fuori del suo paese non gli importava nulla. Quindi nella sua mentalità Mussolini era un semplice capo di uno Stato che stava fuori dal suo paese, e quindi valeva meno di niente. Ma da dove gli veniva questa convinzione? Gli veniva dal senso di appartenenza, dal sentirsi anima e corpo, un tutt’uno con quelli che lo circondavano, un unicum costituito da una moltitudine che si era sublimata in lui. Ma non solo Cuccia credeva di essere così, lo credono tutti i mafiosi, sia quelli che delinquono che quelli che non delinquono.
Ma tutto questo ragionamento cosa c’entra col mio libro? Il libro infatti non parla della mafia che tutti conoscono per sentito dire, per le cronache riportate sui giornali, o novellata nei film e nei telefilm. O per meglio dire, parla anche di quella, ma solo incidentalmente. Il libro racconta spaccati di vita di un paese siciliano nell’arco di mezzo secolo, nel tentativo di spostare l’obiettivo sulla lotta alla mala pianta mafiosa: dai rami alle radici, dal frutto al germe.
Nessun altro modo esiste per combattere la mafia, e cinquant’anni di battaglie perdute sono lì a dimostrare che la via seguita sinora è una via lastricata di corpi di innocenti.
Aggiungo che il libro è un saggio romanzato, suddiviso per capitoli dagli anni cinquanta ai nostri giorni dove l’io narrante è di volta in volta un bambino, un adolescente, un adulto, e così via; ed anche il linguaggio del libro si adegua all’età del narratore.
Andiamo avanti.
L’emigrazione, la disoccupazione, la carenza di strutture collettive, le innumerevoli opere pubbliche inutili costruite solo per finanziare mafia e politica; di chi è la colpa? Dei politici? Della mafia? Chissà come mai in Danimarca non c’è la mafia! Cito la Danimarca a caso perché ha circa gli stessi abitanti della Sicilia.
Vorrei però aggiungere una nota folcroristica, in modo da alleggerire l’argomento, forse troppo pesante. Quasi quotidianamente guardo un sito web dell’isola, e, proprio in questo sito, alcuni mesi fa era pubblicata la foto di una decina di cassonetti dell’immondizia vuoti, con intorno una montagna di sacchetti di spazzatura. Mi dicono che molti siciliani se devono percorrere venti metri prendono l’auto, ed anche per andare a buttare la spazzatura ci vanno in macchina. E dalla macchina, senza scendere, buttano il sacchetto nei pressi del cassonetto. Ora è evidente che tutto questo può essere considerato solo mancanza di senso civico. Ma buona parte dei siciliani compiono quotidianamente decine di azioni del genere. Se moltiplichiamo le decine di mancanze di senso civico quotidiano per tutti i siciliani senza senso civico, e continuiamo a moltiplicarli per tutti i giorni dell’anno e poi per i decenni, abbiamo miliardi di mancanza di senso civico, che sono l’ossigeno per la mafia e per i politici collusi con essa.
Mi rendo conto che la moltitudine dei siciliani dotati di senso civico, in questo contesto soffrono, si indignano, imprecano, si agitano. Ma sono appunto persone educate destinate a soccombere di fronte ai prepotenti e ai maleducati. È una legge di natura. I maleducati sono pesanti, hanno un peso, sono come il nucleo dell’atomo, mentre le persone perbene sono come gli elettroni che non hanno massa, e si agitano continuamente per dimostrare di esistere. Ma è solo il nucleo che dà consistenza all’atomo, che gli dà una collocazione specifica tra tutti gli altri elementi, che lo fa di volta in volta ferro, oro, o idrogeno. Perché ha massa, e quindi un peso. Gli elettroni invece si agitano e basta. In eterno si agitano, ma sono solo energia allo stato puro, come i siciliani onesti.
“Siamo tutti mafiosi”, romanzo di Pasquale Faseli, Sangel Edizioni.
Pasquale Faseli è nato a Raffadali (Agrigento) nel 1951 e vive a Varese, dove esercita la professione di ingegnere edile. Questo è il suo primo romanzo. Di prossima uscita il romanzo di fantascienza I senza memoria con la casa editrice il Ciliegio. Suoi racconti e articoli sono stati pubblicati su riviste cartacee e vari siti web.
aspetto la ricetta del pesto alla trapanese!
E’ qui:
http://www.paroledisicilia.it/principale/2008/09/30/il-mitico-pesto-alla-trapanese-o-giu-di-li/