C’è una sagoma indistinta dietro alla cortina di vapore. La mano si muove di volontà propria e traccia un arco nitido sul vetro appannato. Il volto che prima si intuiva ora appare ed è il suo. Ha gli occhi ancora gonfi di sonno. Apre il rubinetto dell’acqua calda. Una cataratta di liquido incandescente si riversa sulla ceramica del lavabo, schizza, tracima, rumoreggia.
L’urlo di sua madre, oltre la porta chiusa a chiave, sembra un muggito. Lorenzo non distingue le parole ma le immagina. Tenta di forzare il rubinetto, ma è già aperto al massimo, non potrà incrementare oltre il consumo idrico della casa e provocare a sua madre un aggravamento delle già rumorose preoccupazioni per l’importo delle prossime bollette.
Che, poi, dà lui alla madre i soldi per pagarle, ma non c’è nulla da fare: il giorno della bolletta è denso di strepiti e sospiri. Ma che ci farà mai sua madre coi soldi che le dà? Le gira metà dello stipendio, anche di più, dipende dal periodo. Lei gli rinfaccia sempre che non sa gestirsi.
“Avrà i libretti della posta che scoppiano, ormai” pensa Lorenzo. Immagina i conti di sua madre (ma cointestati a lui, così che un domani si trovi qualcosa da parte, così sostiene lei, ma intanto chi li ha mai visti ‘sti libretti?) come grandi otri gonfi, le cuciture tese, in procinto di scoppiare. A ogni stipendio un malloppetto di banconote in più, l’otre che si tende oltre le sue possibilità fisiche, sembra impossibile eppure resiste.
La porta risuona della tempesta di colpi con cui sua madre la colpisce.
— E chiudilo ‘sto rubinetto — urla. — Quanto deve arrivare d’acqua?
Lorenzo vorrebbe urlare, ma sente di non averne la forza. Riduce i giri del rubinetto e l’acqua prende a scorrere con una portata più gestibile. Sente la madre che dietro alla porta sospira soddisfatta e si allontana. Poi però ci ripensa e torna indietro. Bussa.
— Che fa, te lo preparo il caffè?
— Sì mamma — dice lui.
Si sciacqua la faccia con l’acqua calda, poi si spruzza la schiuma da barba sul palmo della mano. Inizia a spalmarla sul viso. Dedica massaggi al mento, dove la barba è più ispida, alla gola, al labbro superiore. Sciacqua le mani. Il rasoio è nuovo. Lo bagna sotto l’acqua e inizia a radersi nel senso del pelo. La lama di sicurezza scorre docile sulla pelle. È un rituale vecchio di anni. Prima il mento, poi la guancia destra, la sinistra, la gola, sotto le basette. È completamente rilassato. Gode del debole raschio della lama sui peli irti.
Lo specchio è di nuovo appannato. Mentre ci passa sopra la mano avverte il gelo del vetro e la sensazione di rilasciamento svanisce. Ha un brivido. Si guarda di nuovo mentre il vetro lentamente torna ad appannarsi. Per un attimo non si riconosce.
Si studia. La forma del viso è quella di sua madre. Gli occhi, invece, sono quelli del padre. Sta iniziando a stempiarsi, come lui, ma i capelli sono ancora perfettamente neri. Fa un passo indietro. Ora lo specchio lo riflette da metà della coscia in su. “Se fossi una donna mi piacerei?” si chiede. Ha le spalle ampie, ma le braccia hanno bicipiti da impiegato. Poco sopra l’inguine la pancetta è ormai installata con decisione. Il membro pende flaccido.
Abbassa lo sguardo per osservarsi senza l’intermediazione dello specchio. Quando era più giovane ha sempre pensato che nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande. Sarebbe andato via dal paese e sua madre non sarebbe più stato un ostacolo. Le sue esigenze erano onnipresenti, ogni azione, ogni progetto doveva tenerne conto. Gli aveva accordato il permesso di allontanarsi per gli studi universitari, ma aveva bocciato ogni iniziativa che rischiasse di portarlo oltre lo Stretto. Era persino riuscita a evitargli i servizio militare, intrallazzando carte e certificati medici. Lorenzo sospettava che avesse addirittura pagato qualcuno del distretto militare.
Qualche volta erano arrivati ai ferri corti. Lui aveva minacciato di andarsene, di lasciarla sola. E lei aveva reagito urlando. Disperata ma senza mai cedere. Lo aggrediva e lo blandiva. Minacciava di non pagargli più gli studi.
Lorenzo aveva spesso sognato di andare via. Sparire, non dare più notizie di sé, vivere di espedienti e dormire dove capita, mantenersi con lavori occasionali. Ma infine vivere, rendendo conto solo a sé stesso.
Poi aveva vinto il concorso comunale.
Si riavvicinò allo specchio fino a toccarlo col naso.
“Che cosa mi sarebbe piaciuto fare?” pensò. “Da bambini tutti immaginano cosa saranno da grandi. Io cosa immaginavo che sarei diventato?”
Sfilarono nella sua mente i futuri che poteva avere immaginato da bambino. Ingegnere edile, avvocato, medico chirurgo, ufficiale di cavalleria (gli piacevano molto i cavalli, da bambino), imprenditore, presentatore della TV, attore cinematografico, idraulico, vigile urbano, insegnante di scuola media, marinaio, cacciatore di cinghiali, poliziotto o (a scelta) carabiniere, investigatore privato, pirata, astronauta in viaggio per Marte e Plutone, pilota da caccia della seconda guerra mondiale, arciere del re, cavaliere da giostra medievale infagottato nell’armatura lucente.
“Forse ingegnere edile” penso, “oppure avvocato. È più probabile. Medico chirurgo no, che il sangue mi ha fatto sempre impressione.
Eppure, no, niente di tutto questo.
Caldaista, muratore, falegname, ortolano come bisnonno, tessitore, sarto, venditore ambulante di scampoli, cuoco, pizzaiolo, corazziere, archibugiere, moschettiere, Sandokan alla riscossa e Corsaro Nero, elicotterista, autista d’autobus e/o di taxi, ciciraro, viveur, venditore di panini ca meuza, bibitaro, bigliettaio dell’autobus, rapinatore di banche, scrittore, edicolante, carnezziere (no, macellaio no, perché anche il sangue degli animali gli faceva impressione), pianista da concerto, calciatore, pasticciere, mendicante, operaio specializzato, prete, ricercatore universitario, netturbino, giardiniere, elettricista, impresario di pompe funebri, benzinaio, gigolò. Pubblico dipendente no. Quello che poi era davvero diventato non aveva mai sognato di esserlo.
Tornarono i ricordi di lunghi pomeriggi trascorsi davanti alla televisione, anziché studiare. L’alito pesante, i capelli sporchi, mezzo addormentato nella casa da studenti fredda o puzzolente di fritture e immondizia accatastata in cucina. Rivide il libretto universitario, una breve teoria di diciotto — e un ventidue —, rivide le facce mai sorridenti delle commissioni d’esame, le lunghe code nella mensa universitaria senza parlare con nessuno, evitando i paesani che gli avrebbero sicuramente chiesto quante materie aveva dato.
“Che progetti avevo?” si chiese. “Era destino che dovessi tornare qua, con lei.”
“Io volevo essere…” pensò. “Io volevo essere…”
No, non riusciva a concludere quel pensiero. Certo, doveva pur avere desiderato di essere qualcosa nella vita. Chi non sogna un futuro radioso?
“Cosa sognavo io?” pensò Lorenzo. “Che futuro mi immaginavo?”
Scavò ancora nella memoria, ma non trovò nulla. Solo il desiderio di tornare a casa quando ne era distante. Nient’altro.
“Appunto” pensò. “Io volevo essere niente”.
Medico chirurgo no
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bello. stai diventando lo Scott Fitzgerald della Trinacria.
Modesta apparte, c’ho il coccio della lettera, c’ho.