Dall’archivio di paroledisicilia.it, una vecchia intervista a Francesco Randazzo all’indomani dell’uscita del suo “Cronache di Prodigiosi amori. ma.mi.
“Forse la Sicilia è un ossimoro, quindi difficile da spiegare e da vivere. Niente è impossibile, secondo me ogni vita e ogni scelta hanno senso se sono vissute e agite pienamente. Si può essere quello che si vuole, dipende cosa vuoi e cosa sei disposto a fare nella tua unica vita per esserlo. Vivi dove vuoi come puoi, fai quello che vuoi dove puoi.”
Il curriculum di Francesco Randazzo è ricco e variegato. Svolge principalmente l’attività di regista, ma vanta al suo attivo alcune pubblicazioni. Cronache di prodigiosi amori è il suo primo romanzo, un romanzo breve e denso, di cui il sottotitolo (teatro di meraviglie occorse in un agosto di Sicilia) costituisce perfetta sintesi. (ma.mi.)
Parole Di Sicilia – Ciao Francesco, ti ringrazio innanzitutto per la tua disponibilità. La lettura di Cronache di prodigiosi amori mi ha incantato perché recupera una tradizione di narrazione delle meraviglie che richiede un linguaggio particolare, meraviglioso anch’esso, capace a ogni frase di regalare scoperte inattese. Però, se dobbiamo guardare alle forme stilistiche che la gran parte dei narratori sembra prediligere oggi, sei in chiara controtendenza. Il linguaggio narrativo attuale è alla continua ricerca di una prosa lineare, oralizzata, poco propensa all’apoteosi e alla perifrasi. Quindi, da dove nasce questo romanzo? E’ stato solo un divertissement, oppure cela motivazioni più profonde?
Francesco Randazzo – L’inattualità, in contrasto con le correnti modaiole che infestano il mondo dell’arte e della cultura in genere, è un mio modo d’essere. Non significa che non vivo e partecipo al mondo. Ma non cavalco cavalli già fatti sudare da altri, provo ad andare con il mio Ronzinante. Quando va bene, qualcuno, dopo, lo scambia per una Porsche, quando va male, almeno ho fatto qualcosa di mio, ho perseguito un sogno chisciottesco, ma personale.
Cronache di prodigiosi amori , l’ho scritto per divertimento, ma anche come un grande esercizio di stile e un certo gusto dissacratorio del genere alto. Per me è stato una palestra, un gioco d’artificio. Adesso sto scrivendo qualcosa di molto diverso, molto attuale, tanto da essere nel futuro, o in un tempo altro. Ma il linguaggio pur essendo contemporaneo, esasperatamente attuale, è elaborato, in certi casi parossistico. È come parliamo oggi, ma con la stessa complessità linguistica che c’è in Cronache di prodigiosi amori. Mi piace la lingua, la sua aleatorietà, l’ironia delle etimologie e delle assonanze, la possibilità, scrivendo di ricrearla continuamente. Con sapienza e autoironia. L’ironia salverà il mondo, quantomeno dalla noia! Tutte queste verità tutte d’un pezzo che certa Kultura ci spaccia come “alte”, diciamo la verità sono una gran rottura di palle e sono anche pericolose, perché invece di aprire, chiudono. E tutta questa banalità massmediatica è un prolasso mentale, una marmellata oppiacea. Io frullo tutto insieme, bevo, sputo e con quello che mi rimane fra i denti provo a dire qualcosa di diverso. La filosofia della scorreggia del Principe Ignazio, per esempio, viene da questo, è un gioco ma nasconde qualcos’altro. È uno disincantato, intellettualmente dotato, socialmente privilegiato, che vive in un mondo che non gli piace, facendo la “monade” di sé stesso quando è solo, e combinando casini quando è in compagnia. Un anarchico di lusso.
PDS – Il tuo romanzo è autopubblicato. La cosa mi ha lasciato di stucco. “Possibile che non abbia trovato un editore interessato a pubblicarlo a spese sue?” mi sono chiesto. Poiché il dubbio è sempre quello, lo domando a te: possibile?
FR – È possibile. Mi piacerebbe dirti che da Adelphi a Sellerio, passando per tutte le altre in ordine alfabetico, lo volevano a tutti i costi ma io ho sprezzantemente rifiutato, perché volevo delle royalties più alte! Ma non è andata esattamente così. Però mi secca un po’ discutere di questo. Quando si parla di editori e autori esordienti in internet è un coro di lamenti e non mi va di aggiungerci anche la mia voce. Trovo sia molto più utile fare che stare lì a perdere tempo a lamentarsi.
PDS – Personalmente sono dell’opinione che molti degli alti lai sollevati in rete da sedicenti scrittori siano ingiustificati. Alla riprova dei fatti la qualità di molti scritti non mi sembra giustifichi certe aspettative; però il tuo è un caso a parte. Il tuo libro merita di essere letto perché, molto banalmente, è un bel libro.
FR – Questo libro ho iniziato a scriverlo, in maniera piuttosto discontinua, più di dieci anni fa, l’ho terminato da circa cinque anni. Ho inviato il manoscritto a decine di editori, dai più grandi ai più piccoli. Cinque anni di costanza postale. Non ho un agente letterario, non ho uno sponsor, dunque… Però vedi che, alla fine, stiamo parlando di autori ed editori? Non so se quello che ho detto sembra una lamentazione. Può sembrarlo?
PDS – E se ne facessimo un esploso?
FR – Un esploso?
PDS – E’ una tecnica del disegno industriale: si evidenzia una parte che occorre rappresentare con maggiore dettaglio e la si disegna a parte, a scala maggiore, mostrando le varie parti della macchina e come andranno montate.
FR – Una sorta di focus. Va bene.
PDS – Allora continuiamo a parlare di te e del tuo libro, mentre chi vuole qualche altro ragguaglio su questo misterioso mondo dell’editoria non dovrà fare altro che cliccare qui. Dammi solo un attimo.
FR – Hai finito di armeggiare con i link?
PDS – Sì, possiamo continuare. Già nella recensione pubblicata su paroledisicilia.it ho scritto che questo romanzo andrebbe letto, in piedi, a voce alta e in compagnia di gente allegra. Adatto alla rappresentazione, dunque. Tu sei un regista. Quindi?…
FR – Quindi ho fatto una presentazione a Roma alla libreria Odradek, dove ho letto alcuni capitoli del romanzo. Ha funzionato molto bene, il pubblico si è divertito moltissimo. Successivamente, sempre a Roma, in un caffè letterario, un attore ne ha letto un altro capitolo. A giugno farò una presentazione-reading in Umbria, forse due.
Insomma, ho deciso insieme a due musicisti che collaborano con me di farne uno spettacolo letterario-musicale, per una tournée estiva…
PDS – Citazioni, barocchismi, prestidigitazioni letterarie, personaggi disegnati in maniera originale. E, sullo sfondo, una Sicilia luminosa, sempre reale e realistica. Il volo di Flora rimanda all’assunzione in cielo di Remedios in Cent’anni di Solitudine. Anche Achiropita ‘a gruossa sembra provenire dall’inesauribile bestiario di Marquez. Almeno questa è stata l’impressione. E’ solo una mia impressione?
FR – Io leggo in un modo ossessivo, per lavoro, perché mi piace, perché sono curioso, e perché non posso farne a meno; quando mi stanco di leggere per lavoro, solitamente di teatro, leggo un romanzo, se sono agitato leggo poesie, se sono nervoso leggo un giallo, se aspetto in fila leggo un saggio, leggo, leggo, leggo: fortunatamente dimentico tutto, sennò sarei un pazzo o un pedante. Mi rimane tutto dentro però e ogni tanto salgono a galla dei pezzi. La notte, quando scrivo. Non in maniera cosciente, ma sono mondi che mi porto dentro, innegabilmente. Oltre a tutta una serie di echi letterari isolani e di certa letteratura fantastica da Rabelais ad Ariosto, ho amato molto la letteratura latino americana, da Marquez a Rulfo, da Bioy Casares a Santana, Borges naturalmente, e molti altri. Sono stato in Sudamerica per lavoro, ho imparato il castigliano per comunicare con gli attori e per leggere Marquez in originale, ho sposato una venezuelana, sto scrivendo un testo teatrale in spagnolo, no, forse non è solo una tua impressione!
PDS – “Siciliano della diaspora”, c’è scritto sulla quarta di copertina del tuo romanzo. E’ una diaspora agognata, subita o capitata così, inopinatamente?
FR – Sono andato via per studiare all’Accademia Nazione d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, dove mi sono laureato in Regia, dopo sono rimasto, ho cominciato ad andare all’estero per lavoro… sono tornato a Roma… in Sicilia, adesso, torno ogni tanto, per lavoro o per passare qualche giorno con la famiglia.
È una diaspora, più che fisica, dell’anima, un modo per avere con l’Isola un rapporto reale ma onirico, fecondo dal punto di vista creativo. Quando torno, dopo qualche giorno d’esaltazione, mi accascio e mi sembra di sentirmi appollaiato sulla spalla Tomasi di Lampedusa che mi dice continuamente: “Io te l’avevo detto…”. I momenti migliori sono quelli in cui faccio la “monade”, come Ignazio il Principe, in una stanza della casa di mia nonna… a porta chiusa, naturalmente.
PDS – Sono stati in molti gli artisti siciliani che hanno dovuto cercare fuori dalla Sicilia il modo per affermarsi. Anche coloro che hanno vissuto e operato nell’isola sono stati costretti a costruire e consolidare altrove la propria personalità artistica (penso a Verga e Pirandello, ma anche a Camilleri, e non mancano numerosi altri esempi). Ma allora è proprio impossibile per un siciliano imporsi all’attenzione di un pubblico se non sa allontanarsi dalla Sicilia?
FR – Camilleri è stato il mio insegnante di Regia in Accademia, le sue lezioni erano meglio di un romanzo, un’affabulazione continua. È andato in pensione e l’hanno scoperto. Cazzus! E dove s’era nascosto fino ad allora? Scriveva già da una vita. Nooo, ma che mi stai dicendo?
E tutti in Sicilia: – È nostro! È nostro!
Il fidanzato di mia sorella, valdostano, divora i suoi libri e dice “picciliddru” con una pronuncia raccapricciante.
E al Nord Bossi tuonò: – Bisogna creare un personaggio padano che faccia concorrenza a quel terrone di Montalbano!
Potenza del Maurizio Costanzo Show, se non c’era la tivù diventava postumo. Lui, che è uno ironico, c’ha sempre scherzato su.
Qui a Roma c’è una colonia di Siciliani, ci sarà un motivo? Scherzi a parte, la Sicilia è una terra meravigliosa, è però anche una società spietata con i suoi figli, pronta ad appropriarsi di quello che riescono a fare dopo che se ne vanno, a parole però, fatti pochi. Da postumo è meglio, corri il rischio di far fortuna fra commemorazioni, convegni, ristampe e film: Don Giuseppe, il Principe di Lampedusa, per esempio.
Comunque fra i siciliani, quelli che restano, alcuni riescono a fare comunque grandi cose, perché se ne vanno lo stesso, vale a dire che con la testa partono verso altri mondi, ne creano di nuovi o per lo meno ci provano. Penso a Bufalino, per esempio. Poi è anche questione di fortuna. Se la aspetti, non arriva; se ti muovi, forse prima o poi la sfiori.
Adesso però, ci sono molti giovani che vanno e vengono, giovani che restano e smuovono le acque. C’è un certo fermento. La situazione generale però, sociale e politica, mi sembra ancora un disastro. O meglio, un ossimoro. Forse la Sicilia è un ossimoro, quindi difficile da spiegare e da vivere. Niente è impossibile, secondo me ogni vita e ogni scelta hanno senso se sono vissute e agite pienamente. Si può essere quello che si vuole, dipende cosa vuoi e cosa sei disposto a fare nella tua unica vita per esserlo. Vivi dove vuoi come puoi, fai quello che vuoi dove puoi.
PDS – I tuoi scritti precedenti sono opere di poesia. Perché non ce ne parli? Perché poi il passaggio alla prosa?
FR – Sono opere in versi. Ho iniziato scrivendo testi teatrali in versi, ancora oggi scrivo in cadenze ritmiche che sembrano versi, ma è una scrittura che mima le scansioni del parlato, una sorta di partitura per gli attori. Di poesie in senso stretto ho pubblicato un libretto nel 2003, “Come un pesce azzurro”, e qualcos’altro qua e là. La poesia è quintessenza, parola che irradia, sintesi magica del pensiero, è uno strumento difficile da suonare ma potente, è una sfida di chi scrive, tentando di mettere l’universo in una piccola bottiglia. È la forma primigenia di tutta la letteratura, del teatro, della storia ed è anche per chi come me ama usare la lingua forgiandola, un tramite espressivo enorme. Ed è uno strumento prezioso anche per la prosa; se segui l’andamento delle frasi di Cronache ci trovi endecasillabi, settenari e quant’altro, che legati insieme creano una certa musicalità complessiva. Parallelamente, ho sempre scritto prose, soprattutto racconti, pubblicati su alcune riviste, non c’è stato un vero e proprio passaggio. A volte mi distraggo e passo ad altro, tutto però vive contemporaneamente, non ci sono cesure o compartimenti stagni. Ci sono molti mondi possibili nella mia testa, dunque molte forme di scrittura possibili. In mezzo a tutto questo ci sto io, che provo a guardare e descrivere quello che vedo, anche se in realtà, forse, non c’è. O è qualcos’altro.
Ogni cosa che faccio, la faccio a precipizio, così posso fare/ qualcos’altro. In tal maniera passano i giorni…/ Un fondersi in corsa di carri bestiame e/ interminabile costruire di una cattedrale gotica./ Dai finestrini in corsa io vedo/ tutto ciò che amo restare indietro: libri non letti,/ facezie non raccontate, paesaggi non visitati…// Guardandomi alle spalle vedo la sua forma/ e allora vado avanti, come chi nel bosco/ di notte oda passi che s’avvicinano/ e si fermi in ascolto; poi invece del silenzio/ sente una creatura che cerca di non farsi udire. È una poesia di Stephen Dobyns, un grande poeta americano contemporaneo, uno che scrive di tutto, romanzi, poesie, thriller, saggi (naturalmente in Italia hanno pubblicato solo i thriller…). Mi piace molto, mi sento anch’io così.
PDS – Gesù , Francesco! Ho dato un’occhiata al conteggio battute di Word. Abbiamo superato le 18.000. Anzi, andiamo per le 19.000; è un po’ troppo per il lettore medio della rete.
FR – Dici?
PDS – Sì, sai, c’è tutto una serie di studi sul tempo che il navigatore medio dedica alla pagina, il tipo e le dimensioni dei caratteri utilizzati, il colore dello sfondo, le immagini, l’impaginazione, la lunghezza. Queste cose qua, capisci? Il sito rischia di perdersi visitatori per calo d’attenzione.
FR – Allora… finiamo qua?
PDS – Beh, sì.
FR – Ma la pagina si può stampare, no?
PDS – Certo. Dai, chiudiamo. E’ stato un piacere conversare con te.
FR – Che modi! Spassiba e bye.
Risorse
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