Che la scrittura di Gesualdo Bufalino possa apparire, al neofita, un po’ ostica, è cosa nota. Superato lo scoglio, però, si scopre un autore dallo stile elegante e ricercato, ma non per questo meno distante dalla sostanza dell’umana tragedia.
Tra tutti i libri di Bufalino, il primo è forse il più bello: “Diceria dell’untore” è un grande romanzo e, assieme, uno straordinario resoconto, tutto in soggettiva, sul mondo della vita nel sanatorio e del rapporto tra i tisici con la loro malattia, con il mondo, con la vita che giunge a termine.
In Bufalino forma e sostanza (storia e stile) si fondono e fanno un “uno” indissolubile. “Diceria dell’untore” non esisterebbe slegato dalla sua prosa alta. Cortazar scriveva:
“La maggior parte dei critici (…) confondono la letteratura con l’informazione di lusso. (…)
sembrano esserci pochissimi creatori e lettori sensibili allo stile come struttura originale nei due significati del termine, nella quale ogni impulso o segno di comunicazione tende alle potenze estreme, agisce in altezza, larghezza e profondità, promuove e commuove, frastorna e tramuta (…) Il danno risiede nel deliberato impoverimento dell’espressione (…) che coincide con la sopravvalutazione del tema che motiva il testo. Non sembra notarsi che, quando si trasmette in modo imperfetto, la ricezione oscilla fra l’incompletezza e la falsità.”
“Diceria dell’untore” è un testo iniziato nel 1950 che sarà pubblicato solo nell’81. Un romanzo potente che rivela il grande scrittore che si nascondeva dietro l’apparenza di un grigio insegnante di provincia. Romanzo figlio di un ripensamento durato tre decenni e interrotto solo per l’insistenza di Leonardo Sciascia (scrittore dalla scrittura netta e lineare, lui, diversamente da Bufalino) e di Elvira Sellerio. Romanzo che connota da subito (ed era ora, perchè Bufalino aveva sessantun’anni, al momento del suo esordio letterario), uno scrittore che era tutt’uno col suo stile, “era” il suo stile.
Come per tutti gli autori di cosiddetti “testi difficili”, immaginavo, certo, che fossero in molti a non apprezzarlo. Mai, però, avevo pensato che qualcuno potesse rimproverargli proprio lo stile. Che qualcuno potesse rimproverargli l’uso di parole di uso meno comune, oppure l’uso di metafore inusuali, o la sintassi talvolta baroccheggiante, quello svolgersi della scrittura che è musica, e si immagina sussurrata, con voce calda, un’onda di parole che ti accarezza, ti netta dalle sozzure del quotidiano e ti costringe a meditare ogni periodo, ogni sillaba, ma non per vincerne la difficoltà, bensì per apprezzare la bellezza. Mai avrei immaginato che qualcuno potesse rimproverare Bufalino di essere sé stesso.
“La scrittura è troppo opaca e pone un filtro tra il lettore e la storia. Non seguo la trama perché sono troppo impegnato a decifrare il significato delle parole. Questa è finta cultura.” Lo scrive, proprio parlando di “Diceria dell’untore”, Jacopo Cirillo, sul sito della rivista “Finzioni”.
E ancora: “Il miglior modo per valutare la bontà di un cameriere è notare se il suo atto di aprire una bottiglia di vino e di versarla influenza, o addirittura inibisce, la conversazione a tavola. Di solito è così: mentre lui fa tutte queste cose, si sta zitti e ci si guarda negli occhi finché non se ne va. E invece i camerieri migliori sono quelli che passano, ti servono, non te ne accorgi ma ne noti lo stile.”
Bene, sempre facendo riferimento alla metafora del cameriere (in merito alla quale ci sarebbe molto da discutere, se vogliamo, ma altro è il tema), Cirillo accosta lo stile di Bufalino (o Bufalino stesso, non ho ben compreso) a un cameriere, a un “poverino in livrea” che “inciampa e vi sporca la camicia con una bella chiazza color vinaccia”. E conclude che questa è la scrittura “opaca”.
Ma, a ben riflettere, cosa rimprovera veramente Cirillo a Bufalino? Di non usare un vocabolario di sole 300 parole, immagino, o forse di non mantenersi nel binario costante del soggetto-predicato-complemento; o forse di non possedere la prosa ridotta all’osso dei grandi autori di bestsellers internazionali (e dei relativi traduttori). O forse di non fare alcuno sforzo per essere capito senza alcuna fatica dal lettore. Ma un romanzo è cosa ben diversa da un manuale d’istruzioni per montare il frullatore (per quanto, anche certi manuali sanno essere ostici, eccome): non è prescritto da nessuna parte che debba per forza essere capito senza fatica. Un romanzo è qualcosa che nasce nella mente del suo autore, e cresce e piano piano si trasferisce sulla pagina. Segue le idiosincrasie e le aspirazioni dello scrittore, si conforma ai momenti belli e brutti della sua vita, si blocca con lui, riparte con lui. Non sta a paragonarsi con camerieri pasticcioni. Un romanzo non è necessariamente un’operazione di marketing; non deve essere per forza irreggimentato dentro canoni predefiniti di leggibilità, di snellezza, di facilità. Non deve portare per forza l’indicazione: tempo di lettura tot minuti. Un romanzo non deve essere obbligatoriamente una operazione di PR. Non è detto che ogni romanzo sia adatto a ogni lettore.
Vale anche il contrario.
E va da sé che sentir paragonare uno scrittore a un cameriere provoca brividi d’orrore. L’unica persona che, in un ristorante, può essere paragonata a uno scrittore è lo chef.