Ricevo questo racconto da Enzo Barnabà. L’autore è Andrea D’Agostino, ennese nato per puro caso a Trieste e autore, qualche anno fa, del bel romanzo “Mi mangiassero i grilli” (ed. Fernandel). Colore cane che corre è apparso sul numero 02 del taccuino letterario Portosepolto,ma.mi.
Colore cane che corre
di Andrea D’Agostino
C’era la nebbia sfilacciata e sottile. Le pecore dormivano in cerchio, fitte, senza fiatare. I cani sparpagliati per terra, sbadigliava qualcuno. Erano scattati di colpo, si erano messi a latrare. Era arrivato il cavallo, sul cavallo il campiere. La nebbia gli mulinava dietro le spalle.
«Vincenzo», mi aveva chiamato, «il barone con te vuole parlare.»
Tre spiragli sul pastrano, all’altezza del petto. Raccontava: quella notte, gli spari, pallottole di carabiniere. Io sospettavo le tarme.
«Che vuole il barone?»
«Ti vuole parlare.»
Il cavallo ballava, i cani gli stavano addosso, sbuffava dal naso. Il cerchio delle pecore si era sgonfiato. Gli agnelli smusavano pance, si nascondevano in mezzo alle zampe.
«Sbrigati, il barone ha fretta.»
«Le pecore a chi le lascio?»
«Lasciale ai cani.»
«Sono strafottenti ‘sti cani. Perché avete venduto quelli miei?»
«Sbrigati che ha fretta.»
Aveva incitato il cavallo che pareva dovesse guastargli le costole. Maledicendolo lo avevo visto partire, sbiadire dove la nebbia diventava più densa. Pensavo mi avrebbe dato un passaggio. Invece, a piedi, per arrivare alla masseria era trascorsa un’ora abbondante. Il sole si era impennato, la nebbia dissolta. Le pecore facevano come le pazze; sentivo i cani abbaiare, inseguirle, mordere code. Colpa del barone se si lasciavano cadere nel fosso e restavano zoppe. Così, appena avevo aperto la porta, avevo detto al barone:
«Se le pecore cadono, restano zoppe.»
Mi aveva zittito con l’indice a incrociare la bocca sottile, i baffi lisci e neri. Era da solo. Il telefono era come Totò me l’aveva spiegato: una cosa torta color melanzana. Se ne premeva una parte all’orecchio, ascoltava. Il barone annuiva, a qualcuno stava dando ragione. Poi sembrò ricordarsi di me:
«Mi scusi.»
«Prego, barone, faccia con comodo», risposi di corsa io. Il barone tappò con la mano un’estremità del telefono e a me ordinò:
«Esci.»
Pareva strano mi avesse dato del lei.
Mi accucciai su un sasso, al sole. Di nuovo sentii i cani abbaiare. Un agnello belava. Sembrava la voce di quello cieco, fra tutti era il più gracile. Gli altri consumavano i bocconi migliori. Lui a tentoni incontrava qualche foglia avanzata, rodeva la cima delle radici che affioravano dal terreno. Mi toccava acchiapparlo. Per quanto facessi silenzio, fiutava la mia presenza. Allora scappava senza criterio, scavalcava gli ostacoli, inciampava, rotolava con le zampe per aria. Le pecore si innervosivano, ma i miei cani sapevano quello che stavo facendo, con poche manovre e un paio di abbai compattavano il gregge e mi lasciavano fare. Quando lo abbracciavo, l’agnello cieco scalciava, batteva i denti, cercava di mordermi. Il cuore gli rimbalzava nel petto. Gli avvicinavo alla bocca i ciuffi di cicoria tenera che avevo messo da parte. Annusava, si placava. Poi si metteva avidamente a mangiare.
Un altro belato: era quello cieco, non avevo più dubbi. Si era perso, allontanato dal gregge. I cani gli stavano dando il tormento. In due o tre lo stavano burlando, lo facevano correre a casaccio, lo stremavano di paura.
Spalancai la porta:
«Perché ha venduto i miei cani?»
Il barone non parve contento. Mi fissava senza rispondere.
«Quelli nuovi sono sciroccati.»
Restai in silenzio per permettergli di sentire quello che io avevo sentito: il terrore dell’agnello cieco, la confusione nel gregge sparso, la perfidia dei cani. Avevo voglia di correre indietro, bastonargli la testa uno alla volta, spezzargli i denti da cui colava la bava.
Il barone niente sentiva. Al telefono disse che richiamava all’istante. E a me:
«Ho venduto pure le pecore. Da domani c’è un posto in solfara.»
Non risposi, lui continuò:
«Porta le pecore qua, più tardi le vengono a prendere.»
Rimise la mano sul telefono e dichiarò morto il nostro colloquio. Allora aveva ragione Totò che era stato due giorni al paese ed era tornato dicendo che ci serviva un impero: dovevamo bombardare i libici e gli albanesi, gassare gli etiopi. Mussoletto aveva detto così. Lo zolfo non serve solo a produrre i fiammiferi che danno fuoco alle micce. Lo zolfo farcisce le bombe come la ricotta i cannoli. Lo zolfo di Sicilia farà grandi le sorti d’Italia. Minchiate. Minchiate lo zolfo, minchiate l’impero. Chi sono ‘sti somali, chi sono gli etiopi? Manco uno solo ne ho mai conosciuto. L’unico che vorrei bombardare è il campiere. Se le vada a prendere il barone le pecore, io in solfara non ci vado manco sparato. Conosco quelli che vanno là sotto. Imputridiscono come il legno in cantina. Non voglio crepare come mio padre e mio zio. Coi polmoni corrosi, sepolto da un crollo. Preferisco morire alla luce del sole.
Mi basterebbe un metro quadro di terra, possibilmente non di quella scoscesa e pietrosa. Con i miei cani e le pecore ci staremmo un po’ stretti ma ne farei un giardino. Pianterei fave, pomodori, l’origano; farei il formaggio. L’agnello cieco crescerebbe pasciuto. Con un metro quadro di terra andrei da Rita per dirle: ho seminato il basilico, ho una casa piccola, una pianta di rose, ho i polmoni affidabili e un cuore per bene; le chiederei: mi sposi?
Invece rispose il barone:
«Ho fretta», e si allisciò i baffi, «in solfara ci vai?»
«Con rispetto parlando, manco sparato.»
«Allora te ne puoi andare.»
«Mi dia la mesata e me ne vado.»
«Porta le pecore qua, poi parliamo di soldi.»
Stavo attraversando la porta, quando aggiunse:
«Se ne manca qualcuna, ti toccherà pagarla. Se non hai i soldi, andrai in solfara.»
Come?
«È pericoloso lasciare le pecore sole, se i cani sono sciroccati. Non senti che fanno come le pazze?»
In lontananza, quei bastardi continuavano a latrare e le pecore a belare senza criterio.
«È stato il campiere a dirmi…»
Lasciai la frase a mezzo e la porta spalancata, mi misi a correre verso quello che non era più il mio gregge. A metà salita mi fermai a rifiatare, raccolsi un bastone lungo, liscio, robusto. Fatto apposta per strapazzare crani. Di nuovo le pecore supplicavano aiuto ma non riconobbi la voce del cieco.
Chi entra in solfara si consuma. Come faccio ad andare da Rita col respiro bacato? Non voglio la tosse lacerante di mio padre; non dormiva né lasciava dormire. Ogni respiro era un castigo. Fu un sollievo morire, prima di tutto per lui. Non ci vado in solfara. Comprerò un metro quadro di terra, pianterò qualche albero bello: un noce, un ciliegio, un mandorlo in fiore. Costruirò un forno per cuocere il pane. Rita farà pure le torte.
Inciampai su un sasso maligno, caddi in avanti, lungo in mezzo alle frasche. Una scheggia mi incise la mano sinistra, il bastone giaceva a tre passi da me. Tamponai la ferita col fazzoletto, i cani continuavano la loro festa privata. Possibile che nessuno mi venisse ad aiutare, che al barone non importasse se gli ammazzavano un paio di pecore?
Se quei bastardi mi hanno ammazzato una pecora, con quali soldi comprerò la terra? Basterà una mesata per un metro di terra? Come costruirò la casa, dove troverò il cemento? Dove andrò a lavorare? Se non vado in solfara parleranno male di me. In questo paese schifoso funziona così: nessuno vorrà più assumermi, per non fare uno sgarbo al barone. Come comprerò il pane per Rita, come comprerò la terra? In solfara non ci vado manco sparato, piuttosto in Brasile. Totò dice che lì c’è lavoro, c’è terra per tutti. Non ci sono baroni, campieri, imperi da conquistare a colpi di zolfo. Rita non dirà di no, ce ne andiamo in Brasile. Partiamo domani, pure l’agnello cieco mi porto.
Arrivai in cima al colle. Sotto di me si stendeva il pascolo movimentato. Il gregge era sparso e sperduto. I cani, ciascuno da solo, svogliatamente inseguivano e davano morsi; a uno spuntava lana fra i denti. Un altro tormentava il montone facendolo trottare in circolo. A vista, non c’erano agnelli. Fischiai, forte che pure il barone potesse sentire, nonostante il telefono. I cani non mi badarono, le pecore si lagnarono ancora più alto. Li chiamai a raccolta, un nome alla volta, ululai. Come se non esistessi, i loro sguardi erano perfidi e persi. Scivolai fra la confusione, chiamando e fischiando. Col bastone sferrai un colpo al primo che mi passò a lato. Lo accarezzai sul culo, sbandò senza perdere la direzione. Mi gettò un’occhiata distratta, volgendo la testa sopra il garrese. Accelerò quando tentai di acchiapparlo, non riuscii a raggiungerlo. Senza fiato mi piegai sulle gambe, sudavo. Il cuore mi pulsava dentro le tempie. Mi girò la testa, si appannarono gli occhi mentre i suoni si amplificavano, acquistando spessore. Persi di vista i contorni delle cose, macchie armoniche mi puntavano e scansavano all’ultimo. Quelle chiare erano paffute e affannate. Poi ce n’erano poche di colore indeciso, agili e aggressive. Era la tonalità imprendibile di un mantello meticcio visto di sbieco. Quella di un lupo che corre dietro un sentore di preda. Lentamente la pressione si stabilizzò, i suoni persero gonfiore, le cose riacquistarono evidenza. Il gregge era sbandato, impossibile compattarlo senza placare prima i cani. Gli agnelli non si vedevano ancora, ormai mi preoccupavo. Nel fosso non c’era niente di strano. Non riuscivo a stabilire se le pecore c’erano tutte, continuavo a perdere il conto. Ordinai più volte ai cani di fermarsi. Minacciavo brandendo il bastone e loro rispondevano scoprendo i canini. Poi vidi del sangue, a gocce una traccia scivolava oltre un masso. La seguii. C’era uno squarcio sul collo della pecora abbandonata per terra. Più avanti un agnello, poi un secondo, più in basso giaceva quello cieco. Le mosche già banchettavano.
In solfara non ci vado manco sparato. Devo sposarmi con Rita, devo seminare in Brasile il basilico.
«Vincenzo, che minchia hai combinato?»
Era arrivato il campiere. Teneva il fucile a tracolla. Alle sue spalle, il sole splendeva alto, pulito. Tenevo in mano ancora il bastone.
“colore cane che corre” è un’espressione alla quale sono affezionato perchè da ragazzo la sentivo dire e la dicevo io stesso per definire un colore imprecisato, misconosciuto o più frequentemente quando si voleva definire un colore bislacco proprio di un capo di abbigliamento poco serio appartenente ad altre culture. Lo erano le macchine con le quali arrivavono gli emigrati, in estate. In quei paesi nord-europei, per una ragione di sicurezza, i colori delle auto erano sgargianti e più lontani possibili dai colori naturali ai quali l’occhio umano fa poco caso. Noi italici e siculi, abituati alla sobrietà del bianco, del beige, del nero, definivamo i colori delle macchine dei Belgi, Svizzeri etc, colore-cane-che-corre. Ricordo che ad amici di Castelbuono comunicai quell’espressione, non la conoscevano ma afferrarono lo stesso il senso e mi dissero la loro, usata nel loro paese: “ciuppino variopinto”. Bè, niente a che vedere con la nostra…
Complimenti all’autore per avercelo ricordato nonostante la contestualizzazione è liberamente altra. Il racconto è ancora un frammento di quel filone che promuove la memoria che quando si mette in moto, si sa da dove si parte ma dove si arriva, chissà.
Sceccup
Aggiungo un paio di varianti: fra Piemonte e Lombardia si dice “colore can che scappa”. In Portogallo, invece, “cor de burro quando foge”, ossia il colore dell’asino quando fugge.