di Giorgio Ruta
Dopo “La traversata”, un altro racconto di Giorgio Ruta. Una favola deliziosa e poetica.
Rocco aveva diciassette anni, si era fatto robusto ormai. Lavorava come garzone appresso alle pecore da quando ne aveva quattro, insomma, da quando aveva iniziato a correre-gridare-fischiare con disinvoltura, al momento in cui era stato lanciato nel mondo degli adulti, non era passato molto tempo.
Faceva parte di una famiglia numerosissima e poverissima: era il dodicesimo figlio, il penultimo, almeno fino a prima che ne compisse cinque. Perché il 31 dicembre, all’insaputa dei più, sua madre, la Gnà Cava sgravò per l’ultima volta. Del resto suo marito, u Gnù Liborio, maniscalco apprezzatissimo, non poteva pretendere di più da una donna di 47 anni, secca come una pala di ficodindia. Nacque una femmina e a scanso di equivoci la chiamarono Abbasta.
Rocco ancor prima di diventare il terzultimo figlio rappresentava già a sufficienza il vagone terminale di una carovana troppo lunga perché ci si accorgesse se era ancora attaccato o se si era già sganciato. Fu così che Gnù Liborio disse a Gnà Cava quella sera:
– Domani Rocco va a guardare le pecore di Boruzzo.
Le poco decise proteste della donna fecero dire all’uomo così per chiudere il discorso:
– E’già forte, salta come un grillo, fischia come un merlo, mangia come un vitello ma ha la testa di un asinello… non può che fare u picuraru.
Rocco così crebbe in mezzo al belare assoluto e inalterabile: divenne veramente forte, il più forte di tutti, forza di bue, ma la testa, ahimè, la testa biondo normanno era vuota, asciutta come quella di un asino. Così dicevano di lui.
A quell’età ormai ne aveva passati di pecorari. Al pascolo era abile, sonnecchiante ma al tempo stesso vigile e nevrile: correva e fischiava come pochi e i vecchi pastori dicevano di lui:
– Bravu carusu ccu li picuri.
Ma c’era sempre qualcuno che a quel punto aggiungeva:
– Si nun fossi ppi la testa.
La testa di Rocco era da sempre e all’unanimità giudicata svantaggiata, inopportuna. Ma non era veramente così, credetemi. È vero, egli aveva una testa diversa da quella che hanno tutti gli altri uomini. Ma non era vuota. Era semplicemente diversa ma meglio di quella che portano la stragrande maggioranza degli altri uomini, ve lo posso garantire. Era calibrata per le basse velocità: per sentire, gustare, affrontare il presente in quanto questo era l’unico tempo della sua vita; non si interessava molto o per niente che ci sarebbe stato un dopo e non dava nessuna o poca importanza che c’era stato un prima. Lui era permanentemente presente nel presente: gioiva, soffriva, godeva, faticava unicamente per ciò che gli accadeva nel momento in cui si verificava.
Il resto degli altri uomini, con la testa sicuramente diversa dalla sua, abbarbicati come zecche al nutrimento del passato, assatanati e ossessionati del futuro, non potevano che restare spiazzati in presenza di quel ragazzo puro e incantato. Anche l’ultimo scemo del villaggio si sentiva più “sperto” di lui, più normale di lui. Anche l’ultimo esemplare significativo degli uomini, sebbene senza alcun significato reale per via della testa veramente vuota o troppo piena di minchiate, si sentiva “normale” al suo confronto. Bastava credere di possedere la testa tipica degli uomini: veloce anche se “mmatula” anche se contorta, per esigere da lui ubbidienza cieca e incondizionata. Bastava per chiunque arrogarsi il diritto di maltrattarlo, bastonarlo, punirlo.
Per fortuna non era sempre così; spesso, per gli altri uomini, anziani e giovani, pecorari e “galantumini”, Rocco rappresentava uno spasso, un divertimento che li teneva di buon umore. Gli altri uomini, non lo sapevano, ma la presenza di quel ragazzo era per loro terapeutica.
Ve lo voglio dire: Rocco era un po’ come siamo noi.
Non credete, pudditriddi mia?
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Va bene, continuiamo.
A diciassette anni Rocco guardava picuri presso ‘u Curatulo Vicì che ne aveva trecento. Certe volte il suo lavoro appariva veramente pesante ed interminabile ma solo ad un occhio inesperto perché quello per lui era l’essenza del suo essere vivo e sano. Respirava a pieni polmoni correndo all’aria aperta calda e secca, o fredda e umida. Parava gli “armali” magnificamente, in sintonia perfetta con i suoi quindici cani, parlava e discuteva con tutte trecento. Le pecore e le conosceva una ad una. Egli diceva certe volte: – Mih, triccintu picuri pasciva e triccintu ni canusciva – e gli altri uomini, anziani e “picciuttedda”, “spirti” e “asini” a ridere come veri scimuniti. Rocco era sano e forte, bello e bellamente vuota era la sua testa biondo-normanno. Era amico di tutti gli “armali” ma un particolare feeling lo avvicinava a noi. Seppure non fosse un asino come noi, era da tutti considerato un asino. E faceva parte legittimamente della nostra comunità. Ve lo posso dire: lo adottammo! O almeno così fecero i nostri antenati. A quel tempo era appena terminata l’Era del grande Pacifico. Per gli uomini era il 1953.
Che tempi per la nostra stirpe! Fu allora che venimmo riconosciuti e ci dichiararono appartenenti alla razza “Ragusana”.
In quello stesso periodo, Rocco viveva la sua esistenza lenta e piena, tangibile e priva di ansie. Era un uomo che interagiva poco con la specie che lo aveva generato. Egli aveva un carattere diverso, era nato diverso, poi, crescendo con noi, si era culturalmente formato asino.
I miei trisavoli a lui contemporanei, hanno trasmesso fino ai nostri giorni questa testimonianza ed io sto facendo lo stesso con voi, “sciccareddi” mia.
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Quella grande scecca di mia nonna, Eva, rimasta prena innumerevoli volte grazie all’opera di Pacifico ma anche di Gagliardo e Folgore, mi raccontava spesso di quel ragazzo dal crine color isabella e fra tutte le cose che mi ha ragliato durante la mia infanzia ce n’è una che ha fatto la storia, anzi, la leggenda.
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E va bene, mia nonna ci raccontava che Rocco, dopo aver sistemato le pecore, era solito andare ad abbeverarci alla sera, soprattutto nella stagione bella. Non che non ci facesse bere durante tutta la giornata, nooo!, ma lo faceva una volta in più, per piacere, per passeggiare prima di andare a nanna. Era un divertimento per tutti, una carezza, una buonanotte.
Tutti noi piccoli e grandi andavamo dondolanti verso l’abbeveratoio della”testa dell’acqua”, dove l’acqua era sempre limpida, fresca e chiara. Non come oggi.
Il silenzio accompagnava sempre quei quattro passi notturni, nell’aria si sentivano soltanto le andature calme dei nostri zoccoli e lo strofinio dei nostri mantelli l’un con l’altro, poi il sospirato succhiare l’acqua delle nostre labbra e il suo sguardo verso tutti noi era presente e felice.
Quella sera di fine giugno andavamo verso l’abbeveratoio, accompagnati dall’odore del frumento già maturo ed illuminati da una bella lattiginosa luce che proveniva dal cielo. Ma non proprio dal cielo. Da fuori. Entrava da un buco rotondo in mezzo a tutto quel cielo buio. Quel buco rotondo diventava così perfettamente rotondo ogni 28 giorni; prima, durante i giorni precedenti, si andava progressivamente aprendo e dopo si andava progressivamente chiudendo fino a chiudersi del tutto. In quelle serate scure Rocco non ci portava all’abbeveratoio.
Noi fino ad allora non ne sapevamo nulla. Quasi ogni mese accadeva che da quel buco entrasse quella luce bellissima che illuminava noi e tutto intorno. A volte neppure sembrava una luce che entrava da un buco aperto nel cielo ma ci sembrava un grande occhio che ci guardava da un buco lassù nel cielo. Noi tutti eravamo ammirati da questo fenomeno anche Rocco lo era.
Però quella sera il nostro amico ci fece notare qualcosa di diverso che non avevamo mai visto prima: ci disse di guardare bene l’acqua mentre bevevamo e noi guardammo e riguardammo ma non vedevamo nulla. Allora lui ci disse di allontanarci e guardare da più lontano. Era vero! I nostri occhi grandi e la nostra vista grossa ci impediva di vedere mentre succhiavamo l’acqua, ma in quella posizione più distante, anche la nostra vista afferrava qualcosa di incredibile: quella pupilla era sul pelo dell’acqua. Allora, tutti noi asini, ci girammo di scatto con le narici all’insù.
Ed era ancora lassù.
Ci rigirammo di scatto di nuovo verso l’acqua ed era pure sull’acqua.
Ma come?
Rocco ci accarezzò tutti e ci rassicurò dicendoci di non avere paura perché quella era la Luna, o almeno così la chiamavano gli uomini, ma in realtà quel cerchio lucente, ci spiegava Rocco, era una rondella fatata che qualcuno fuori dal cielo ci lanciava sull’acqua perché tutti noi, asini e para-asini, potessimo berla.
– Perché dobbiamo berla? -, chiedevamo noi.
– Perché fa bene a tutti ma soprattutto a chi è gravida o sta allattando un puledro . Bersi la luna – ci spiegava Rocco, – è un privilegio concesso a pochi e ci viene mandato da oltre il cielo. Questa luce lattiginosa è la nostra madre che ci nutre di pensieri quieti che vengono trasfusi anche nel corpo e nella mente di chi allatta. Noi siamo tutti figli della luna. Anch’io come voi lo sono nonostante il mio corpo mostruoso sia privo delle vostre belle orecchie, dei vostri begli occhi, delle vostre belle code e delle vostre larghe groppe. Lo sapete, io sono asino dentro ma la natura è stata inclemente col mio corpo.
Rocco ci parlò per la prima volta della luna, la nostra grande madre e da allora noi tutti sappiamo veramente di che cosa si tratta.
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Questo mi ragliava quella grande scecca di mia nonna Eva. Adesso io faccio lo stesso con voi e vi sto dicendo che quella che gli uomini chiamano Luna è la nostra madre, il nostro spirito che bisogna bere tutte le volte che nel cielo il buco si apre completamente. Bisogna farlo tutte le volte ad ogni 28 giorni, e questa è la serata giusta per farlo. Avanti, “pudditriddi mia”, andate all’abbeveratoio e bevete tutta la luna che potete!
Bevete bevete che bene crescerete, bevete bevete che tanto latte avrete!
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Dov’è Rocco, nostro fratello? Eh, questo ve lo dirò dopo. Intanto dovete sapere che da allora molto è cambiato. Quegli anni per noi furono fulgidi ed anche per gli uomini le cose non andavano male ma la loro natura è davvero tralignata. Essi sono in posizione eretta e ciò li spinge a pensare che possono far tutto ma poi finiscono solo per affannarsi, tormentarsi, ammazzarsi tra loro. Alla ricerca di non so bene cosa e, credetemi, neppure mi interessa saperlo. So soltanto, come vi ho già detto, che l’ossessione per il tempo che passa o per quello che deve ancora venire muove tutte le loro azioni.
Non vedete i visi tirati che hanno? Ebbene quelli sono i pensieri che gli ingombrano le teste e li uccidono poco a poco. Il loro cervello è un misterioso agglomerato di metastasi che li divora, ma essi ne vanno fieri, chiamano questo cancro “intelligenza”. Ne parlano sempre e tantissimo senza sapere veramente di cosa si tratta ma gli basta per sentirsi diversi da noi.
Eh sì, gli uomini hanno veramente tanti difetti. Ma se proprio devo trovarne uno che li può qualificare universalmente è quello del tempo.
Per capire ciò che voglio dirvi basta che ci soffermiamo su quel fenomeno che hanno innescato ancora prima dell’Era di Pacifico e che ancora oggi prosegue inarrestabile. Il Progresso.
Con questa parola gli uomini intendono solo una cosa: faticare meno, sempre meno, e guadagnare tempo. Ma per farne cosa? Per non fare nulla e godersi la frescura o magari, anche loro, la Luna, direte voi. No, neanche per sogno. In realtà per fare altro e ancora di più. Vi racconto questo, pudditriddi mia, non perché mi stia particolarmente a cuore il destino degli uomini e la spirale rovinosa dove si sono andati ad impelagare, ma perché la loro stoltezza coinvolge direttamente anche noi, ed è così che di fatto è successo e succede sempre.
Pensate che nel 1953 la nostra popolazione solo in Sicilia era di 31.900 individui. Gli uomini erano nemmeno 5 milioni, quindi uno di noi ogni 156 uomini complessivi, attivi e inattivi. Poi c’erano i nostri parenti stretti: muli, bardotti e cavalli, anche loro in discreto numero. Insomma, la popolazione quadrupede equina era fiorente, attiva e felice. Anche gli uomini lo erano ma non lo sapevano.
Noi facevamo di tutto: li portavamo in groppa, tiravamo la “triorba”, l’arato, pistavamo tutte le granaglie mietute e facevamo da sgabello quando l’uomo da terra con le sue braccette non arrivava a raccogliersi la pera matura e polposa, lassù, sull’albero del vicino, quando questi non c’era.
L’uomo che ci apparteneva manteneva un rapporto molto stretto con noi, ci rispettava, ci curava, ci difendeva e ci voleva bene, talvolta morbosamente. Pensate che mia nonna Eva mi raccontava di un tizio, Massaro Birritta che viveva da solo, non aveva moglie, figli, nessuno, ma soltanto uno di noi, amico e conoscente di mia nonna. Ebbene, un giorno mentre quell’ uomo potava la vite lanciando i tralci tagliati al suo scecco che li masticava con gusto, dalla trazzera sotto la sua “nchiusa”,un caruso chiamandolo, gli gridava che doveva lasciare tutto e recarsi a Mazzarino perché era morta la Gnà Maruzza, l’unica sorella di Massaro Birritta.
– Mia sorella? – esclamò il massaro. – Ah, veru è – disse a bassa voce. E poi aggiunse rialzando il tono per farsi sentire dal caruso: – E chi voli di mia, chi ci puzzu fari? Ormai morta è, mentri u sceccu ancora vivu è! – e lasciando cadere la forbice a terra andò ad abbracciare piangendo Corsaro, il suo scecco.
È così, gli uomini sono davvero bizzarri, impulsivi, spesso violenti, enormemente ignoranti, ma hanno quasi tutti un grande cuore.
Quando essi agiscono col cuore, niente da dire, fanno le migliori cose che comunque vadano finiscono sempre per conciliarsi col mondo intero e con noi stessi. Il problema si pone invece quando mettono in moto quel groviglio inestricabile che hanno nella testa, quando pensano e soprattutto quando si propongono di migliorare la loro “condizione umana” individuando nel controllo del tempo la soluzione di tutto. Fanno disastri, si impappinano, perdono l’orientamento e se si guardano in uno dei loro specchi, non si riconoscono anche se hanno la presunzione di affermare con sicurezza che sono sempre gli stessi o che, peggio, adesso con il progresso le cose vanno veramente meglio.
Questo è accaduto piano piano. Sono arrivati i motori ed il rombo ormai accompagna tutti i lavori che prima facevamo noi e loro, mescolando i nostri sudori che almeno finendo sul terreno alimentavano sempre un ciclo naturale, oggi invece il ciclo si è interrotto perché si è spezzato un apporto vitale alla vita. Quando c’eravamo noi sui campi, essi riuscivano a seminare cinque tummini in quattro-cinque ore, poi alla sera ci “avvardunavano” e li portavamo alle case e sopra di noi gli uomini cantavano e fischiavano. Oggi col rombo ci mettono meno di mezz’ora e scappano trafelati, scomparendo tra il fumo e il baccano di ferraglia. Non cantano e non fischiano ma tengono le labbra strette e gli occhi sono spenti. Non si sa dove vadano così di fretta, se qualcuno prova a chiederlo, dicono che non hanno tempo per rispondere. Però, è vero, adesso fanno tutto più velocemente. Ma hanno sempre meno tempo. Come mai?
Da quel momento comunque siamo diventati inutili e la nostra popolazione è cominciata a diminuire vertiginosamente, fino a contarci nel 1990 in un paio di dozzine su tutto il territorio siciliano. Mia nonna Eva, che ha assistito a quel tracollo epocale, mi ha riferito scene di deportazione da fare accapponare la pelle. Le mura dei macelli ancora oggi trasudano del nostro sangue. Il Curatolo Vicì, uomo saggio, di cuore e all’antica, si tenne stretti gli asini suoi e per questo quella grande scecca di mia nonna, grazie alla quale oggi esistiamo io e voi, si salvò. Dobbiamo dire grazie ad uomini come il Curatolo Vicì e a qualcun altro se oggi possiamo ragliare felici.
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Certo che i tempi sono cambiati ormai, cari pudditriddi mia. Non rischiamo più l’estinzione, almeno noi Ragusanii perché i nostri stretti parenti dai quali discendiamo, i nobili e antichi Panteschi, non stanno attraversando un bel periodo.
Sapete la storia tristissima di Arlecchino?
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Beh, nel 1985 Arlecchino, ultimo esemplare della razza sistemata nell’isola di Pantelleria, fece lì ritorno dopo avere trascorso qualche giorno d’amore con un’asina forestiera residente nell’Isola Grande. Mentre lo imbarcavano sulla nave, lo fecero cadere nell’acqua salata del mare e morì. Prova che la grulleria umana non si smentisce mai.
Complessivamente bisogna però dire che le cose non vanno male e il merito va dato, ripeto, a certi umani che si sono distinti per la loro formazione asinesca e l’indole particolarmente testarda, mulesca direi. Ma se tutto il nostro popolo sta ormai uscendo dalla fascia rossa del pericolo di estinzione è anche per via di una bizzarria del destino.
Ma “il destino” è un pensiero con il quale gli umani spesso giocano, si sollazzano e si autocommiserano. Per noi invece tale pensiero è totalmente alieno e voi, asini ed asinelle giovani, non potete sapere la grande importanza che questa parola ha per gli umani e la profonda influenza sulla loro psiche. Intanto per capirci, va detto che quello che loro chiamano “destino” spesso sono loro stessi a costruirselo, ma siccome, povere creature, quasi mai sanno quello che fanno, succede che quando si presenta al loro cospetto il risultato tangibile delle loro azioni e scelte precedenti, non lo riconoscono come tale e non lo mettono in una relazione causa-effetto. È così parlano a vanvera: “il destino di qua, il destino di là…”
È successo quindi che gli umani con il “progresso” hanno sventrato la terra, sostituito con il petrolio la nostra cacca per nutrire il terreno, coltivato e portato a maturazione a Natale ciò che da sempre si poteva raccogliere solo ad aprile; hanno pure infilato le galline nelle scatole delle scarpe…
Ma non è tutto: hanno costretto noi erbivori ci mangiare la carne. Puah! Pensate che sono arrivati addirittura ad infilare il sangue di alcuni pesci dentro la linfa del “frummentone” e tante altre diavolerie ancora che non vi dico e che se ve le raccontassi potrebbero nauseare persino noi. Le conseguenze a questi comportanti malsani degli umani, purtroppo, sono state veramente rovinose. Una fra queste e nemmeno la più triste, è che un numero sempre maggiore delle loro donne, oggi, quando partoriscono, si scoprono con le mammelle asciutte, secche, senza una goccia di latte.
Che tristezza!
E i loro “puledrini”, non mangiano?, penserete voi. Certo che il rischio è proprio quello, considerando che in concomitanza, per un numero sempre crescente dei nascituri umani, qualsiasi tipo di latte risulta un vero e proprio veleno che li intossica e non li fa crescere. Ma ecco la cosa bella che addolcisce la tragedia. Qualcuno va indietro nella memoria e (ri)scopre che noi femmine asine abbiamo un latte praticamente analogo, se non addirittura migliore, a quello che un tempo producevano tutte le donne.
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E così anche questa volta siamo qui a togliere le castagne dal fuoco per conto degli umani.
Vedete, cari pudditriddi miei, io credo che questa sia la vera prova che fra noi e loro esiste una somiglianza che va oltre le apparenze. I loro scienziati hanno la testa dura perché si rifiutano ancora oggi di ammettere che la loro specie si è originata da uno scecco ed una scecca primordiali. Poi, nel corso del processo evolutivo, se ne sono andati un po’ per i fatti loro, smarrendosi in una miriade di assurdità. È andata veramente così, ve lo posso assicurare.
La prova inconfutabile c’è: Rocco.
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Certo certo,adesso vi posso dire come sono andate le cose al nostro ragazzo con la criniera biondo-isabella.
Mia nonna Evaagliando ci ha narrato che nel 1985, quando accadde la disgrazia di Arlecchino, Rocco che aveva compiuto ormai 49 anni, subì, come tutti noi, un duro colpo e per la prima volta scorgemmo nei suoi occhi celesti una profonda tristezza; una lacrima rettilinea gli attraversava tutto il viso solidificandosi in quella forma e posizione per diversi giorni. Poi, all’improvviso ci venne a trovare salendo sulla montagna, proprio dove adesso noi stiamo pascolando. Era cambiato. Era tornato il Rocco di sempre e quella lacrima sul suo volto era sparita. Ci guardò sorridente e ragliando ci disse: – Questa notte è luna piena, parto! Vado al mare, vado a prendere Arlecchino.
Ci sorrise ancora, ci accarezzò e se ne andò. Noi non capimmo subito. Vedevamo ormai da lontano il nostro ragazzo che si allontanava e oltre la sua criniera biondo-isabella riuscivamo a scorgere una vispa coda morello lucente.
Soltanto più tardi abbiamo saputo da un vecchio scecco che staziona di fronte al mare di Pantelleria che quella notte di luna piena, vide, non uno, ma due asini uscire dal mare e volare verso quel buco colore latte in mezzo al cielo buio.