di Marco Scalabrino
Nat Scammacca, poeta, narratore, fondatore nel 1968 dell’ANTIGRUPPO, in uno dei suoi testi che io ho avuto il privilegio di volgere in Siciliano (POEMS PUISII – 1999), ebbe a scrivere che la poesia “pigghia tantu di ddu spaziu nna lu chiù nicu di li cucchiarini chi ci vulissiru misati sani pi travirsàrilu di punta a punta”. E Stanley H. Barkan, poeta ed editore newyorchese, ha focalizzato: “Translation is really transmutation. The important thing is for the poem to be a poem in the target language”.
Nella sua responsabilità, sensibilità, conoscenza e coscienza – George Steiner asserisce che la traduzione, prima di essere esercizio formale, è “un’esperienza esistenziale” e insiste sulla necessità del traduttore letterario di rivivere “l’atto creativo” che ha prodotto la scrittura dell’“originale” – il traduttore assolve ad entrambe le attribuzioni, soddisfa entrambe le condizioni: attraversa ovverosia “il cucchiaino” e lo riconsegna mutato in una nuova espressione nella lingua di destinazione. Mutato, giacché, osserva Georges Mounin, il linguaggio non è un semplice oggetto che si può “trasferire” senza subire modifiche, variazioni, dilatazioni, alterazioni, limitazioni e mutamenti.
Non credo, allora, valga ulteriormente la pena attardarsi su logorato topos della fedeltà della traduzione. La soluzione al dilemma (da Voltaire in poi comunemente noto come l’opposizione tra traduzioni) “brutte e fedeli” e “belle ma infedeli” ritengo sia obbligata. E non tanto per codardia, per serafica salomonicità; quanto perché stimo che il traduttore debba praticare il proprio “ufficio”, nel rispetto della originalità dell’autore, al contempo convogliandone la lettera e catturandone lo spirito. “Il confronto e il dialogo con l’altra lingua – rileva Luca Guerneri – diventa spesso un braccio di ferro con la propria” e dunque la natura della fedeltà all’uno, la parola/materia, e all’altro aspetto, l’essenza/pensiero, è variabile; è da determinare circostanza per circostanza. Deve esserlo! In funzione del risultato ultimo: la Poesia. Risultato che non lasci trasparire il lungo studio e il grande amore che sono stati necessari; che induca anzi il lettore alla considerazione che le poesie sembrano essere state concepite in Italiano (o nel caso in apertura in Siciliano).
Tradurre poesia è impresa nella quale è bello, gratificante, perentorio riuscire. Ciò perché la traduzione (questo genere letterario a sé: “Tradurre poesia – attestò peraltro Eugenio Montale – è uno dei possibili modi di fare poesia originale”) è per forza di cose re-invenzione in certa misura del testo originale, è un passe-partout che ci introduce a un diverso trip letterario, è uno star-gate che ci spalanca l’altrui universo. Un universo composito, intriso di mito e radicato parimenti nella attualità, crudo e allucinante e altresì tenero e sognante, un universo che se per taluni caratteri rinveniamo sotto casa, per taluni altri ci svela spaccati, scene, luoghi esoterici e misteriosi: la Poesia di ogni latitudine, di ogni lingua, di ogni vocazione.
“La traduzione di poesia – scrive Salvatore Riolo – non è impossibile (come invece da talune parti professato) ma è un’operazione delicata e complessa, che implica assai spesso complicati problemi teorici e pratici non sempre di facile soluzione. Le difficoltà, anche le più gravi e le meno sormontabili, non devono, però, indurre il traduttore ad arrendersi di fronte a esse, ma devono costituire lo stimolo e il punto di partenza per la ricerca di nuove e più avanzate strategie traduttive. In alcuni casi in cui la traduzione risultasse impossibile, se eseguita alla maniera tradizionale si può ricorrere in alternativa ad essa alla trasposizione, al rifacimento, alla parafrasi, alla parodia, all’imitazione e all’adattamento”.
“Un concetto – assevera Attila József – è lo stesso sia per un filosofo cinese che per uno ungherese o inglese. Chiunque in realtà può esporlo con le proprie parole. Il concetto quindi, in quanto spiritualità, è dell’umanità intera. Ogni filosofia infatti è traducibile in ogni lingua, perché importante è che vi sia concordanza concettuale, non verbale e se in una lingua non vi fosse una parola specifica per un concetto, noi possiamo sempre parafrasarlo ed esprimerlo, ciò nonostante, perfettamente”.
Alba Olmi, nel suo saggio ESTUDOS DE TRADUÇAO NUMA PERSPECTIVA TEÓRICO-CRÍTICA E INTERDISCIPLINAR, delinea, tra l’altro, alcuni fattori insiti alla traduzione: 1) l’affinità fra il traduttore e l’autore dell’opera tradotta, 2) i vantaggi e gli svantaggi connaturati al passaggio da una lingua all’altra; elabora delle notazioni illuminanti: 3) è l’opera stessa da tradurre a suggerirci i percorsi, 4) i versi più belli del mondo diventano insignificanti o insensati una volta infrantane l’armonia o la musicalità; e, soprattutto, afferma: 5) l’iniziativa personale richiesta al traduttore, 6) che si tratta di una trasposizione di testi (non di parole o frasi) da una cultura all’altra.
“Il traduttore – illustra felicemente Paul Ricoeur – forza da due lati: forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella sua lingua materna. È una prova che si può superare solo se si accetta che in questo tragitto qualcosa si perda, qualcosa debba diventare oggetto di rinuncia. Si deve consentire a perdere la pretesa di autosufficienza della propria lingua materna, ma si deve anche saper rinunciare a una traduzione totalmente adeguata, a una reduplicazione dell’originale. Perché non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma le sintassi non sono equivalenti, l’andamento delle frasi non veicola le stesse eredità culturali. Ad onta del carattere conflittuale, il traduttore potrà trovare la sua gioia in quella che vorrei chiamare l’ospitalità linguistica, nella quale il piacere di abitare la lingua dell’altro è compensato dal piacere di ricevere presso di sé, nella propria casa di accoglienza, la parola dello straniero”.
Oggi si tende – così come suggerito da Franco Fortini – all’assunzione del dato da tradurre quale “struttura di riferimento o significante per un’opera nuova”, questa “derivata – osserva ancora Georges Mounin – da un’altra opera, cui meglio del termine “opera originale” si addice piuttosto il termine di “opera prima”, poiché anche la traduzione è opera originale”; si è propensi a valutare la traduzione una sorta di Überleben del testo, di altra vita in un altro mondo, e a riconoscere ad entrambi i testi dignità artistica e carattere sia di opera intellettuale che di opera di creazione.
“Nel determinare il valore delle traduzioni – ribadisce Salvatore Riolo – si dovrebbe giudicare la traduzione in sé e per sé e non già, come si finisce inevitabilmente per fare, in rapporto al testo di partenza”.
Io direi giudicare una traduzione anche in rapporto al testo di partenza. In questo campo modestia a parte ho raggiunto risultati lusinghieri dalle lingue ceca, russa e polacca. In questo momento sto traducendo Pasternak in un modo diverso da come lo tradusse Ripellino. A chi posso inviare le mie versioni per un giudizio? Paolo Statuti