La storia di Eufrosina Valdaura Siracusa, dama del XVI secolo protagonista di alcune vicende di sangue e d’amore, sembra fatta apposta per essere raccontata in un romanzo. Sciascia le dedica alcune pagine ne “Il mare colore del vino” e le intitola, appunto, Eufrosina. La dice “giovane e bella certamente, molto probabilmente sciocca e crudele, poca gioia ebbe e diede nella sua breve vita; e fu anzi, nel destino degli altri e nel proprio, un farfalla di morte“. Nello stesso breve saggio, richiama le parole di un altro letterato autorevole, Stendhal, che di Eufrosina scrisse, anche se solo per registrarne l’uccisione per mano dei due figli di Lelio Massimo, suo marito in seconde nozze.
Già nel saggio “Un amore di quattro secoli fa” (che chiude a mo’ di appendice il libro di cui parleremo tra poco) Licia Cardillo mostra di essersi lasciata affascinare dalla relazione tra Marco Antonio Colonna, maturo viceré ed eroe della cristianità a Lepanto, ed Eufrosina, maritata a Calcerano Corbera, figlio di don Antonio, barone del Miserendino. Personaggio importante, quest’ultimo, sia, all’epoca dei fatti raccontati, per rango, sia narrativamente, per le conseguenze che il suo arresto e la successiva morte, porteranno a Marco Antonio Colonna. Il quale, per poterlo trarre in arresto, dovette chiedere all’inquisitore Diego de Haedo di sospendere il nobile dal privilegio di familiare dell’Inquisizione. Il viceré dovette addurre pretesti svelatisi tali dopo l’incarceramento per debiti di Don Antonio, e ciò gli attirò l’ira dell’inquisitore. E proprio all’iniziativa dell’inquisitore si deve la caduta in disgrazia del viceré, che costretto a recarsi a Madrid per giustificare il proprio operato direttamente al sovrano, non vi giungerà mai, morendo a Medinaceli, scrive Sciascia, “con sospetto di veleno“.
Questi, a grandi linee, i fatti storici. Fatti che Licia Cardillo descrivere nel libro “Eufrosina”, edito da Dario Flaccovio di Palermo, passando dal saggio al racconto e sfruttando il cliché manzoniano del manoscritto ritrovato e la forma del romanzo epistolare.
“Gentile signora, in allegato troverà un manoscritto che risale alla fine del Cinquecento, in cattivo stato, purtroppo,” scrive l’anonimo che invia a Licia Cardillo il carteggio tra Eufrosina e Marco Antonio Colonna per “decifrarlo e ricostruirlo nelle parti mancanti“.
“Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò dato, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?“, scrive Manzoni nell’introduzione a “I promessi sposi”.
Il risultato è felice, e rimane il dubbio, alla fine della lettura, che non di cliché di tratti, bensì di vero carteggio e vero anonimo, giacché non sono rari i casi in cui la vita imita l’arte.
Come che sia, lo scambio epistolare tra la giovanissima Eufrosina e il viceré Marco Antonio Colonna e una bella dimostrazione di stile e concretezza narrativa. L’autrice lascia alle voci dei protagonisti il compito di descrivere ogni passo della loro relazione, a partire dall’incontro in casa del capitano della città, Don Vincenzo Bongiorno. “Non pensavo che alla mia età il sangue potesse fare scoppiare le vene,” scrive Marco Antonio nella sua prima, audace missiva, “e il cuore scippato dal petto farsi tamburo e gli occhi fonti di gioia“. Solo in alcuni casi si osserva l’inserimento di brani in terza persona, per una efficace descrizione della Palermo di fine ‘500: la corsa delle meretrici, la severità di Marco Antonio nei confronti di un reo di sodomia, la cattura di Geronimo Colloca, “il re di tutti i bravacci”, ad opera di Lanzarotto, suo amico. “Compare, abbi pacienzia,” dice Lanzarotto. “Io sono venuto per te, che così mi ha ordinato il signor Marco Antonio.” “Compare,” implora Colloca, “voi mi potete dare la vita. Dite che non mi avete trovato.” Ma l’inappellabile risposta di Lanzarotto è: “Compare, abbia pacienzia: non lo posso fare.”
Una narrazione essenzialmente in prima persona, comunque, “in soggettiva”, ben sorretta da una prosa mutuata da quella infiorata del XVI secolo, con innesti dialettali utili a definire un meticciato linguistico capace di richiamare quello etnico e d’usanze della Sicilia dominata dalla Spagna.
La manifestata attrazione, il calore e lo slancio delle prime lettere, lasciano presto spazio alle paure di Eufrosina e alla prepotenza del viceré. E’ il suocero di Eufrosina che comincia a nutrire i primi sospetti, e la ragazza comunica all’amante il timore che tutto venga alla luce. Vorrebbe che la relazione – sino ad allora solo epistolare, in verità – avesse termine, e chiede al viceré di scordarla. A lungo non risponde alle sue sollecitazioni amorose, e gli scrive solo per raccomandargli cautela, “per non esporre me e voi stesso alla pubblica vergogna.” Ancora una volta fa presente che teme di alimentare i sospetti del suocero Don Antonio Corbera. E’ questo il punto cruciale della narrazione, che da storia d’amore si tramuta in storia di prevaricazioni e sangue. Don Antonio, arrestato per debiti, muore misteriosamente in carcere. E Calcerano, il marito, inviato a Malta, vi viene accoltellato e ucciso. A raccontare le due morti le lettere degli amanti. Come in un ottimo thriller, l’elemento psicologico del delitto prevale su quello meramente meccanico. Quanto è veramente consapevole, Eufrosina, che la morte dei congiunti discende direttamente dalle involontarie (se vogliamo credere veramente all’ingenuità della ragazza) delazioni a Marco Antonio? E le giustificazioni che l’amante le rende sono solo ipocriti tentativi di mascherare un egoistico desiderio di possesso, o veramente i fatti accaduti sono il frutto di crudeli coincidenze alle quali è estranea la volontà del viceré?
Nulla è rivelato, in realtà. Le lettere dei due amanti, così come i resoconti degli storici, sono fertili di indizi, ma non contengono alcuna prova di colpevolezza, tranne che dell’adulterio.
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