di Angelo Maddalena
Il baratro, il bivio, lu porcu di… No, niente, mi sono già sfogato, anzi, sfracellato contro un muro…Un collo, un corpo, un vetro, verde, al primo colpo no, sono rimasto intatto, impensabile, imprevedibile, vedibile, invedibile… Ora, una volta avevo visto uno, un certo Ivo, che si era buttato come un sacco di patate contro una saracinesca, e cadendo a terra, a peso morto, si era rialzato intatto, manco un graffio… un tuffo, un urlo, un salto, una botta, una caduta… tutto in autoproduzione… Rincorsa, lungo il muro, salto, tipo salto in alto, colpo di reni, di fianchi, spettacolo, stuntman.
E allora, se lo può fare Ivo, perché non io? Vabè, lì eravamo a Milano, vicino a via Bellezza, fine anni ’90, altri tempi, un altro secolo! Eravamo usciti dal circolo Arcibellezza…
Ma… qui, siamo a Bari, non c’è una saracinesca, l’autobus sta partendo, ho fatto il biglietto stamattina, dieci ore prima della partenza, o quasi, padre Pio m’ha fatto la grazia, che se non c’era lui mica ce li mettevano due autobus al giorno da Bari per la Sicilia, oggi c’è né uno solo, quello delle 22,00, quindi mi è toccato fare il biglietto dieci ore prima perché l’agenzia ATS (o AST?) chiudeva all’una, visto che è le première de mai. L’autobus sta partendo, ma io aiu un ‘nnisìu dirompente, di-rompente, perfetto, disìo di rompere, rompermi tutto, mi scassu tuttu.
Allura cchi faccio? Aiu li borsi nni li manu, attaccate alle spalle veramente, una è di quelle di stoffa modello sacco per la spesa ecologico, cioè che non li butti ogni volta che vai a fare la spesa ma lo riutilizzi, mi l’àppiru a dari a Bologna l’anno scorso, una tipa del gruppo dei poeti pazzi itineranti che rientravano nella categoria “cani sciolti” della parata partot.
Allura cchi faccio? Mi talìo intorno, le possibilità sono ridotte, saracinesche a vista d’occhio non ce ne sono, solo un muro che circonda la stazione dei treni, ma intanto io ho scelto questo momento per rompermi, allura mi talìu cca banna e dda banna, lu semaforo è rosso, devo attraversare la strada per raggiungere il muro, alla mia destra ci sono portici, e portoni, banche, bar, negozi, alla mia sinistra, sotto il marciapiede, una fila ininterrotta di macchine posteggiate. Quasi quasi mi butto contro una utilitaria, e faccio il blek blok camicazze! Cumu dicinu certi anarchici aperiodici, che in una Lettera agli aspiranti suicidi propongono di portarsi dietro un “nemico”; io ci ho scritto una lettera critica a questi anarchici, pirchì il suicidio è un gesto troppo importante, dignitoso, spirituale, metafisico, per essere svilito con la militanza, un suicida (o aspirante tale) non può e non deve diventare un kamikaze, e invitarlo a portarsi dietro un “nemico” (possibilmente un Presidente del consiglio o un Presidente della Confindustria, per esempio)è un invito a diventare un kamikaze… Comunque, qua non si tratta di suicidio, qua si tratta di rumpìrisi, stuccàrisi (lu cuddru, li gammi), spaccàrisi (la testa, li mascìddri), ‘nsumma, scassarisi tuttu…
Allura, vidimmu cchi si po fari…
Jittàrisi ncapu na machina non sarebbe male, ma poi assicurazioni, cose così, meglio evitare, e poi macchine provocanti (ammesso che ci siano macchine innocue e non provocanti il desiderio di distruggerle) non ne vedo molte in giro… Ci fosse qualche SUV in giro, ma lassammu perdiri, in solitudini m’aie rùmpiri , sulità santità…
Allura mi pigliu la rincorsa, lu semaforu iè ancora rosso, curri curri versu lu muru, niente e nessuno mi fermano né vedono, le luci della città non illuminano i dettagli, pochi passanti, iè il primo maggio, su tutti a lu concertu a st’ura, canta Peppi Barra, ccu lu vistiti e lu birrittu all’araba, come dice la fotografia del manifesto ca c’è attaccato mura mura…Vabbeni, fatta iè, arrivo di testa contro il muro, la botta iè forte, poi arrivano le spalle, le braccia, le gambe, i piedi, le mani, le scapole, tutti cosi, mi scassu tutti cosi… sarò tutto rotto, le cose che ci ho nella sacchìna e nella borsetta a tracolla si scalìanu per terra a tinchitò, cu vola di ccà cu vola di ddrà…
fogli e foglietti, busti bustini,
michi e catini… Belli bellezzi
bagasci ccu li pezzi,
bummi bummetti e farsi confetti,
ora m’arriva l’ambulanza
ca Cristu Santu la miseria avanza…
Incredibile, ancruaiabl (si scrive incroyable!), mi alzo come si era alzato Ivo quella volta , dopo il salto e il tuffo e il botto contro la saracinesca di via Bellezza o giù di lì, a Milano… Invendibile, discutibile, intanto è così: qualche graffio nella fronte, cosa di nenti, dolorini inutili alle mani e alle gambe, ma niente, non è possibile, e cchi sugnu bijònicu, eppure ho saltato in alto (io sono atletico!), ho cominciato a correre forte dieci metri prima del muro (quanto è larga una carreggiata? Più il marciapiede?), tuffato contro il muro come una saetta, un missile, un…un…un…
Comunque, ormai non mi posso tirare indietro, ormai è fatta, mi ripiglio dallo stupore e torno indietro, stavolta senza sacchi e sacchine addosso, il semaforo è ancora rosso, devo approfittare, l’autobus sta partendo, capace che mi chiamano e poi non ho più tempo…
Riprendo la rincorsa, stavolta miro uno spigolo del muro, lo spigolo della rientranza del cancello, il cancello è chiuso, arrivo verso lo spigolo. Come una bottiglia di birra di vetro verde.
Bumcrash, cresh aghein!
Che era il motto ipermediatico del corteo di inizio ottobre dei superraccomandati del Crash di Bologna, cresh aghein!. Mi pigliava bene e me lo ripetevo in quei giorni lì mentre facevo ritratti in costume medievale a Thiene al festival rinascimentale, crash aghèin!, strumble, ruppimi, cudd, gamm, pizz di buttigl, vird, nterr, finarment cci arrinisciv.. cumu dicivanu l’antichi saggi… Migliu ammazzariti tu ca aspittari la sorti buttan.
O no?
Ma iu nun sugnu mort, sugn ancora viv, e… e… e…etcciùm, ncuminciu a starnutire con il pezzo di naso che mi è rimasto intero, ma no, niente, niente sangue, com’è possibile? Solo vetri, verdi, nterra, di qua e di là, e mi sento libero e bello, felice come una pasqua, come un primo maggio senza concerto del primo maggio a San Giovanni né manifestazione dei sindacati, ora sì che mi sento un vero blecchi blocchi, che avìva tanto tempo che volevo fare come loro, ma ero troppo pacifista, soprattutto troppo nonviolento, per riuscire a rompermi il culo contro un muro, e sentire i pezzi verdi infrangersi e schizzare di qua e di llà, avevo paura del sangue, della gente, della polizia… Ma ora che ho visto, ora so: niente sangue, solo vetri, niente polizia, niente gente, niente di niente, sulu Cristu mi sente.
Questo racconto è dedicato a Juan, segregato nel carcere di Poggio Reale da più di sei mesi ormai.