di Giorgio Morale
Giorgio Morale viaggia e annota. Gli appunti del suo viaggio in Grecia. ma.mi.
Arriva l’estate, la grande stagione, e ci disperde. Ci riprende la nostalgia, per il nomadismo, per il mare.
Per un buon viaggio ci vuole un sano stoicismo: siamo cittadini del mondo. Il nostro destino ci raggiungerà ovunque. Una visione antitragica.
Dobbiamo prendere distanza dalle nostre cose, la casa, gli affari, i genitori anziani.
Fino alla vigilia della partenza mi chiedo con Elizabeth Bishop se
“E’ la mancanza d’immaginazione a spingerci
nei luoghi immaginati anziché restare a casa?
E se Pascal sbagliasse sullo starsene
seduti buoni buoni nella propria stanza?”.
Il primo giorno andiamo con Demetrio in un ristorante. Il cameriere depone sul tavolo una bottiglia di vino e spiega qualcosa che Demetrio ci traduce. E’ l’omaggio di un amico che lui aveva salutato prima di prendere posto.
“Questa è l’usanza” dice. “Quando qualcuno arriva, un conoscente gli fa un omaggio”.
Giorgio Morale viaggia e annota. Gli appunti del suo viaggio in Grecia. ma.mi.
Arriva l’estate, la grande stagione, e ci disperde. Ci riprende la nostalgia, per il nomadismo, per il mare.
Per un buon viaggio ci vuole un sano stoicismo: siamo cittadini del mondo. Il nostro destino ci raggiungerà ovunque. Una visione antitragica.
Dobbiamo prendere distanza dalle nostre cose, la casa, gli affari, i genitori anziani.
Fino alla vigilia della partenza mi chiedo con Elizabeth Bishop se
“E’ la mancanza d’immaginazione a spingerci
nei luoghi immaginati anziché restare a casa?
E se Pascal sbagliasse sullo starsene
seduti buoni buoni nella propria stanza?”.
Il primo giorno andiamo con Demetrio in un ristorante. Il cameriere depone sul tavolo una bottiglia di vino e spiega qualcosa che Demetrio ci traduce. E’ l’omaggio di un amico che lui aveva salutato prima di prendere posto.
“Questa è l’usanza” dice. “Quando qualcuno arriva, un conoscente gli fa un omaggio”.
In un ristorante all’aperto, la musica. A un tratto parte la danza, il cerchio. Figure geometriche dei corpi, decorazione in movimento. Le antiche kore, la grazia.
Il convivio. La portata è al centro del tavolo, ognuno prende la sua parte.
La vita all’aperto, il passeggio.
Strana la parlata. Il tono e la cadenza sono quelli del Meridione e mi sembra di coglierne un senso familiare, però quando pongo attenzione alle parole la lingua mi diventa inaccessibile.
Fusione degli elementi del paesaggio, terra e acqua mescolate insieme. Alberi sulla riva del mare, montagne in lontananza, una diversa gradazione d’azzurro.
Finalmente! Un mese lontano. Da cronache di nulla e resoconti di zeri, maneggi politici e spostamenti millimetrici di potere. Dove niente potrà raggiungermi, se non guerre totali o cataclismi naturali.
E come appare assurda la guerra vista da queste spiagge. Questa guerra incombente, strisciante, quasi ricercata con ostinazione.
Né si può dire che la nostalgia della città ci assalga. Anzi il tumulto delle attività e delle relazioni, il favoleggiato di più di possibilità che offre la città, pare proprio poca cosa. La città che un tempo era meraviglie e splendori.
Staremo un mese a seguire le evoluzioni della luna, aspettando come un evento il suo sorgere ritardato ogni giorno. Dalla veranda di casa o dalla riva del mare.
A Iolco. Pensa, da qui partì Giasone, da qui salpò la nave Argo. La cultura, la memoria: siamo fatti anche di questo.
L’onda sui sassi. Lo stesso suono da millenni.
Sole, mare, vento. Questo nei giorni, questo nei discorsi.
La sabbia bianca, il mare azzurro. A Milospotami, sull’Egeo. Adesso capisco l’espressione “Egeo ondoso”.
A Meteora. Un prete ortodosso ci spiega che le pietre sono cadute dal cielo. O forse, penso io, è la terra che s’alza in punta di piedi per vedere meglio il cielo. O forse è sempre la stessa storia della terra che dà l’assalto al cielo.
Bello il nartece, il lampadario e gli affreschi. Il giudizio universale, la storia di Cristo e la vita dei santi. Tutto lo spazio pieno, non un centimetro di vuoto.
Non c’è una via, persino sperduta in montagna, che non abbia una cappellina con le sue icone. I fedeli s’inchinano, si segnano, baciano le immagini, accendono un lume o una candela.
Quale iconoclastia? Neppure un cattolico venera tante immagini. Quale scisma? Anche qui ori e decorazioni.
Verso Delfi. Dappertutto vedi o la montagna o il mare. Spesso l’una e l’altra. E sui paesi domina la mole arrotondata di una basilica bizantina.
Erica ha un’intuizione.
“Ecco a cosa si sono ispirati per il teatro greco”.
“A cosa?”.
“Ai fianchi della montagna”.
E indica le insenature che si aprono nelle valli.
A Delfi. Non so cosa mi colpisce di più: la storia – e l’arte – o il paesaggio.
Gli dei sono andati, però molte cose divine ci hanno lasciato.
A un certo punto, scendendo dallo stadio, vediamo formarsi un mulinello d’aria che solleva una colonna di polvere e attraversa il piccolo spiazzo davanti a noi. Un prodigio?
La domanda di Erica, dopo essere usciti dal museo di Delfi.
“Tutte queste cose, le abbiamo capite davvero? Cioè, siamo veramente sicuri di capire quello che chi ha fatto queste opere voleva dire?”.
Semplicemente andare, per guardare attorno. Questo è già soddisfazione sufficiente.
La strada apre due braccia infinite e mi chiama avanti.
I tralicci, giganti con le braccia tese, allineati nella pianura.
Mossi dagli spostamenti d’aria provocati dalla circolazione nei due sensi di marcia, gli oleandri delle aiuole spartitraffico ondeggiano come per una riverenza.
Dappertutto montagne, il mare sembra un lago. Ma è vivo, e s’intuisce uno sbocco, da qualche parte.
* * *
Verso l’Olimpo. Una nuvola staziona sul monte, due aquile volteggiano.
Prima le case, i cui tetti spioventi la prospettiva ci offre uno sull’altro per l’irregolarità del terreno; poi la vegetazione lungo i pendii, di diverse tonalità di verde, poi le montagne, a coni e piramidi, e infine il cielo. Questa varietà, nelle località di montagna, è gradita all’occhio e alla mente.
Quando scendiamo dalla macchina e ci dirigiamo verso uno spiazzo con una folla di tavolini e persone, Demetrio sta già stringendo delle mani. Quando arriviamo fa le presentazioni. Aggiungiamo delle sedie e un tavolo. L’ambiente ferve come un alveare. Noi ci stupiamo.
“Quanta gente! E parlano tutti”.
“Qui non è importante consumare. Il cibo è un pretesto, l’importante è il dialogo” dice Demetrio.
Per un po’ parlano in greco, poi Demetrio traduce.
“Il signore ha settantotto anni e la moglie sessantasei e sono sposati da quarantotto. La signora racconta che quando lei e il marito bevono un caffè, lei dice ‘Che sia l’ultimo’. Vuole dire che è contenta della vita vissuta con lui, e che se anche la vita finisse, lei sarebbe contenta di quanto ha avuto: è un modo per dire che è ancora innamorata, come lo era da giovane”.
Poi la signora mostra un piccolo dolce e spiega che è stato distribuito in chiesa per ricordare la riconciliazione della nazione nel ’75. Allora il marito, che si chiama Yorgos, ricorda alcuni passaggi della storia greca del Novecento. Vede il nostro interesse per l’argomento e commenta:
“I Romani avrebbero dovuto portare una sola lingua, ma non ci sono riusciti. E già prima non c’era riuscito il grande Alessandro. Speriamo che non ci riesca Bush con le sue bombe”.
Dopo un po’ i signori ci invitano a mangiare a casa loro. Qualcuno di noi è indeciso, ma poi qualcuno dice che un rifiuto li offenderebbe. Demetrio spiega che deve andare via presto per visitare dei parenti e la tomba del padre in un paese vicino, allora si arriva a una mediazione: accettiamo l’invito, ma solo per un piccolo spuntino. Ci avviamo subito.
Davanti alla casa, attorno a un tavolo. Ci sediamo su una panca, che guardiamo con curiosità, poiché è visibilmente tratta da un unico tronco. Demetrio ci traduce la spiegazione del signor Yorgos.
“L’ha fatta con le proprie mani suo padre, col tronco di un platano che era stato colpito da un fulmine”.
La signora ci prega di accettare un piccolo dolce, cosa che noi facciamo volentieri. Appare dopo poco portando un piatto con delle fette di dolce. Fatto con le noci dell’albero che ci fa ombra, spiega. Nives chiede quanti anni ha l’albero e il signor Yorgos dice almeno duecento. Ricorda che gli diceva che aveva più di cento anni il padre, quando lui era piccolo.
Poi porta un altro dolce e ne dà una porzione a ognuno e due porzioni a Erica.
“Per te e per il figlio che verrà da te” le dice.
Dopo si riempiono i bicchieri e si brinda.
“Che voi possiate essere felici come lo siamo noi due” è l’augurio della signora.
Dopo ci guardiamo attorno ammirando il monte e la campagna, allora la signora dice che finché starà bene il signor Yorgos lì sarà sempre estate. Il signor Yorgos ci invita ad andare a vedere l’orto, e ci mostra pomodori, peperoni, zucchine, patate, fagioli, cipolle, e gli alberi da frutta: noci, fichi, susine. Al ritorno altre vivande sono sulla tavola: insalata, formaggio, frittata, polpette. La signora parla delle figlie e si mostra dispiaciuta che una di esse si sia sposata a diciassette anni.
“L’ho goduta poco” dice, e le si inumidiscono gli occhi.
Nives, che le è seduta accanto, le fa una carezza.
Al momento di partire ci riempiono di doni. Come pensandolo sul momento, ci rincorrono dandoci ora una cosa ora l’altra: un sacchetto di noci, una rametto di susine, a Erica un bocciolo di rosa. La signora piange abbracciandoci. Ci accompagnano per un po’ sulla strada. Prima si ferma la moglie, poi il marito.
* * *
Quanto conta che un monte si chiami Olimpo; una valle, Tempe; un fiume, Peneo; una terra lontana, Eubea?
Possiamo dirlo con Hoelderlin:
“Grecia felice! Casa di tutti i celesti
è dunque vero ciò che da giovani abbiamo udito?”.
Per un mese – essere pietra, essere acqua.
Il senso dell’ora viene meno. Guardiamo un tratto di mare e cielo, e potremmo essere in qualsiasi luogo.
Demetrio dice che ci sono 42 gradi. Vicino al mare non ce ne accorgiamo.
Salonicco è un libro aperto. Puoi leggere le sue strade come capitoli di storia.
Di fronte alla più grande moschea dei Balcani. Una costruzione cadente, pericolante, recintata.
Di fronte a un’altra moschea. Il minareto è spezzato, bambini giocano sotto il portico. Quasi una volontà di cancellare la sua presenza. E vicino una chiesa bizantina. La fede vinta e la fede trionfante.
“Che spazi aperti!” dice Erica.
E Nives a me:
“Hai occhi più grandi”.
La luce è visione. Mi sembra di vedere meglio.
Il paesaggio lo fa il colore. Alcune fasce di colore, il verde intenso degli alberi riflesso nelle acque, un unico verde separato in due dalla fascia rossastra della riva e dominato dall’azzurro del cielo: ecco cosa fa del lago di Plastira uno dei luoghi più belli che io abbia visto.
Una sera andiamo ad ascoltare un quartetto in cui suonano due amici di Demetrio, Costantino e Zafirula, a Kato Gatsea. Il concerto è sul molo. Alle spalle dei musicisti i riflettori illuminano gli scogli; la luna, il mare. E’ bello, all’improvviso, accorgersi che il pubblico canta sottovoce.
So dire poco dell’Acropoli di Atene. Sono intimorito dal luogo, abbagliato da luce e pietre, stordito dal caldo, confuso dal vento.
A Sesklo e Dimini, nei siti neolitici tra i più antichi d’Europa. Non ci sono visitatori né segni d’uomo. Vallate rigogliose separano montagne che sembra di poter toccare allungando la mano. Pare di essere in vetta al mondo. Il silenzio è sottolineato dal vento. Viene da pensare che questo è quello che vedeva l’uomo prima della storia, e il pensiero dà le vertigini. Poi penso alle variazioni climatiche, alle variazioni di flora e fauna, a come quindi tutto allora era diverso, e lo smarrimento è ancora maggiore.
Succede gli ultimi giorni. Soddisfatta la prima ansia di girare e girare, finalmente ci abbandoniamo al riposo.
* * *
Si festeggia il centenario della fondazione di Nea Anchialos. (Ecco cos’erano quelle prove di danze che abbiamo visto nei giorni scorsi). Centinaia di persone assistono alle celebrazioni ai giardini pubblici. Sono sedute a semicerchio attorno a un palco, come nel teatro antico. Prima c’è un oratore, poi uno spettacolo ripercorre la storia, alternando proiezioni, scene dialogate, letture, canzoni e balli. Demetrio traduce e sintetizza per noi. Poi il sindaco invita a continuare altrove la festa e augura buon divertimento.
Ci si trasferisce in una strada perpendicolare al lungomare. Una strada larga occupata da tavolini affollati. Ci riteniamo fortunati per essere riusciti a trovare posto. La panettiera amica di Demetrio ci offre un dolce: lo depone al centro del tavolo e noi lo dividiamo. Ci sono due suonatori e una cantante, un donnone estroverso dai lineamenti marcati e piacenti. Si sposta per tutto lo spazio, a volte coinvolgendo qualcuno nel canto, a volte rivolgendosi a un ascoltatore. Anche a me capita di essere baciato da questa fortuna.
Davanti ai suonatori c’è lo spazio delle danze. Demetrio dice che anche lui da giovane sapeva ballare. Ha appena finito di parlare che ce ne dà un saggio. La sua amica panettiera viene al nostro tavolo, lo prende per mano e lo trascina in pista.
Si sente il rumore di un bicchiere rotto.
“Quando il divertimento è al massimo, c’è sempre qualcuno che rompe qualcosa” ci viene detto.
Da un po’ noto un giovane con un’aria da malandrino. Pantaloni neri, camicia bianca, scuro, con capelli nerissimi lisci. Quando si muove, quando guarda, quando accenna un passo di danza, sembra sempre che lanci una sfida. Per lo più staziona con un gruppo davanti all’ingresso del locale. E’ da lì che è venuto il rumore di vetri. Poi vedo il giovane avviarsi a passo di danza verso quelli che ballano edi vedo il giovane avviarsi con passo di danza verso quelli che ballanoe entrarehe lanci una sfida. tatore. entrare nel cerchio. Poi a uno a uno smettono tutti di ballare, finché rimangono in pista solo dei bambini e il giovane malandrino. Questi con un gesto di stizza lancia una piccola bottiglia di plastica per terra.
Due signori anziani, con l’aria di persone autorevoli nel paese, vanno a fargli qualche rimostranza. Interviene anche un giovane e tra questi e il malandrino cominciano a fioccare pugni e calci. Si aggiungono altri alla colluttazione e un groviglio di corpi barcolla alle spalle di Nives. Faccio appena in tempo a dirle “Alzati, presto!”, che i litiganti si abbattono sulla sedia appena vuota e sul tavolo a cui eravamo seduti, facendolo rovesciare. Una sedia mi cade sulla gamba e mi lascia una lieve ferita. Tutta la gente s’è alzata e s’è creato un vuoto. La musica però continua a suonare, finché Nives ed Erica corrono dai musicisti, richiamando a gesti la loro attenzione e facendoli smettere.
“Sono degli albanesi che hanno provocato” spiega Demetrio mentre ci allontaniamo. “Ce ne sono tanti in paese, ma non si sono integrati”.
Poi continua a ripetere:
“E’ la prima volta che succede una cosa del genere. Qui non ho mai visto niente di simile”.
E nei giorni seguenti:
“Mi dispiace per quello che è successo”.
Gli chiedo cosa si dice nel paese.
“Quegli albanesi hanno finito di vivere” dice. “Nessuno gli darà più lavoro”.
Noi siamo dispiaciuti della piega presa dagli eventi.
Poi un giorno Demetrio ci dice che la gente del paese ce l’ha con i greci che hanno partecipato al litigio.
“L’idea che circola è che non avrebbero dovuto rispondere alle provocazioni”.
“Mano male” dico io.
“Sì, forse è meglio così”.