di Mauro Mirci
Antonio Casano giocava in avanti. “Dove giochi,” gli chiedevamo tutti. E lui: “In avanti.” Era quindi un attaccante, e di quelli rifiniti. Almeno così sosteneva lui, e siccome noialtri di calcio capivamo niente – questo era il suo credo – inutile metterci a contraddirlo, non c’era dialogo. Capitava spesso: finta, slalom e girata in rete. Palla nel sette, o sotto la traversa, portiere ramminchionito. Non ce n’era per nessuno.
Più spesso non capitava, ma l’intenzione era sempre quella.
Coi terzini – quando giocavo assieme ad Antonio c’erano ancora i terzini – erano sempre questioni. Una volta ne rincorse uno torno torno il campo, perché gli aveva toccato una caviglia a cui teneva molto visto che se l’era slogata ai tempi dell’asilo.
Gli occhi li aveva feroci, le gambe secche, le spalle a collo di bottiglia, ma era il nostro giocatore migliore e in campo ci andava sempre e silenzio. E’ giusto dirlo: uno scarpone non dovrebbe mai giudicare una star. Io ero famoso per i miei rinvii alla viva il parroco – anche “alla viva il parroco” non si dice più – per i miei tackle assassini e per le gomitate alle costole. Sui passaggi ero approssimativo, nel palleggio eccentrico e, quanto a visione di gioco, mancavo di molte diottrie. Fiato ce n’era, e pure buona volontà, ma definirmi un giocatore scarso era già un complimento. Non ero un giocatore di calcio, ecco.
Ma come si fa a non dedicare due parole a Casano?
Si piazzava sulla trequarti sinistra se era senza palla. Non faceva differenza che fosse un’azione di attacco o di difesa, lui era domiciliato lì. Attendeva. Quando riceveva palla se l’appiccicava al piede destro e ci andava a spasso per tutto il rettangolo di gioco. Stavo per scrivere “rettangolo erboso”, però chi l’ha mai vista l’erba sui campi dove giocavamo noi?
Percorreva il campo in lungo e in largo, dribblava tutti quelli che gli capitavano davanti, spesso lo vedevamo tornare indietro dribblando, alle soglie della nostra area di rigore: era disposto a tutto pur di tener palla. “Passa, passa” urlavamo, ma lui niente, finta, contrifinta, doppio passo, tunnel, scatto sulla fascia, finta di nuovo.
Un grande giocatore, ma che volete, a giocare da soli la palla te la levano. Lui rientrava a casa sua, sulla trequarti sinistra, ad attendere il passaggio, pure se l’azione la facevano gli altri. Avevamo sempre la fascia sinistra scoperta.
“Torna, Antonio, torna” urlavamo noi, ma lui niente. Ci toccava difendere con un uomo in meno e Antonio che urlava: “Sono libero, sono libero.” Mai nessuno s’azzardava a dirgli che era inutile stare solo là davanti, a meno che non si voglia il passaggio dal centravanti avversario. Una volta che Di Vita Armando si azzardò a farglielo notare, Antonio si incavolò. Uscì dal campo, ci lasciò in dieci e, nonostante tutto, patimmo la sua assenza. Ci eravamo tanto abituati a giocare con lui, che in attacco non ci sapeva andare nessuno. Come Achille all’assedio di Troia, contemplò da lontano i nostri patimenti, e rientrò solo quando Di Vita Armando andò a chiedergli scusa ad alta voce.
Quando prendevamo gol si incazzava. “Con voi non ci posso giocare” diceva, “troppo scarsi.”
Un giorno se ne venne fuori che doveva fare un provino. “Con chi, con chi?” gli chiedemmo noi. Non ce lo disse, mistero.
Sparì per una settimana. Tornò e il mistero continuò.
“Com’è andata, Antonio?”
“Bene” diceva lui, ma continuava a giocare sui nostri stessi campi da pallone di terra dura come cemento, con le reti delle porte cotte dal sole e le linee di gioco stinte e irregolari come tracciati di elettrocardiogrammi.
Antonio Casano giocò anche in seconda categoria, sino all’età di anni trentadue. Seconda punta. Litigava sempre con l’allenatore e con gli arbitri. Col primo perché non riuscirono mai a mettersi d’accordo sulle date e gli orari dell’allenamento. Con i secondi perchè non concordavano con la sua interpretazione del fuorigioco. Molte partite le guardò dalla tribuna.
Suo padre era falegname, lui lo aiutava in falegnameria. Oggi pialla, sega e incolla, ha una buona mano, però è un po’ caro. Se ti lamenti per i prezzi s’incavola e risponde che un falegname rifinito si paga, che stava per andarsene a lavorare con Aiazzone, però poi quello è cascato dal cielo e non se n’è fatto più niente.
Quando vede giocare Cassano dice: “Come a lui, io giocavo come a lui.”