di Fabrizio Corselli
I testi di Fabrizio Corselli introducono, col loro stile alto e ricercato, a una poesia densa di metafore e chiaroscuri.
Lacera impervie le fulgide vene di un Cristo
anonimo, e infetto altresì malato
un crocifisso, di ruggine ancor più satollo
come lama che di un fascio di tremula carne
ne assapora e ne scortica l’empia ferita,
poiché di quella stessa e sola Vergine Madre
che del proprio figlio inala le grondanti piaghe
in riscatto di una salvezza quasi sempre invisa
all’umanità d’ibrida ed apolide progenie,
l’utero, all’incesto lento sì adopra e s’affatica
affinché di un’ingannevole corona di spine
le croste e i grumi s’addensino e s’adagino
sulle labbra di uno stormo di fedeli bigotti
che il tradimento elogiano su quel violato altare
ove sacrata una parola s’estingue nel freddo incenso.
Adesso, cade una sola goccia come tardo rivolo
tra le cosce aperte e consunte di una frigida santa
mentre attende ed ancor più stringe della propria grazia
un’aureola divenuta al macero solida emicrania;
così, torpido essuda il sadico umore di fedele accidia
poiché nel rinnegar tale dono semplice offerto,
ogni dannato ripudia e in ogni modo più si pente
nel veder ritratta la propria colpa di tenace inquisitore.
S’accinge alato un angelo caduto alla lignea Croce
per suggerne del membro l’albino e contorto livore
e poi di legno sputarne frammenti e rugginose viti
come sperma corroso su di aste altrettanto usurpate
da seguaci ed accoliti di pura fede indigesta;
Ne disossa il corpo e ne dilania l’avido olfatto
come crudele avvoltoio ormai sulla nuda carcassa
mentre scaglia agl’estremi pochi emaciati resti,
liberando il proprio cranio da trombi e metastasi
attecchite quali semi tra i carsi di terra nuda e brulla;
Ne ricuce con adunchi artigli le cieche palpebre
dopo aver nel loro intestino e pieghe rigurgitato
feconde larve e una volta per tutte l’origine del male,
giacché il suo lacero timpano più non ode il coagulo
di giovani innocenti al sacrificio presto condotti;
S’aprono adesso finché saturo gl’occhi impauriti
come scucito velluto dalla durevole e labile maglia,
dalle orbite sgorga sanguigno l’afflitto e triste sguardo
nel veder da un’altezza non più di corde schiava
come martire la cui carne fugace e spenta si apre
tra tendinee fiamme di sopruse ed inique menzogne
quanto prossima sia della razza umana, l’incombente disfatta;
in un cinereo Calvario di contrita e solitaria pena
del proprio sterno si frantumano le umili prediche
non appena al di sotto del costato, puntuta si riversa
la funesta mola, le cui sembianze in nodoso artiglio
chiaro si rivela a colui che su di un’asta giace infisso.
Ogni respiro, adesso tace in quel corpo defunto…
Di quella stessa corona di rovi gradualmente disfa
una dopo l’altra, le punte vermiglie e le contuse smanie
allorché si disciolga dell’intreccio la velenosa spira;
Libero il capo e allentate le placide membra
al di là di un cardine ossidato dall’incerto passo
come condannato a morte al cappio sì torto,
in ultimo, ne recide le carni e ivi le distende
mentre codeste parole su di esse, lente vi forgia:
Un’atavica fede, questa, che della santa guerra,
forse conosce ma lievemente disprezza
le insepolte necrosi di una verità taciuta appena.
Una crocifissione più non basta a redimer colui
che lo staffilo terreno nel proprio ventre incarna,
così ancor più nelle sue ossa s’inerpica il chiodo
d’una indulgenza digerita a tratti dal venefico castigo.
Per questo, io, eretico senza nome, di Dio invoco
una sola e facile bestemmia che allieti e denigri
della solita e lieta parabola ai proseliti concessa
con religiosa ed ecclesiastica investitura,
il disagio di una cancrena nel proprio credo intinto.
Su di una dispersa fonte battesimale, io v’immergo
i tuoi escrementi di corruttoria condiscendenza,
quando nel mescerne le livide macchie albine,
ogni fronte cristiana dell’inganno presto s’accorge.
Allora, della tua carogna altro non lascio che lacrime
asperse al nulla, senza conforto ne delizia alcuna;
nel berle quasi in prelibato sorso, la speranza s’estingue
cedendo a tentazioni e lascive lusinghe ad un flagello
d’ossa estorte col sangue di dubbia risposta.
Adesso, chiudo le mie ali come appassito bocciolo
che s’appresta a contemplar del cielo le nere tinte,
ad esso più non chiedo altra cinica pretesa
che del tuo nome ancora esasperi il paterno dono;
il tuo cadavere già è morto in tempi futuri
laddove dell’anima il male più non reclama l’obliata lode.
Del resto, caduti siamo entrambe come brina disciolta
sulla verde foglia di un ignaro ed ingrato arbusto
il cui frutto proibito ancor disconosce la morsa del fuoco,
caduti per un amor verso colui che sul regno mortale
ancora governa col bastone di tirannica provvidenza.