di Giovanni Monasteri
Ci frequentavamo da poco tempo. La mia lettera d’amore era sul tavolo apparecchiato per due. La scena, diversamente dalla cena, era stata preparata con cura: due piatti, due bicchieri, i tovaglioli ben ripiegati (tovaglioli di stoffa! Ma che lusso!), le posate scintillanti, una caraffa d’acqua fresca e quella lettera. Era lì, sotto il bicchiere capovolto, ripiegata come i tovaglioli. Mi era stato fatto divieto di toccare i bicchieri e la caraffa prima che gli spaghetti fossero pronti. «Lasci impronte digitali dappertutto », mi aveva detto, mentre aggiustava di qualche millimetro la distanza tra la forchetta e il piatto. Ogni cosa era disposta sul tavolo come pedine su una scacchiera all’inizio della partita.
«Posso toccare dove non restano impronte digitali, allora?», le dissi. Lei minacciò scherzosamente di colpirmi col mestolo sulle mani smaniose.
«Posso leggere questa cosa, almeno?», dissi, sfilando con cautela il foglietto da sotto il bicchiere.
«Leggila pure, è tua», disse lei, continuando a trafficare con mestolo, tagliere e pentolame.
La scrittura era un po’ tremolante. L’avevo scarabocchiata in treno, qualche giorno prima, su un pedestre foglio a quadretti di un notes da due solidi, di quelli con la rilegatura a molla. Non avevo perso tempo a ricopiarla su un foglio più degno: volevo si capisse che l’avevo scritta di getto, preso da un impellente bisogno di confidarle la mia passione. Poi l’avevo spedita per posta.
Ed ecco che adesso rileggevo la mia lettera d’amore, mentre la destinataria di quella lettera era lì, così vicina da poterla toccare. E la toccavo dappertutto, infatti. E lei cercava di tenermi a bada, con una mano, e con l’altra rimescolava un sugo bizzarro con cui avrebbe condito, di lì a poco, degli spaghetti molto, molto al dente. Carota, limone, mascarpone, sedano, patate, piselli, origano, zenzero, olive non snocciolate, noce moscata … Tutto nella stessa pentola. Che schifo di cuoca era! Ma quanto l’amavo!
«Ti è piaciuta, vero, la mia lettera d’amore?… Ma che fai?… Il mais nel sugo di pomodoro?…».
Poi mi sedetti e «senti questo passaggio», dissi. Mi ero messo a leggere la lettera ad alta voce, senza più badare né a lei né ai suoi intrugli. Ma all’improvviso lei me la strappò di mano con gesto rabbioso.
«Allora era per te, e non per me», ringhiò.
Scostò la pentola, alzò la fiamma del fornello. Teneva quel foglio di carta tra il pollice e l’indice, sul volto un’espressione di ribrezzo. Come fosse un insetto schifoso, la mia lettera… La mia lettera d’amore!…
Giuro: la bruciò.