di Mauro Mirci
Il breve racconto che segue è frutto della partecipazione a un curioso concorso bandito da Stefano Amato, titolare del blog Renault 4. Il tema era libero, ma nel racconto dovevano fare la loro comparsa: un bacio, un morto ammazzato (non importa come), due armadilli, un furto d’auto. Lunghezza massima: 285 parole. L’incipit obbligatorio: “Adesso vi dirò come sono andate veramente le cose.”
Il concorso è stato vinto da Paolo Melissi, titolare di un altro blog che vale la pena leggere: melpunk.splinder.com. Il suo racconto può essere letto lì. Ma questa premessa è durata troppo. Un bacio.
Adesso vi dirò come sono andate veramente le cose.
Un bacio, solo quello le avevo chiesto. Speravo che le mie rughe (poche per la mia età, molte, forse, per i suoi occhi) le rimanessero invisibili.
E un bacio stavo per ottenere. Nipote, alunna o figliastra, che importa; giovane incomprensibile alla mia genìa di ex-trentenni – quasi quarantenni ormai. Appetibile.
Avevo esercitato su di lei tutte le mie arti di persuasione, poco più che tecniche abusate in realtà, ché la spontaneità me l’ero giocata molti anni orsono. Gioivo, tuttavia, scoprendo che il suo sorriso genuino dimostrava una totale incomprensione del meccano. Un bacio, una vetta. Il suo alito alla menta già sulle mie labbra, preannunziava brevi lambimenti della sua lingua poco meno che vergine sulla mia ormai avvezza a disparati umori.
Poi il frastuono.
Due armadilli improbabili mi zampettano accanto; colgo distintamente ogni interconnessione, ogni nodo della corazza. Un bacio quasi dato, un ex bacio, un bacio sfumato. E urla. Presto loro orecchio: tento di dipanare le voci esagitate che si intrecciano e confondono. “Un morto ammazzato”, dichiarazione della massaia coi sedani. “Disgraziati”, frammento di voce rugosa da fumatore. “Poveraccio, tutto per un furto d’auto”, sibilo giovanile compunto d’accento imprecisato, forse studente fuorisede.
Un bacio aleggia nella mia memoria. Sono già rassegnato per averlo perduto. Gli armadilli mi si strusciano contro mentre certi ragazzi nerboruti tentano di sollevare l’inatteso furgone del negozio di animali – o dello zoo, forse: da sotto la gomma si legge male la fiancata – che mi opprime il petto.
Lei mi osserva con sguardo estraneo, come se mi avesse già dimenticato. Forse vorrebbe piangere e si chiede se ne vale veramente la pena.