di Francesco Mastronardi
Proseguiamo la pubblicazione dei racconti finalisti della XIII edizione del Concorso Letterario Nazionale Racconti di Primavera. Stavolta tocca a Francesco Mastronardi, di Castellana Grotte, Bari. (ma.mi.)
Nessuna cura.
E nessuna ragione.
Era questa la legge non scritta che vigeva oltre quel ponderoso portone di abete putrido.
Lassù, dove cominciava il regno assoluto di Sua maestà il cancro.
Nondimeno, finanche un malcapitato e disattento visitatore che si fosse imbattuto involontariamente in quel vecchio padiglione avrebbe potuto comodamente consultare il testo di quella legge inderogabile.
Era scritta dappertutto.
Sulle gocce che colavano dal quel legno fradicio, sulle lenzuola porpora, su ogni frammento dell’intonaco che si frantumava sulle mille corolle dipinte sul pavimento.
Io potevo sentirla.
Mi bastava ascoltare i taciti gemiti del piccolo Theodor, quando, sul far della sera, l’arancione sporco dell’orizzonte attraversava gli ampi finestroni e si impadroniva di ogni riflesso di quell’avamposto della notte chiamato ospedale.
Il reparto tumori dell’Ospedale pediatrico di *** occupava l’ultimo piano della palazzina che dava ad est.
Fino a qualche anno addietro quell’imponente edificio ottocentesco aveva ospitato uno dei più decorati battaglioni di Fanteria, e difatti l’intero reparto, confinato in un’ampia sala col soffitto altissimo, conservava il fiero e tetro aspetto della caserma che fu. Sui lati lunghi dell’edificio erano disposte le file di letti metallici, sulle stesse pareti si aprivano un gran numero di estese vetrate ad arco che giungevano quasi a sfiorare la volta. Il muro corto in fondo allo stanzone alla cui destra c’era l’ingresso dei bagni, presentava solo una piccola finestra rettangolare al centro, e di là, oltre i boschi circostanti, c’era chi, a volte, giurava di riuscire a scorgere la costa.
Io odiavo l’oceano, e una volta rimesso piede sulla terraferma mi tenni costantemente alla larga da quella informe distesa verdastra. Fu così che, per pura casualità, mi imbattei nel Dottor Kogel al mercato del pesce.
Era un uomo schivo, riservato oltre misura, e, dopo il lavoro, era solito rintanarsi nella sua piccola villetta sulla collina del Monastero dove a volte rimaneva rinchiuso per intere settimane. Non aveva né moglie né figli e forte fu il mio stupore quando mi lanciò un cenno di saluto. Mai, mai avrei creduto che mi avrebbe riconosciuto, né sono mai riuscito a spiegarmi cosa ci facesse in quel posto.
Nella mia mente era ancora fresca di stampa l’immagine di quel mattino di Febbraio di circa vent’anni prima in cui mia madre, in preda al panico ed ad una improvvisa quanto inspiegabile disperazione, saltò al collo di quel già vecchio pediatra che all’improvviso spalancò la porta di casa nonostante la neve avesse già superato la tacca del metro e mezzo. Non disse una parola: strofinò la mia pelle con uno stetoscopio stranamente caldo e dopo aver scarabocchiato un foglietto che porse a mia madre, si rituffò senza battere ciglio nella tormenta. Forse era soltanto la mia diabolica fantasia di bambino ma… ma prima di richiudere l’uscio alle sue spalle, quando si voltò a guardarmi, io… io vidi le sue guance contrarsi per Dio! Si, d’accordo, forse si mosse soltanto una di quelle dannate guance, ma quello…
Quello era un maledetto sorriso.
Mia madre lo seguì allontanarsi con lo sguardo, e quella nuova luce che era comparsa nei suoi occhi umidi sparì d’un tratto quando sussurrò: “Avrebbe potuto diventare qualcuno quell’uomo benedetto. Ma sembra…” Poi scosse il capo ripetutamente lasciando che il candore accecante che filtrava dalla finestra inondasse le sue pupille scure. Ben presto il suo sguardo divenne nuovamente tutto per me.
Eccolo. Un sorriso.
Era da quel giorno che non lo vedevo. Per di più nutrivo la salda convinzione che lavorasse ancora presso l’Ospedale Maggiore giù in città, e che fosse solito venire in paese solo nella stagione estiva, quando raggiungere la sua casetta era decisamente più agevole. Nessuno mi aveva mai riferito che da poco più di un anno si prendeva cura delle piccole ombre lassù, al nostro ospedale pediatrico.
Risposi con calore al cenno del suo capo ma non riuscì a balbettare alcunché in quanto, come quel mattino di Febbraio, si dileguò con lenta destrezza.
Non era riuscito ad invecchiare di più.
Quell’incontro non fece altro che approfondire il calco che quell’uomo aveva scavato in qualche parte di me, e che vent’anni di pioggia e fango non avevano potuto colmare.
Si udivano strane storie su di lui.
Fu pressoché inevitabile per me ritrovarmi lì nel giro di poche albe nebbiose.
Il dottor Kogel era seduto dietro uno malfermo scrittoio, intento nel timbrare una lunga pila di fogli grigi che una giovane suora gli sottoponeva meccanicamente. Non avevo la minima idea del perché mi ritrovassi al cospetto di quell’uomo e attendevo con terrore che qualcuno mi domandasse uno straccio di motivazione per essere là. Inaspettatamente però, il dottore, senza distogliere lo sguardo dalla sua marea grigia, mi sollevò da qualsivoglia agitazione.
“Sta cercando lavoro?”
Da esperto qual era, doveva aver interpretato come una entusiastica accettazione quell’impercettibile movimento del mio capo che un improvviso quanto sleale sbigottimento si fece carico di produrre.
Fatto sta che dopo qualche attimo aggiunse: “ Può cominciare domani.”
Quando ritirai il mio primo stipendio non credevo ai miei polpastrelli. Lasciavo che tutte quelle banconote mi solleticassero la pelle e componevo nuove melodie con un abile tintinnio d’oro.
Theodor ricominciò a vomitare. La pelle del viso si faceva d’un tratto viola. Quello era l’infallibile segnale. Dopo qualche secondo giungevano i primi rigurgiti. Spesso le mie dita dovevano spingersi ben oltre l’epiglottide per evitare che un paio di bocconi mollicci si alleassero con tutta quella saliva per occludere la laringe. Magari prima avevo lottato per ore per riuscire a convincerlo a tirare due morsi a qualcosa di solido.
Quando vomitava solo sangue era meglio. Mettevo una piccola vaschetta di alluminio sotto il labbro inferiore e lo aiutavo a spingere fuori tutto. A volte riusciva quasi a riempirla.
Poi la svuotavo nei bagni. E piangevo.
La mezzanotte era il momento peggiore. Puntuale come l’orologio del campanile del monastero che potevo vedere nitidamente dal suo capezzale giungevano i dolori. Lo guardavo contorcersi su se stesso ed assumere posizioni che non avrei osato immaginare. Quando le fibre muscolari del suo corpo si contraevano fulmineamente potevo sentire un sottile fruscio che mi gelava il sangue. Fissava lo sguardo sul pavimento e spalancava la bocca muovendo freneticamente la mascella.
Ma nemmeno un sibilo usciva da quelle labbra. Mai.
Urlava senza voce. Lanciava lamenti che nessuno poteva udire.
Io cercavo di accarezzargli i capelli, stringevo la sua mano e quando il collo sospendeva per un attimo il suo vorticoso ondeggiare prendevo il suo viso tra le mani e gli sussurravo qualcosa.
Lo pregavo di smettere. Lo supplicavo.
Ma lui non voleva ascoltarmi.
La sua mano non stringeva mai la mia, ma non la lasciava andare.
Abitualmente quelle crisi duravano per oltre un paio d’ore.
Qualche volta non ce la facevo. Allora mi stringevo la testa tra le mani ed urlavo. Si, sbattevo energicamente i piedi per terra e gridavo forte nella notte. Gridavo per lui, per ogni rantolo che non potevo udire, per quel dolore disumano di cui crudelmente mi privava.
Quando quel martirio cessava, spesso avevo il suo viso tra le mie mani, ed allora lui ce la metteva tutta e, con gli occhi bagnati, mi sorrideva. Guardavo quel sorriso e stringevo ancor di più le mie mani sulle sue guance come per afferrarlo.
Avrei mai avuto fra le mani nulla di più di quello ?
Esisteva alcunchè di più grande di ciò che in quegli attimi cercavo di stringere?
Me ne stavo lì, in silenzio.
E mi sentivo Iddio.
Gli altri bambini rimanevano in silenzio. Nessuno fiatava ma potevo sentire i loro movimenti sotto le lenzuola.
Una mattina qualcuno, forse una delle sorelle, piazzò un paravento formato da due assi di legno foderati di tela davanti al letto di Theodor.
Lui non guardava mai nessuno in viso, anzi individuare l’oggetto del suo sguardo era impresa ardua, ma sin da quando varcai per la prima volta la soglia di quel reparto e mi lasciai alle spalle il portone di abete ebbi subito l’impressione che mi fissasse. Una mattina mentre con gli altri infermieri ci adoperavamo per cambiarlo e la sua testa penzolava in avanti oscillando avanti e indietro, notai un fatto alquanto strano. Io mi ero spinto fino ad un piccolo armadietto dall’altra parte della stanza e quando mi voltai all’improvviso verso lui per controllare se fosse il caso di cambiare la federa del cuscino mi accorsi che mi stava guardando. Mi fissava con un intensità che doveva costargli molte energie e non smise finchè non abbandonai la stanza.
La cosa continuò anche nei giorni successivi. Sembrava volermi dire qualcosa, o forse desiderava che intendessi qualcosa. Ma per quanto mi sforzassi di capire riuscivo solo ad accrescere la mia inquietudine. Mi ero addirittura convinto che si trattasse di una fissazione. Il suo sguardo non mi dava tregua.
Fu allora che mi resi conto di non aver mai ascoltato la sua voce.
Quella mattina lo intravidi dietro il paravento con il viso adagiato su un lato, con gli occhi fissi verso il bronzo del campanile. La fleboclisi stillava ancora.
Aveva nove anni. Ora la sua voce avrei potuto soltanto immaginarla.
Morì così.
Arrivò il Dottore e quell’attimo in cui le sue palpebre si distesero completamente mi sembrò eterno.
Quel decesso mi demolì. Continuavo a cercare con gli occhi Theodor. Scrutavo ogni angolo del reparto per incontrare il suo sguardo.
Sì, piccolo sì.
Forse ora capivo, forse ora intendevo tutto. Ma cosa?
La morte era di casa lì. Era solo questione di tempo. Non la morte, ma la vita si temeva in quel posto. Nessuno degli altri bambini se la passava tanto meglio. Quando giungevano al punto di non potersi più nutrire da soli, quando ingoiare la mollica del pane diveniva un feroce supplizio, allora toccava alle flebo. Il dottor Kogel preparava una soluzione di glucosio e la somministrava per via endovenosa. La morfina era pochissima, e non disponevamo di granché in farmacia. Qualunque cosa facessimo sembrava solo peggiorare la situazione. Il lunedì qualche chirurgo saliva su al reparto e rimaneva per ore a discutere a bassa voce col Dottore. Qualche volta venivano a prendere qualche bambino, specie quelli più piccoli, e lo portavano giù da loro. Alcuni tornavano dopo qualche settimana. Spesso non ne avevamo più notizia. I letti però non rimanevano vacanti troppo a lungo. I nuovi arrivi erano costanti. Quei pochi che potevano vantare un parente o magari una coppia di genitori non prendevano con grande entusiasmo il ricovero nel nostro reparto. I congiunti si invece. Forse credevano che il dottor Kogel prima o poi avrebbe vinto. Forse a loro bastava sapere che ci avrebbe provato.
Le sorelle, raggianti, mi raccontavano che in estate tutti coloro che erano in grado di farlo, scendevano in cortile ed il dottore li lasciava sguazzare nello stagno. Sù al reparto però, nonostante il caldo, occorreva chiudere tutte le finestre. Chi rimaneva su non doveva sentire cosa accadeva in quella pozza d’acqua piovana.
Il dottore non commentava mai un decesso. Firmava un modulo scuro, appuntava l’ora approssimativa della morte e lo passava alle sorelle affinché mandassero a prendere il corpo.
Una domenica ero intento nel rammendare una grossa coperta di lino, quando una improvvisa folata di vento mandò per aria tutti gli incartamenti che la madre superiore stava tirando fuori da uno scaffale. Il Dottor Kogel aveva uno studiolo al primo piano ma non credo vi fosse mai entrato. Aveva portato su il suo scrittoio e qualche altro mobilio e li aveva sistemati in fondo al reparto, dinanzi all’ingresso dei bagni, sul lato corto del locale. Accorsi immediatamente, e dovetti spingere non poco per chiudere quel finestrone.
Fuori si era alzato un vento fortissimo e ciò mi indusse a controllare e rafforzare il chiavistello di ogni apertura. Molti di quei fogli che il vento aveva sparpagliato dappertutto si erano bagnati e non fu facile rimettere tutto in ordine e ricopiare a parte i dati che rischiavano di divenire illeggibili. La madre superiore mi spiegò che occorreva compilare una copia di tutti quegli incartamenti perché gli originali erano stati urgentemente richiesti altrove. Non aggiunse altro in merito, né la mia curiosità ed il mio stupore per tale evenienza riuscì a scucirle mezza parola in più. Rimanemmo lì a copiare fino a sera, e la mattina dopo ricominciammo. Sin da bambino avevo sempre avuto una innata confidenza con i numeri, e si può dire che li vedessi dappertutto. Ogni numero che leggevo, che fosse un numero civico, una data di nascita o una serie casuale, si imprimeva indelebilmente nella mia memoria e potevo associarlo a qualsiasi altra immagine reale. Qualcuno mi aveva consigliato di sfruttare al meglio tale facoltà magari all’Università di *** dove in passato avevano studiato grandi matematici. Figurarsi in quella occasione, quando dovetti riscrivere centinaia di numeri e date.
Ma ci fu una cosa in particolare che mi colpì fin da subito.
Esaminando i referti dei vari decessi che si erano verificati in quel reparto, non potei fare a meno di riscontrare una circostanza alquanto anomala. Nell’ultimo anno si erano verificati ben tredici decessi nel reparto a fronte di una presenza costante di circa venti pazienti.
Più del doppio degli anni passati. Ma quel che più risultava inspiegabile ai miei occhi era che ogni trapasso si era verificato esattamente a distanza di ventotto giorni dal precedente. E così per ben tredici volte. Ventotto giorni, non un giorno di più o di meno. Certo la morte era sempre stata di casa lassù, ma questa perfetta regolarità mi sconvolgeva. Non ne feci parola con nessuno ma, di nascosto, cominciai a esaminare tutta la documentazione. Appuntai la mia attenzione sui referti e le cartelle cliniche di quei tredici decessi. Nulla sembrava lasciare adito a sospetti. Tutti erano naturalmente affetti dalle più disparate neoplasie ed il loro decorso ospedaliero, la terapia somministrata e ogni altra informazione sembrava perfettamente regolare. Come era solito accadere, tutti erano semplicemente spirati.
Di morte naturale.
L’ultimo era stato per l’appunto Theodor.
Mi arrovellai a tal punto su quella misteriosa circostanza che mi convinsi ancora una volta di essere preda delle mie consuete fissazioni. In una qualche occasione devo aver provato persino a parlarne con il dottor Kogel ma egli mi ignorò come al solito.
Cosa diavolo si nascondeva dietro quei numeri?
Passò qualche settimana e la dura realtà del lavoro quotidiano mi portò a stemperare i toni di quella ossessione. Proprio l’ultima arrivata in reparto, la piccola Julia, in quel periodo non ci dava tregua.
Aveva perso del tutto l’uso delle gambe e spesso nel cuore della notte strillava a squarciagola di voler scendere dal letto. Io cercavo di tranquillizzarla ma lei gridava con quanto fiato aveva in gola e non potevo far altro che attendere che si sfiancasse. Il suo urlo diveniva ben presto pianto a dirotto ed allora io cercavo di somministrarle una flebo di sonnifero o qualche altro prezioso tranquillante che fossi riuscito a rimediare dalla farmacia. Piangeva, ed il suo pianto debolissimo attraversava quella stanza buia in lungo e largo fino a spegnersi alle prime luci dell’alba.
Mi ripeteva di voler scendere dal letto ed io non sapevo più cosa dirle per calmarla.
“Perché vuoi scendere piccola? Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno ci sono qua io per te. Su dimmi piccola di cosa hai bisogno?”
“Voglio ballare”- mi sussurrava.
Vi erano altri due bambini che urlavano a gran voce di notte ma quel nuovo alcaloide, proveniente dall’America credo, aveva effetti miracolosi sui pazienti. Era simile alla morfina ma cento volte più potente. Bastava somministrane dieci o massimo quindici milligrammi diluiti in una soluzione salina. Purtroppo però ne avevamo pochissima. Riuscivamo a distribuirne una sola dose per notte, e ogni volta occorreva valutare chi ne avesse più bisogno in base alle urla della notte precedente. Quella notte era il turno di Andres. Non credo avesse più di tre anni ed i suoi lamenti non conoscevano distinzioni tra il giorno e la notte. La soluzione fece quasi subito effetto. Passarono solo pochi secondi da quando avevo disteso il suo braccio sinistro. L’ago entrò in vena al primo tentativo. Tutto il suo corpicino si rilassò e cadde in un sonno profondo. Lo lasciai dormire tranquillo dietro il paravento.Tutti coloro che non si lamentavano, o non lo facevano abbastanza perché potessimo sentirli, si rintanavano sotto le coperte sforzandosi di prender sonno.
Mentre guardavo Andres assopirsi, uno strano pensiero era affiorato alla mia mente.
La notte seguente sarebbe stata la ventottesima dalla morte di Theodor.
Avevo il turno mattutino ma una bizzarra idea brulicava nella mia testa già da qualche giorno.
Smontai nel primo pomeriggio. Tornai a casa, mangiai un boccone e appena si fece sera tornai all’ospedale. Mi appostai nel cortile, poi non appena vidi il dottor Kogel lasciare l’ospedale mi spinsi fin su al reparto. A chiunque toccasse il turno di notte, che non fosse riuscito a farsi trasferire, era d’obbligo restare a sorvegliare il reparto fino a qualche ora dopo la mezzanotte, poi quando la situazione si fosse normalizzata, era consentito recarsi di tanto in tanto al piano di sotto, magari ad occuparsi di altri reparti vista la carenza cronica di personale Di solito ci si incontrava con gli altri infermieri e con loro si attendeva l’alba, preoccupandosi di salire su al reparto ogni tanto.
Poco dopo mezzanotte riuscì ad intrufolarmi di soppiatto fin sulla prima rampa di scale che conduceva al nostro reparto. Mi nascosi all’interno di un angusto sgabuzzino che si apriva sul secondo pianerottolo e stetti lì a guardare attraverso la toppa della porta per circa mezz’ora. Prima vidi passare una sorella che, abbandonato il reparto, stava raggiungendo presumibilmente il suo alloggio. Poi passò il collega di turno quella notte e dopo qualche istante lo udì chiacchierare al piano sottostante. Convintomi che non ci fosse più nessuno raggiunsi il reparto. La situazione era tranquilla. Mi nascosi per qualche ora nei bagni, poi tornai ad appostarmi nello sgabuzzino. Mi trattenni lì fino a poco prima dell’alba senza notare alcunché.
Il mattino mi presentai puntuale al lavoro. Credevo di aver scacciato una volta per tutte quei fantasmi dalla mia mente visionaria e corrotta.
Ma Andres era lì, dinanzi ai miei occhi. Morto.
Erano passati esattamente ventotto giorni dalla morte di Theodor.
Con la scusa di ripulirlo per bene rivoltai più volte il cadavere di Andres alla ricerca di qualche segno. Esaminai ogni centimetro della sua pelle chiara. Nulla. D’altronde quella notte avevo vegliato io su di lui e su tutti gli altri. Che si trattasse di una altra assurda, beffarda coincidenza?
Tornai al mio lavoro di sempre cercando di scacciare ogni altra elucubrazione.
Era la morte, mi dicevo, che presentava regolarmente il suo conto a quelle piccole ombre.
Ma un pomeriggio seguente qualcosa accadde. Ero in bagno a ripulire alcune scodelle e d’un tratto fui sorpreso da un tonfo improvviso. Il paravento giaceva sul pavimento e aveva rischiato di travolgere la piccola Julia. Lo risistemai posizionandolo a distanza di sicurezza dal letto di Julia poi mi fermai a guardarla. Adesso non urlava più di notte. Era costantemente in uno stato di incoscienza e non si nutriva più autonomamente. Fu un attimo. E capiì.
Sentì il mio sangue raggelare.
Era giunto il turno di Julia. Sarebbe stata lei la vittima della prossima ventottesima notte.
Afferrai quel paravento e lo scagliai fuori con tutta la forza che avevo in corpo.
Appena ebbi modo di vedere la madre superiore cercai di trascinare la conversazione in modo apparentemente naturale su quel paravento. Dissi che non riuscivo a capire come potesse essere finito di sotto e che peraltro non avevo mai capito chi decidesse quale paziente ne potesse usufruire.
“E’ il dottor Kogel che decide.”- rispose immediatamente.
Era ciò che mi aspettavo di sentire.
Adesso conoscevo il segreto di quell’uomo. Forse lo conoscevo da sempre. Dovevo solo capire come agiva, e la ragione di quella scadenza infallibile. Il perché temevo di conoscerlo.
Iddio mi perdoni.
Ventotto notti dopo la morte di Andres ero nuovamente lì.
Questa volta avevo il turno pomeridiano e prima di smontare mi eclissai nei bagni.
Poco dopo mezzanotte saltai fuori nuovamente. Il reparto era deserto. Tutti dormivano silenziosi e non mi sembrava vero. Mi avvicinai alla piccola Julia, le passai una mano tra i capelli e ascoltai il battito cardiaco sul collo. Tutto normale.
Cominciai a chiedermi di dove sarebbe sbucato, come diavolo facesse il Dottore a tornare lì indisturbato.
Non riuscivo nemmeno a spiegarmi quale diabolico artificio utilizzasse per far sembrare naturale ognuna di quelle morti.
In quell’istante rividi quella smorfia del suo viso di tanti anni prima.
Dai vetri filtrava il riflesso della luna piena. Forse soltanto lei poteva conoscere quel segreto. Forse era proprio lei a guidarlo, lei che dalla notte dei tempi nasceva e moriva ogni ventotto giorni.
Decisi allora di sparire nuovamente nascondendomi nei bagni. Poi però scivolai silenziosamente lungo il pavimento gelido e mi sistemai sotto il letto di Julia.
Di lì potevo vedere distintamente la porta di abete dell’ingresso. Continuai a fissare in silenzio quella porta per alcune ore nell’attesa di vedermelo apparire all’improvviso.
Forse conosceva qualche altro trucco visto che ventotto notti prima era riuscito a gabbarmi. L’attesa si fece spasmodica e stavo quasi per addormentarmi quando accade qualcosa.
Sentii un confuso fruscio. Poi un rumore di passi. E poi ancora passi, e ancora… Rimasi immobile.
Poi d’un tratto vidi.
Tutti i bambini del reparto, o almeno tutti coloro che potevano camminare erano lì, in piedi dinanzi al letto di Julia.
Non avrei dovuto raccontare questa storia.
Io stesso ho stentato a credere per molti anni quello che vidi quella notte.
Ognuno di loro era lì. A turno si chinarono sul letto di Julia e le baciarono dolcemente la fronte. Delicatamente, senza svegliarla. Poi uno di loro sostituì la fialetta della flebo ed infilò l’ago in vena. Nemmeno io avrei saputo far meglio.
La morfina “americana” se assunta in dosi più massicce era letale. Provocava uno spasmo muscolare improvviso ed un conseguente collasso cardio-circolatorio. Una morte perfetta, senza alcuna traccia.
Ogni notte ne somministravamo una dose minima al fortunato di turno, ed ogni notte qualcuno recuperava quel milligrammo di sostanza che rimaneva depositata tra la bocca della cannula e l’ago della flebo. Come ci aveva spiegato il dottor Kogel : “Bastano ventotto milligrammi ad uccidere chiunque”.
La dose minima mortale. L’agognato premio per chi ne avesse più diritto.
La pietosa giustizia delle piccole ombre.
Il giorno dopo lasciai per sempre il reparto. E non avrei mai più spalancato nella mia mente perduta quel portone di abete fradicio se qualche giorno fa non fosse passata a trovarmi la madre superiore.
“Il dottor Kogel se n’e andato – mi disse – E’ morto stanotte.”
Dall’interno la sua casupola in collina mi sembrò ancora più piccola. Non c’era molta gente ad offrirgli l’estremo saluto. Passai per l’ultima volta le mie mani sul suo viso gelido, accennai un paio di carezze ed infine distesi lentamente le sue palpebre. Poi raccolsi dal pavimento di legno una fialetta americana e chiusi gli occhi.
“Ha bisogno di qualcosa?- disse una suora fissandomi inquieta.
“Voglio ballare”- risposi.