di Monica Gentile
“Lo sai che mi ha combinato quel gran cornuto di mio figlio? Si è messo assieme a una americana e mi ha pure detto che se la vuole maritare.”
“Biii. Allora che se ne va a stare a Nova Yorke?”
La Signora Pina e la Signora Lia si trovano sul 107. Come ogni giovedì mattina, stanno andando al mercato.
“A me quella zoccola proprio non mi cala” esclama la Signora Pina stizzita.
“E che ci vuoi fare? Fanno sempre il contrario di come gli diciamo noi. Altri tempi, questi. Macari il Signuruzzu ci faceva nascere adesso, no sessant’anni fa.”
“Meglio tu, che c’hai la nuora siciliana. Almeno vi capite.”
“Ma chi dici? Mia nuora? E chi ci parla. Con la scusa che travagghia, quella non c’è mai a casa, e i picciriddi sono sempre buttati da me.”
“E tuo figlio? Niente ci dice?”
“Mio figlio? Quello pure le camice si stira e cucina per tutti. Adesso fa l’uomo moderno.”
“Che pasta d’angelo. Un santo è.”
“E pensare che quando stava da me, non alzava un dito. Faceva il principe. Pure il colore delle mutande gli dovevo scegliere.”
“Guarda Lia. Due posti liberi. Sediamoci che non me la fido più. Con tutte ‘ste scaffe mi sta venendo di rovesciare.”
Sale il Signor Antonio, un vecchio con coppola e baffetti che si sbatacchia sulla prima sedia libera. Per primi minuti ascolta le chiacchiere delle due comari, poi si perde nei suoi pensieri. Lo sapevo io che non dovevo esagerare con la zuppa. C’erano fagioli grossi come pietre. Mi sento come una bombola a gassi. Forse se butto un pirito, zitto, zitto…
“Ciao, Antò, come andiamo?”
Il Signor Antonio, a chiappe strette, saluta l’amico e prova a dimenticare i problemi di transito intestinale intavolando una discussione sul carovita.
“Minchia ! Non se ne capisce più niente da quando ci sono ‘sti euri.”
“A me lo dici? Ni stannu sucannu u sangu.”
“Non ti preoccupare che tanto dura poco, ora li levano.”
Fermata davanti a una scuola. Un fiume di ragazzini sale sull’autobus che sembra la calata degli Unni. Il 107 si riempie all’inverosimile. Nel giro di un paio di secondi si sentono solo risate, schiamazzi e suonerie di cellulari.
“E smettila di toccarmi il culo, cretino che sei.”
“Era il mio zaino. Se voglio toccare un culo, mica tocco il tuo. E’ così moscio che ti sfiora le caviglie.”
“Ma la smettete voi due ? Invece passatemi un biglietto, che sono rimasto senza.”
Gli altri due ridono.
“Che c’è?”
“Sei l’unico coglione in tutta Palermo che fa ancora il biglietto.”
Altra fermata. Le porte si aprono rivelando un muro umano. Un signore rimane incastrato. Bestemmia. Nessuno scende. Le persone salgono a spintoni, pestando piedi e strizzando corpi. La porta della bussola si richiude con fatica. Adesso il 107 è così pieno che sembra un barattolo di acetelli sottovuoto, che se sviti il coperchio fa il botto. Il Signor Antonio trattiene il respiro. Dentro alle sue budella si è scatenato il Vesuvio prima di seppellire Pompei; sembra il terremoto che ha colpito l’isola di Sumatra nel sud-est asiatico. Minchia sto scoppiando, ma perché sto cazzo d’autobus deve avere tutto ‘sto tremolizzo. Alla fine non riesce a trattenersi e allenta un paio di scoregge che gli tremano le chiappe.
“Ma che è?” Domanda un ragazzino con i capelli scolpiti dal gel e il cellulare in mano.
“Che schifo, qualcuno si è cacato di sopra” risponde una spilungona con pantaloni inguinali e doppio strato di lucidalabbra.
“E’ fetale.”
“Ignorante, si dice letale.”
“Oddio si soffoca, io scendo.”
“Pure io !”
“Non resisto. Bussola !”
“Bussolaaaaa !!” esplode il coro.
Le porte si spalancano e l’autobus si svuota.
“Ma che succede, Pina ?”
“Niente, Lia. Sono scesi tutti. Ci deve essere il controllore.”