di Giuseppe Casa
Mentre rimettevo in ordine i vecchi files di paroledisicilia.it, questo racconto mi è ricapitato sotto gli occhi. Si tratta di un testo di Giuseppe Casa, autore tra i più originali e anticonformisti della scene letteraria nazionale. Pubblicato su Stilos e anche su questo sito (ma nella vecchia edizione statica) ho il piacere di riproporlo.(ma.mi.)
Negli anni settanta mia nonna fu costretta a lasciare la sua vecchia casa in centro per andare ad abitare nelle case nuove, tra la ferrovia e la statale. Non avevano un’ottima posizione, ma da lontano si scorgeva il mare di Licata. Le vie avevano nomi di città del nord in cui nessuno era mai stato. Via Rovigo, Via Vercelli, Via Bassano del Grappa, via Pordenone. Le case poi erano tutte identiche. Il suo appartamento aveva tre stanze. In una ci teneva le galline, che si era tirate dietro dalla vecchia casa, e dalle quali si aspettava molte uova. Le galline con gli spostamenti e tutto, non avevano una buona cera.
Erano malaticce e contrariate. Ogni tanto ne prendeva una e le tirava il collo. Io andavo a godermi lo spettacolo. Mi piaceva vedere le galline che si dibattevano, starnazzando, strabuzzando gli occhi, fino a quando non tiravano le cuoia. Le galline le odiavo.
Ciononostante la fede di mia nonna confinava con l’indecenza. Faceva dire messe a tutti i parenti morti, il venerdì mangiava di magro, osservava i digiuni. Segnava tutto su un calendario. Sembrava una specie di ragioniere. Nelle cose mistiche teneva una contabilità sordida. Anche la sua nuova casa era diventata una specie di reliquiario. In ogni angolo erano piazzate immaginette sacre delle madonne dei più sperduti santuari del mondo, crocifissi e cuori di gesù. Io mi divertivo a rincorrere le galline, le prendevo a calci. Lei cercava d’iniziarmi ai misteri della chiesa; teneva un collettivo femminile per il rosario.
La decisione d’essere cattolico era stata presa su due piedi dai miei genitori. Mi avevano battezzato. E la cosa andò avanti così.
Nella nostra famiglia avevamo all’attivo, una suora orsolina a Roma e un francescano a Ronciglione, che ogni estate arrivava come un uccello migratore con la sua seicento sportiva bianca. Negli anni sessanta nella fantasia dei giovani Licatesi c’era; prima il carabiniere, poi il prete. Ma già le cose stavano per cambiare. Per esempio, la figura del prete era balzata al terzo posto, dopo quella del calciatore e del carabiniere, inoltre, in quegli anni era nato il primo collettivo femminista; il primo circolo di lesbiche, mi disse Totò Curella, un mio compagno di scuola, il più grande della classe, che aveva quasi due anni più di me, e al cinema aveva visto pure “Gola Profonda.”
Totò Curella faceva parte di un mondo in cui ancora non avevo trovato il modo di entrare.
Mia nonna non andava mai al cinema, non poteva sapere che il mio modello era Bruce Lee, e una non ben definita seduzione del male, ispiratami dalla visione del film l’Esorcista.
Un giorno mi portò in chiesa, dovevo fare la prima comunione e voleva farmi conoscere il prete. Secondo lei dovevo fare il chierichetto. Io mi rifiutai. Mi diede centolire. Accettai. Andammo alla chiesa della Madonna del Carmine. Lì, conosceva tutti, era di casa. Mia nonna era un’ottima cliente. Le mistiche che pulivano la chiesa la salutarono con devozione, a me mi baciarono. A stento riuscii a trattenere il disgusto che provai per quelle vecchie rugose. Donne che non avevano trovato marito e si erano donate a Dio. Erano ripugnanti. C’imbattemmo nel sagrestano.
“Dov’è il parroco?”
“Ii…in cacaca…” Il sagrestano era balbuziente.
“In canonica!” finì mia nonna.
Il balbuziente assentì.
Il parroco era nuovo, sostituiva quello vecchio che era morto. Il parroco nuovo, era un prevosto, che sarebbe arciprete o qualcosa del genere, mi spiegò dopo, e veniva da un altro paese. Negli anni settanta molte chiese nel mio paese cominciavano a restare senza titolari, allora si ricorreva all’importazione di preti.
Il prevosto era sulla quarantina, con i capelli cortissimi ritti sulla testa e gli occhiali alla Woody Allen. Era un tipo irritabile, aveva la lingua sciolta e parlava così velocemente che a stento riuscivo a capire cosa dicesse. La figura del prete era un vero mistero per me.
Mia nonna ci lasciò soli. Ero molto preoccupato. Odiavo le confidenze.
“Come ti chiami?”
“Giuseppe.”
“Giuseppe D’Arimatea!” disse, e rise.
Io non capivo.
“Quanti anni hai?”
“Nove e mezzo.”
“Allora quest’anno fai la Prima Comunione?”
Feci sì con la testa.
“Vuoi servire la messa?”
Non dicevo niente. Mi ero messo a fissare una colomba alle sue spalle, che esalava spirito santo dal culo.
“Umh!” considerò. “Ho capito, sei timido.” Aggiunse.
Mi venne da pensare all'”Esorcista”; se ora mi giro la testa di trecentosessantagradi e gli sparo in faccia un bel montarozzo di lasagne verdi come la prenderà?
Mi portò in sagrestia. Era la prima volta che ci mettevo piede. C’erano stanze e corridoi pieni di mobili vecchi e puzzolenti, scale che andavano in giù, non so dove. Aprì un armadio e mi diede una divisa da chierichetto. Il sotto rosso e il sopra bianco. Quella era una cosa che volevo fare da un sacco di tempo, volevo vedere come ci stavo. La divisa mi veniva larga e mi cascava da un lato.
” Non ti sta proprio a pennello.” Disse, e mi lasciò solo.
M’aggirai per la sagrestia, con la divisa indosso, pronto a scattare per ogni pericolo. Conoscevo tre o quattro mosse di kung fu. Ogni tanto, girato un angolo, m’imbattevo contro un crocifisso. Lo trovavo già abbastanza mal messo. Scrollavo le mani, teso.
Arrivò il momento della messa. Era domenica. La funzione delle undici era stracolma di gente, in prima fila c’era mia nonna con un sorriso trionfante sulle labbra.
Stetti lì impalato per un’ora, versando l’acqua e il vino al momento giusto, cioè al segnale convenuto, al suo “Heeem!”.
“Bravo! Hai superato la prova.” Fece in sagrestia. Poi l’aiutai a svestirsi dei paramenti sacri. Aprì un tabernacolo con dentro una croce illuminata da piccole lampadine rosse, baciò la stola e la ripose dentro. Poi tolse tutto il resto. Ogni cosa che toglieva prima la baciava, poi la riponeva sulle mie braccia che tenevo aperte come per accogliere la grazia. Alla fine cacciò dalla tasca una grossa chiave, la inserì nella serratura dell’armadio. L’armadio non voleva saperne di aprirsi.
Dopo un po’ di prove, si spazientì.
Disse: ” Provaci tu.”
Gli passai gli abiti. Neanche io ci riuscii. La serratura si era inceppata o che. Il prevosto mi ripassò i paramenti, che stavolta accolsi con meno devozione. Provò ancora, con più impazienza. Disse che aveva fretta. L’armadio, che pure era grosso, stava venendo giù.
“Porcamadosca!” sbottò, dando un calcio all’armadio.
Si riprese gli abiti. Io stavo lì, con le braccia ancora aperte, vuote. Non sapevo cosa pensare.
Il prevosto si guardò in giro, puntò un vecchio tavolo, poi la sputacchiera di porcellana bianca che stava sotto. Mollò i paramenti sopra il tavolo, accanto ai fiori marci tolti dai vasi.
Uscimmo in fretta dalla chiesa, incrociammo il sagrestano che armeggiava con le corde delle campane, che appena ci vide fece “Sss…sss…sss…”.
“Sempre sia lodato!” rispose sbrigativamente il prete. Io non dissi niente.
Il prete montò su una Fiat ottocentocinquanta azzurra scintillante e partì per non so dove. Io m’incamminai verso il centro. Nel pomeriggio dovevo andare a vedere “Il Furore della Cina colpisce ancora.” Passai davanti alla sezione del Partito Comunista Italiano, era piena di vecchi seduti sulle sedie che parlavano di non so che, avevano delle pose da furbi, con le mani all’altezza della cintura, come se avessero qualcosa da mostrare da quelle parti. C’era quell’insegna di legno della falce e martello, con le lampadine rosse che la sera rimanevano accese. Mi chiedevo se ci fosse qualche collegamento con la croce che avevo visto dentro il tabernacolo della chiesa del Carmine. Sotto c’era un manifesto che annunciava il giorno dell’arrivo in paese del compagno Enrico Berlinguer. Io questo Berlinguer l’avevo visto in televisione e volevo conoscerlo.
Giuseppe Casa, licatese emigrato in continente, ha esordito con la raccolta di racconti Veronica dal vivo (Transeuropa, 1998) ripubblicato nel 2004 da Baldini e Castoldi Dalai. Sempre con Transuropa, nel 1999 ha pubblicato In questo cuore buio. Nel 2002 ha pubblicato il romanzo La notte è cambiata per Rizzoli editore.