di Giovanni Nurcato
Ancora uno dei racconti finalisti del premio letterario Racconti di Primavera. Una storia nera nera di Giovanni Nurcato. Una piccola perla, a mio parere. (ma.mi.)
– Jeff, figlio mio, per me tu sei scemo cronico. – Mi disse quel rompicoglioni, proprio qui, in quest’orecchia. Mi pare di sentirlo ancora adesso.
– Se tu non cambi indirizzo, Jeff, il tuo destino è certo, lode a Dio, non potrai che passare da un guaio all’altro. Te lo dice tuo padre.
Te lo dice tuo padre mi faceva con quel suo faccino di santo dell’etichetta del rosolio.
Te lo dice tuo padre mi faceva quand’era in vena di quei predicozzi scioglipancia.
Per un momento feci finta di nulla poi, di scatto, nonostante avessi un tris, buttai per aria le carte e gli sferrai un pugno. Era svelto il vecchio, se non l’avesse schivato l’avrei ucciso. L’avrei ucciso di sicuro.
Mi gonfiò come una cornamusa.
Furono tante le botte che mi buscai, che gli amici anziché lanciarmi dirimpetto nella mondezza, come prescriveva la regola del bar per i perdenti delle risse, pietosamente mi adagiarono di canto all’ingresso, fuori sul marciapiede. Accidenti a quell’animale dovunque, paradiso o inferno, egli sia!
Che vergogna, in quel bar non potei più entrarci, pensate che un tale, particolarmente sensibile alle vigliaccate, mi offrì anche da bere.
Torna a casa, mi facevano, torna a casa sennò papino te le suona… torna a casa, fai il bravo bambino e giù, tutti a ridere.
Non ebbe torto però quel giorno il menagramo, la mia vita effettivamente non è stata che un mare di guai, un mare e, ironia della sorte, è proprio qui, nel mare, che è finita.
Il mare, PHUÀ! Acqua sale e merda.
Bisognerebbe diffidare del mare, sempre, e invece la gente ci ricama sopra fiumi di stronzate. Davanti al mare diventano tutti poeti, diventano.
Un giorno sentii dire a una tizia che il mare riusciva a vederlo addirittura negli occhi del suo ragazzo. Io lo ricordo bene quel tipo e posso garantirvi che negli occhi non aveva altro che pupille, due pupille, come qualunque altro cristiano. La rividi, un giorno, quella matta, in una clinica per alcolisti, era nella camerata di fronte alla mia. Non mi riconobbe nemmeno. Evidentemente aveva smesso di cercare il mare negli occhi della gente e aveva preso a cercarlo nel fondo delle bottiglie di gin da due dollari e quaranta la pinta.
Per quanto l’avessi sempre odiato, il mare dico, tutto avrei pensato fuor che ci sarei crepato dentro. Eppure qualcosa in comune io e lui l’abbiamo avuta, anche la mia vita non è stata che una successione di onde.
Onda su, cioè grana.. amici, gente, donne.
Onda giù, cioè bolletta… il vuoto assoluto!
Ce l’ho sempre messa tutta, credetemi, per tentare di riuscire in questo schifo di vita, di farmi una posizione ma, posto che io fossi stato uno scoglio, infrangendosi su di me, il mare della vita, anziché spuma non ha sfrizzato che piscio.
Non me n’è mai andata bene una.
Una sera, tanto per dire, credo sia stato nel sessantadue, come al solito ero occupato a riflettere sul da farsi poiché, urgentemente mi servivano soldi. Dei tizi a cui li dovevo, mi avevano promesso che se non glieli avessi restituiti per le dieci dell’indomani, m’avrebbero privato di tutte e due le rotule. Tutte e due, ci pensate?
Duemila verdoni. Mille biglietti a rotula. Niente male no?
Mi si accende la lampadina, la mia solita lampadina del cazzo.
Mi armo di pazienza, e di una vecchia baionetta giapponese di ferraccio nero, e vado giù in strada a tentare di mietere il grano. Questo porco mondo e le sue stranezze mi costringevano ad indebitarmi e chi altri se non i suoi abitanti, volenti o nolenti, dovevano aiutarmi a pagare? Ammetto che, per taluni, posso essere stato criticabile, ma io, nella mia vita, l’ho sempre vista così. Questa, sin da ragazzo, è sempre stata, porco di un Giuda ladro, la mia filosofia.
Mi piazzo, vi dicevo, all’angolo del viale alberato, a due isolati da dove abitavo al tempo, a San Bernardino, e aspetto il primo pollo in transito per torcergli il collo e spennarlo. Sulla carta doveva essere un gioco da educande. Mi acquatto, quindi, contro il muro, in un triangolo di buio dove non arrivava la luce del lampione, e attendo. Finalmente vedo uno che mi si fa incontro, cappello sugli occhi e mani nelle tasche del paletot. Impugno la baionetta, trenta centimetri di lama cariata dalla ruggine e, come il merlo mi arriva in posizione, balzo fuori e gliela punto in una narice.
Fu quella la sera che capii che lassù, in cielo, nessuno mi cagava.
Bing Dailer, detto Bang Bang, settantanove incontri, settantacinque vinti prima del limite di cui una buona metà non oltre la quarta ripresa, lo riconobbi subito. La sua faccia, gonfia e ricucita come un pallone da rugby, era inconfondibile.
Mi salvò la mia prontezza di spirito.
– Vendo questo chicca, amico. È autentica, guarda. Giapponese autentica. È appartenuta a Ivan il Terribile in persona, il più famoso imperatore della dinastia dei Ming.
– Ming? – Mi fa. Avevo toppato. Per l’emozione avevo toppato e lui, il Satanasso, se n’era accorto subito. Era più svelto di quel che supponessi.
– Ma quella gente, quei Ming… – mi fa – non erano cinesi…? E poi Ivan che? Come si chiamava quel tale? –
– Cinesi, giapponesi, ma perché tu li riconosci? Che stiamo qui a cincischiare, amico? – Gli rispondo confidenziale. – Valutiamo l’oggetto per quello che è, no? Mica stiamo a sottilizzare sulla provenienza? Guarda che meraviglia piuttosto… Ehi, ma tu sei Bing Dailer. – Gli faccio, fingendo di riconoscerlo solo in quel momento. – Tu sei Bing, amico… –
– Già, già – Rispose lui, visibilmente seccato mentre mi infilava due dollari nel taschino della giacca passandomi avanti per tirare dritto.
Due dollari, due miserabili dollari, ci pensate?
Il cuore mi strapiombò nei coglioni.
A quel punto pensai che se chiodo scaccia chiodo, anche prestito doveva scacciare prestito. Il tempo intanto passava.
Le rotule, ricordate?
Andai allora giù al porto a tentare il borsellino di quelle due mezze seghe dei fratelli Winner ma, anche lì, feci un buco nell’acqua. Non c’è più amore per il prossimo e quello fu il momento in cui lo capii bene. Non ci fu nulla da fare con quelle carogne. Dice che non offrivo sufficienti garanzie. Mi avviai al rientro, quindi, costeggiando la banchina, deluso della mancanza di umanità della gente e non senza considerare che altre due ore erano infruttuosamente passate. All’improvviso un cinese, un cinese del cazzo, zompato fuori da chissà dove, armato, non ci crederete, di una baionetta americana, un ferrovecchio della seconda guerra, mi depreda degli ultimi dodici dollari che avevo e dell’orologio. E non è tutto. Prima di scappare quel verme, con un calcio nei pendenti, mi schiaffò nell’oceano gelato, e nel punto peggiore. Caddi proprio nei pressi di uno scarico di fogna, dove l’acqua era limaccio, una mescola di alghe mucose e puzzolenti liquami galleggianti. Anche le pietre della murata, rese lisce da quell’acquaccia sporca, parevano burlarsi di me impedendomi la risalita. Questi i particolari dai quali cominciai a desumere tutta la malvagità del mare. Perché rende lisce le pietre e gli scogli? Mi sapete spiegare perché, se non per complicare la vita a chi, malauguratamente, gli cade in grembo?
Tentavo di risalire il fronte della banchina, con le dita nelle crepe fra i lastroni di pietra, ma inesorabilmente scivolavo nella melma con delle toppe di muschio traditrici, sotto le unghie, grosse così, che si staccavano proprio sul più bello. Anche i topi, bestiacce lunghe come un avambraccio, quella volta sospesero i loro frenetici mestieri notturni per farsi due risa alle mie spalle.
Come finì?
La mattina, quella mattina, alle prime luci, io e le mie rotule, svisciammo via dalla città senza farvi più ritorno per un bel pezzo.
Non avendo alcuna meta precisa pensai di tornare dai miei per un periodo di riflessione. Sopravvissi per un po’ impegnando, non senza dover faticare per contrastarle, quel poco che possedevano mia sorella e la mamma. A quel tempo, come sempre d’altronde, facevo il pendolare dal mare ai monti. Dal mare dei guai, nel quale perennemente nuotavo filavo ai monti di pietà, dove trovavo quel minimo di ristoro per le mie quotidiane esigenze e viceversa. Ma anche lì finì presto. Dopo la quarta denunzia di quelle due fui obbligato, dalle autorità locali, a tenermi fuori dal primo miglio intorno alla loro casa.
Ero arrivato al lumicino, dovevo darmi da fare, metter su qualcosa di serio. Non potevo andare avanti così.
Comprai allora, per cinquemila dollari, due ragazze estoni da un orribile ucraino. Un tipo più viscido di un’anguilla insaponata. Gentaglia quelli dell’est, bisogna conoscerli, averci a che fare, per capire di che pasta sono fatti. I miei conti erano precisi, matematica pura. Quelle due avrebbero dovuto rendermi, a trenta dollari la marchetta, di cui cinque a loro oltre il mangiare e il dormire, non meno di duecento dollari al giorno. Venti, venticinque giorni e, rientrato del capitale, avrei potuto cominciare a ciucciare l’utile. Per il denaro, i cinquemila, avevo sessanta giorni per restituirlo. Ero a cavallo. Tutto calcolato. Un piano da ragioniere consumato. Tutto previsto al millesimo. Non avevo computato però il fattore perfidia, la falsità insita nelle più microscopiche porosità della natura umana, specie dell’umanità dell’est. Non vi fidate mai di quelli dell’est, gente, è pura merda! Ricordate, non vi fidate del mare e di quelli dell’est. Mai!
Quelle due troie, una mattina che passeggiavano sul lungomare ad adescare gonzi tra i perdigiorno distesi sull’arenile a rosolare le natiche al sole, furono avvicinate da uno strano tipo. Un omaccione distinto, che scoprii dopo essere un prete cattolico, in vacanza da quelle parti.
L’uomo, premesso che si dichiarò non interessato alle grazie che esponevano, chiese loro se potevano procurargli, previo un cospicuo dono, un bel culetto maschio, possibilmente inusato, per soddisfare certi suoi appetiti. Tira di qua, tira di là, fuori d’ogni metafora, il panzone si disse disposto a sganciare fino a millecinquecento dollari per tutto il lavoretto. Per duemila il trio si accordò. Le serpi allora, con una scusa, mi chiamarono, facendo in modo che le raggiungessi immediatamente sul posto e, senza neanche farmi scendere dalla macchina, con le moine di cui solo le troie sono capaci, riuscirono a farmi ingollare una mezza bottiglia di aranciata nella quale avevano disciolto un flacone intero di un potente sedativo.
Come fini?
Se ci penso mi dolgono ancora le chiappe.
Da allora quelle due non le rividi più. Seppi solo che con i soldi avevano cambiato stato e, probabilmente, anche vita. A me, invece, rimasero un biglietto di spiegazioni e ringraziamenti in una tasca, l’onta e un debito di cinquemila dollari, più gli interessi, con Nat Vitali e i suoi ragazzi.
Tutto questo, notate le coincidenze, accadeva ancora a mare, vicino al maledetto mare…
Cominciate a capire come, nelle sue prossimità, i miei guai tendevano ad acuirsi?
Di nuovo dovetti mettere, tra San Diego e me, quattro, cinquecento, salutari chilometri, per salvare la pelle e quel che mi rimaneva del culo. Dopo un po’, da quell’ennesimo tonfo, mi imposi, come sempre mi capitava quando toccavo col grugno il fondo del water, di mettere la testa a posto. Me lo imposi!
Campai per un po’ facendo l’allibratore in una sala corse, ma i cavalli sono brutte bestie e non ci si può fidare. Per la verità non ci si può fidare neanche dei veterinari d’oggi. Un certo Serge Saggese, mio socio in affari a quel tempo, alla fine capii che non faceva che estorcermi denaro, e a pacchi, per degli intrugli che diceva miracolosi. Bubbole!
Sono bestie strane i cavalli, ve l’ho detto. Reagiscono alle droghe ognuno in maniera diversa e, quando sei certo di come dovrebbero andare le cose, in pista, improvvisamente, ti si cambia miseramente la scena e finisci nella merda senza possibilità di appello.
Poiché, se i fatti andavano per il verso giusto Saggese tendeva la mano e, se andavano storte si dava alla macchia, il vigliacco, me lo tolsi dalle balle e cambiai mestiere. Rimasi comunque nel settore. Le bestie hanno sempre avuto un certo ascendente su di me. Dopo un po’ di conti, passai ai cani.
I pit bull, mi dissi, i cani sono i migliori amici dell’uomo e per un bel po’ riscontrai, nei fatti, che la cosa rispondeva al vero. Drago,il mio Drago, distruggeva gli avversari in tempi da record. Negli altri cani non vedeva nemici, ma cibo, grasso, succulento cibo. Era letteralmente pazzo. Ammirarlo all’opera era un piacere, mi faceva aumentare la salivazione, mi euforizzava, mi dava dei fremiti svibracchianti mai più provati.
Un certo Luc Di Costanzo, dei Di Costanzo di New York, saputo del mio cane, mi lanciò una sfida i cui esiti, se positivi, avrebbero potuto dare un’energica anabolizzata alle mie sempre barcollanti finanze. A suo dire Drago non avrebbe resistito per più di due riprese da cinque minuti al suo Blackman, un red-nase che aveva importato di fresco da quel suo paese di merda. Ne era così certo che metteva in palio ventimila cocuzze per dimostrarlo. Fu Ronny il turco che si prestò per finanziare l’operazione.
– Vai – Mi disse. – Portami la grana e, soprattutto, le orecchie di quella pecora travestita da cane. Poi il caro Luc me lo ammollo io…
Ronny odiava gli italiani in generale e Luc in particolare. Aveva i suoi buoni motivi, vecchie storie di cani e danari nelle quali, per correttezza, non volli mai entrare.
Quella sera, gasato dal credito guadagnato con nient’altro che col mio nome nell’ambiente, la mia professionalità, e da tutto quel denaro, decisi di festeggiare, giù all’imbarcadero, allo Sharky Bar. Ma avevo dimenticato qualcosa: lo strafottuto mare.
Il mare. Ancora una volta l’entusiasmo m’aveva fatto trascurare il fattore mare. Eppure non è che pretendessi chissacché, un bicchiere in compagnia, pesce fritto, giusto per fare un po’d’allegria, nient’altro. Ma che volete, la carne è debole, l’aria di mare, ve l’ho detto, mi portava male, e anche quella sera accadde quel che non avrebbe mai dovuto accadere.
Di fronte al mio tavolo c’erano quattro slot machine lucide, belle, sfavillanti, con tutte le lucine colorate squicchiettanti che ammiccavano. Una in particolare rossa, luminescente, pareva aver subodorato che ero carico e mi stuzzicava. Sapevo che le rosse le fa il demonio ma accettai la sfida, non mi sono mai tirato indietro alle sfide io. Mai!
Alle quattro del mattino, porco d’un Demonio ladro, non solo non avevo più un soldo ma dovevo alla cameriera centoventicinque dollari per il bere e trenta per un lavoretto che mi ero fatto fare dietro il tendone di velluto blu del guardaroba. Infuriato, allora, mi feci indicare l’ufficio del direttore per dirgli in faccia che lì qualcosa non andava e me ne ero accorto. Cazzo se me n’ero accorto! Ero un intronato ma non fino al punto che sperava lui, il figlio di puttana. Quel boyler di latta colorata aveva il trucco, non c’erano santi, ci avrei messo il pisello sul fuoco!
Il direttore era un inquietante travestito, uguale spiccicato a Robert Mitchum, Robert Mitchum in tailleur rosso, col rossetto e i tacchi a spillo, ve lo figurate?
Non ricordo cosa mi accadde all’improvviso, so solo che, ancora una volta, fu il gelo dell’acqua a risvegliarmi. Ormai pareva il mio destino quello di fare di tanto in tanto un voletto tra gli umidi e fluttuanti riccioloni di Nettuno.
Fu quel mattino che conobbi Jenna Lee. Faceva parte del gruppo di volontari del pronto soccorso. Quei pazzi, insomma, che, per nulla, vanno raccattando dalla merda i tipi di merda come il sottoscritto. Cresciuta tra istituti per opere pie e collegi, Jenna Lee s’invaghì follemente di me. Diceva che le rappresentavo un certo ideale di uomo che aveva sempre sognato, la trasgressione, un mondo romantico, nuovo per lei, la porta di un’altra dimensione… cazzate di questo genere. Le donne sapete, no, come sono? Questa in particolare era più matta del normale, in compenso però aveva il grano e scopava niente male.
Ronny il turco, nel frattempo, saputo come erano andate le cose, giù allo Sharky, non rimase con le mani in mano. In cambio dei suoi ventimila, considerando che nel caso della vittoria di Drago sarebbero dovuti diventare quarantamila, pretese per sé non solo il cane ma tutto l’allevamento che avevo messo su con tanti sacrifici, box e attrezzature compresi. Mi sequestrò, quel pezzo di merda, anche una Aston Morris del settantacinque, bella come una tris vincente, che avevo tolto, per pochi soldi, ad un tale in asfissia danaristica. Valore diecimila pezzi. Ancora cinquemila, glieli pagai con il ricavato di una truffetta ad un’assicurazione che avevo organizzato tempo prima con un tale, un certo Anthony Carannante, altra vittima dei cani, quelli da corsa però, e definii il saldo in una settimana di scopate con Jenna, la mia Jenna. Ci adoravamo, era un tesoro quella ragazza. Si sarebbe gettata nel fuoco per me.
Jenna, devo dire, riuscì a trasformarmi in un uomo nuovo, mi tirò a lucido e mi trovò addirittura un lavoro in parrocchia. A quel punto delle cose le dovevo veramente tutto.
Diventai molto amico pure di Glenn, suo marito, anche lui impegnato a recuperare scarti di pista, a tentare di mutare materiale vermico in materiale umano. Diventai irriconoscibile. La domenica mattina cravatta, capelli impomatati all’indietro, chiese e sermoni. Il pomeriggio, con Glenn, tosare il giardino e lavare l’automobile. Emozioni da brivido… a non finire… Scherzi a parte era veramente una vita di merda, ora però aveva un senso. La mia giornata ora, grazie a Dio, era simile a quella dei tanti mister Smith di questo cesso di mondo.
Per anni mi ero trapanato la cocuzza con la fissa che il mare mi portasse sfiga, che ce l’avesse con me e invece era proprio da lì, dal mare, che erano sbucati quei due angeli del Paradiso.
Ora avevo tutto, una casa, cibo, figa. La sequenza negativa, innescata dal mare, se mai c’era stata, era bella che terminata. Stamattina invece, proprio stamattina, per tutti i santi, Big-Bagnarola ha deciso di farmene un’altra, quella definitiva.
Il traghetto che portava Glenn al lavoro, per il maltempo, non è partito e, quell’idiota, si è ripresentato a casa all’improvviso.
Cazzo, dico… vuoi fare una telefonata? Che modo di comportarsi! È entrato in casa, senza alcun preavviso, come un bufalo nella stalla. A ben pensarci chissà che già da un po’ non subodorasse qualcosa…
Non vi dico che occhi ha fatto quando mi ha visto nudo come un wurstel accanito sulla moglie come un macaco in calore. Nonostante lo pregassi di non fermarsi alle prime impressioni, le pupille gli si sono venate di rosso. Ad ogni manrovescio facevo due metri all’indietro. A pugni e calci quel pazzo mi ha fatto fare a ritroso, come un gambero, tutto il pontile sulla laguna fino a che, con un diretto finale, non mi ha sparato in acqua.
L’ultima cosa che ho visto quando sono riemerso è stato il buco nero della canna del suo fucile da sub da cui è saettato l’arpione che mi ha ucciso. Ho sentito entrare quell’arnese appuntito proprio qui, nel morbido del cavo dietro la clavicola. È sfilato giù, come nel burro fuso, trapassandomi il mantice destro. E diceva di essere il mio migliore amico, quella bestia, quell’animale.
Ora guardo il pelo dell’acqua dal lato delle radici, dal lato della morte, disteso su questo fresco letto di alghe slinguettanti. Visto da qui, il mare, devo dire, non mi fa più paura. Adesso che mi è dentro e fuori ho quasi l’impressione che poi non mi volesse così male. Come quei cuccioloni rompiballe era solo un po’ troppo espansivo. Pareva me ne organizzasse una ogni qualvolta mi accostavo a lui. Mi faceva sentire come il sorcio col gatto e invece mi sbagliavo, era tutt’altro, ora lo so.
Si dice che noi altri veniamo dal mare no? Evidentemente per quel che è ancora tracciato, nelle molecole di qualcuno, dei tempi in cui sguazzavamo nella sua pancia, io in questo caso, il bestione conserva una memoria e un affetto speciali. Oggi questo pazzerellone troppo festoso, nonostante non ne avessi alcuna volontà, dopo tanti infruttuosi tentativi, complice involontario quel matto, ha raggiunto il suo scopo: s’è potuto finalmente riappropriare di me.
Carogna d’un Glenn, tutta colpa sua.
Amici, vatti a fidare degli amici.