di Giorgio Morale
Mi scrive Giorgio: “In questi giorni, stimolato dall’arrivo della primavera, ho rimesso mano a un brano di uno dei miei romanzi inediti, “L’ora del caldo”, che è un proseguimento delle storie di Paolo iniziate in “Paulu Piulu”. Te lo mando. Grazie e a presto. Giorgio”
Bene, festeggiamo allora l’arrivo della primavera con “Annella”, di Giorgio Morale. (ma.mi.)
In primavera questa storia ha un’impennata, benché tutta chiusa nell’ovale del cuore. E’ l’impennata della primavera siciliana, accesa, precoce. Paolo rivede ancora, suo nunzio e vessillo, il mandorlo, primo a fiorire. I petali bianchissimi erano percorsi da venature rosee, quasi una fiammella che alimentasse quel biancore incontenibile. A febbraio, quando il vento spargeva i delicati petali nella campagna che attendeva la primavera, avresti detto che tutta la natura si struggesse al fuoco di quella fiamma. Che tutto il mondo fosse pervaso dalla promessa di un amore ugualmente incontenibile.
Paolo osservava tanti se stesso, che tutti volevano vivere, ma aveva dato la supremazia a uno solo. Gli sembrava di essere contemporaneamente il soggetto e l’oggetto di un esperimento. Solo con Orazio poteva continuare i discorsi che faceva con sé e l’oggetto di queste conversazioni era sempre Annella. Alla fine Paolo non faceva che parlare di sé. Annella lo rivelava a se stesso, egli la scopriva in sé. Paolo non sapeva perché, non sapeva come, ma parlare di lei con Orazio aveva scosso ciò che covava sotto la cenere. L’amore s’era ridestato e urlava come un cane rabbioso.
I progetti moltiplicavano la vicinanza di Paolo e Orazio, il retroufficio veniva proiettato nel futuro: avrebbero abitato due appartamenti nella stessa casa, le amate sarebbero state amiche, in un confronto quotidiano avrebbero prodotto capolavori.
Bella, bionda, con gli occhi verdi: una dea.
Quando parlava e quando sorrideva, quando indossava una bella veste e quando le mani accarezzavano i capelli: tutto sembrava fosse fatto per lui. Quante notti passate inscenando conversazioni con lei; quante poesie per lei scritte e riscritte, trascurando ogni altra cosa; quanti biglietti da lui mai spediti e da lei mai letti. Né potrà mai dimenticare le avventure degli sguardi. Quando guardava nella sua direzione non c’era dubbio che il suo sguardo fosse rivolto a lui. Per giorni e giorni Paolo ricordava sguardi dati e raccolti, una lunga, muta corrispondenza. Sassi che il destino seminava sul cammino del suo amore. Anche quando Annella non lo guardava, Paolo era sicuro che lei lo faceva volutamente, per non tradirsi. Salvo poi scoprirsi in un gesto o un’allusione. Perciò, anche se non le diceva quanto avrebbe voluto, a Paolo sembrava ci fosse ben poco da dire, quando incontrava il suo occhio chiaro.
L’amava. Questa evidenza annullava tutti quei giochini idioti che chiamano corteggiamento. L’amore gli avrebbe guadagnato l’amore. Eppure! Perché quell’indifferenza da parte sua? Era come chiedersi: perché il male, se Dio è buono?
Quello era solo e veramente un soffrire? No, era anche un godere, un risorgere della vita. Prima di dormire Paolo guardava il cielo; stringeva, grato, un ultimo patto col mondo che aveva visto nascere il suo amore; poi s’immergeva nel sogno, dove riviveva gli eventi del giorno.
“Lei non è la ragazza per te” gli diceva Orazio.
“Perché, se io l’amo?”.
“Tu l’ami, ma lei non ti ama”.
“Non mi ama adesso, ma prima o poi mi amerà”.
“Prima o poi non è lo stesso. Prima o poi chiunque finisce con l’amare
chiunque”.
Per completare l’opera di dissuasione Orazio esponeva la sua teoria dell’amore.
“Io non credo nell’amore. E’ una fissazione, da cui si guarisce quando si capisce che l’uomo e la donna cercano la stessa cosa: il piacere che possono trovare l’uno nell’altra”.
Ed elencava la lunga serie dei suoi amori, magnificando l’eccellenza di ognuno e concludendo che nessuno poteva aspirare alla qualifica di “assoluto”.
A Paolo sembrava di conoscere Annella da tanto tempo, di sapere tutto di lei. Eppure cosa ne sapeva? Nulla.
Erano finite le lunghissime giornate dell’infanzia, quando innumerevoli erano i colori del mondo. Adesso tutto il mondo si sintetizzava in una cosa sola e nel pensiero di lei volavano i giorni.
Il bisogno di mettersi in mostra, di fare il pagliaccio dell’adolescente innamorato; l’amore per il grande, l’aspirazione allo smisurato, che rischiano di continuo il ridicolo.
Quando guardava gli altri, a Paolo pareva che interpretassero un rituale da salotto e che solo a lui succedesse di vivere l’amore con una furia che non aveva nulla di cerimoniale.
Davanti a lei qualsiasi argomento veniva meno. Era come se l’immagine ideale non riuscisse a ricongiungersi con quella reale, quando Paolo si trovava di fronte all’idolo venerato in solitudine; e, mentre il cuore anelava
la vicinanza, l’immaginazione reclamava la distanza.
Le conversazioni con Annella. Che pena! Qualsiasi cosa Paolo potesse dire, lo tradiva.
Alternava silenzi impacciati ad audaci cortesie ed esibite spavalderie.
Un giorno, si diceva, sarà possibile parlare con una donna come con se stessi; le parole non s’affolleranno tutte insieme impedendo l’una all’altra di uscire; e aprir bocca non sarà incespicare, perché il discorso nascerà col vestito appropriato; né una confessione sarà un salto nel vuoto; e la presenza dell’amata non cancellerà le parole dalla mente, come la spugna dalla lavagna.
Annella gli piaceva di più quando taceva pensierosa. Allora Paolo pensava che anche lei aveva una grande anima e le chiacchiere degli altri gli sembravano poca cosa. Lo diceva a Orazio, lo ripeteva fino alla noia. L’unione di due anime gli sembrava realizzata. E un’unione perfetta può mai rompersi? Un momento di verità, cancellarsi? Due stelle sono mai sole? La loro luce potrà mai spegnersi? Non è vero che viaggia verso spazi lontani e, raggiunta l’estremità del cosmo, ritorna indietro e riversa i suoi raggi sul tutto?
Di Annella Paolo si era confezionata un’immagine che credeva di dover difendere innanzitutto da lei stessa.
Tutto quello che di peggiore si potesse dire di lei, proprio quello eccitava maggiormente l’amore di Paolo. A maggior ragione, era per quello che il suo amore aveva senso.
Non c’era niente che lei potesse fare che impedisse a Paolo di amarla; non c’era niente di negativo in lei, da cui il suo amore non potesse salvarla.
Quello che prima aveva reso Paolo felice, pensare “Io l’amo e lei lo sa”, adesso lo lasciava indifferente.
Le notti furono insonni. Paolo si sorprendeva a contare le ore e, di conta in conta, accompagnava il giorno vecchio nella conclusione e nella nascita il nuovo giorno. Intanto si rivoltava nel letto e componeva frasi e versi nella sua mente.
Andava alle feste a casa di Orazio come a stuzzicare un mostro nella tana. Ed era tanta la forza del mostro, che lo confondeva: Paolo si dimenticava di se stesso e si reputava il più miserabile degli uomini per non essere brillante in balli e conversari. Ammutoliva e finiva col rifugiarsi nei salottini, nel giradischi, nella sigaretta.
Un giorno Paolo ballò con Annella.
“Vuoi ballare?” le chiese.
E di colpo svanì ogni timore, ogni presagio. Sciolto dalle catene del temperamento, Paolo non pensava agli altri, diventati uno sfondo confuso. Dopo qualcuno propose un gioco: fissare gli occhi dell’altro; perdeva chi rideva per primo. Paolo e Annella si trovarono di fronte. Fu subito chiaro che nessuno dei due avrebbe ceduto. Erano intrappolati: nessuno rideva e nessuno riusciva a distogliere lo sguardo. L’espressione di Annella passò dalla malizia alla spavalderia a un’apertura totale; alla fine fu del tutto disarmata. Era Paolo a sentire o Annella a comunicare? Gli occhi erano lì, terribili e belli, poi solo belli. Si fece silenzio intorno, tutti si chiedevano cosa stesse accadendo, mentre Paolo passava dalla paura all’imbarazzo alla felicità. Era ciò che aveva sempre cercato, un parlare silenzioso con Annella. Non ci furono vincitori. Furono gli altri a porre termine al gioco. Ebbero riguardi per Paolo e Annella e li fecero sedere vicini. Li curavano, li coccolavano. Per tutta la sera Paolo fu come stordito. A ripensarci, gli sembra di non aver più aperto bocca.
Orazio faceva di tutto per mettere Annella in cattiva luce.
“Mi ha parlato molto di te” diceva a Paolo. “Mi ha detto che ti ama; ma parlando mi lanciava occhiate assassine, che promettevano quarti d’ora indimenticabili, se avessi voluto”.
Oppure: “Il tuo amore può fare a meno di lei” diceva Orazio a Paolo. “Lei è il frutto di un’idea e tu il suo creatore”.
“Perché sei così pessimista?” gli domandava Annella.
E Paolo non sa cosa rispondeva: forse che è dolore la vita e non bisogna temere il dolore; che è da vili volersela figurare a tutti i costi bella. Ma lei era solo un chiaro grande sorriso e sembrava non capirlo, e in quella vicinanza persino essere incompreso da lei sembrava a Paolo un privilegio, e il dolore impallidiva come un frutto delle solitudini libresche. Gli altri, che le parlavano sempre, vivevano sempre in quello stato di beatitudine?, si domandava Paolo. Oppure quello era il privilegio dell’amante vicino all’amata? Paolo ricorda che si sentiva stampato in faccia un sorriso ebete, che l’attività dei muscoli facciali doveva faticare non poco a trasformare nell’abituale corruccio.
Lei diceva che sentiva in sé l’istinto di essere felice, che avrebbe voluto far volare i suoi cari, perché si credeva un po’ pazza, e volare anche lei. L’istinto di essere felice! Paolo coglieva nelle parole di Annella una stupenda visione del mondo: uomini celeste, nuvole rosa e passeggiate sospese a mezz’aria.
Nuova festa fra compagni di scuola. Paolo aveva scritto una lettera ad Annella: la “Lettera dell’amore eterno”. Appena lo vide Annella andò incontro a Paolo, sorridente come sempre. Paolo le chiese se aveva letto la sua lettera e lei gli disse di sì. Poi soggiunse:
“La donna a cui tu pensi non sono io. Io non sono così spirituale”.
Poi si girò e sparì.
Tornando a casa: incanto di una sera primaverile. Nel cielo ancora chiaro, una mezzaluna; l’odore della zagara si confondeva con quello della polvere della strada.
Tornato a casa, Paolo scrisse sul diario i versi di un poeta:
La primavera è venuta
e se n’è andata.