Scritto da Renato Candida
e presentato dal di lui nipote Marco Candida
RENATO CANDIDA, IDILIO DI PROVINCIA (un racconto ricopiato)
Uno di questi giorni che sono stato a casa da lavoro (22 Ottobre; 29 Novembre) sono salito sul solaio e ho dato un’occhiata a vecchi scatoloni e a una serie di libri tutti impolverati. Alla fine ho portato di sotto questi libri: Zanna Bianca, Le Novelle di Perrault (Edizioni A.&G. NETTUNO OMNIA Bologna), Questa Mafia e Idilio di provincia di Renato Candida (Edizioni Salvatore Sciascia Caltanisetta Roma).
Ero molto contento di aver ritrovato questi libri. Zanna Bianca è il primo libro che ho letto: in prima media, a undici anni. Ricordo che quando il mio professore di italiano (poi diventato professore di storia e filosofia al Liceo Classico di Tortona) aveva letto il primo paragrafo, io avevo visto la scena descritta e la cosa mi aveva così impressionato (mi aveva così impressionato che delle semplici parole avessero la proprietà magica di far vedere nella mia testa una scena e addirittura il movimento di quella scena) che avevo subito acquistato in libreria altri due libri di London: Il richiamo della foresta e Martin Eden. Le Novelle di Perrault è stato il primo libro che mi è stato letto, quindi sono state le prime storie che ho ascoltate lette da un libro (la primissima storia che mi è stata raccontata, invece, è stata Biancaneve e i sette nani con il supporto delle immagini dell’album di figurine tratto dal cartone animato di Walt Disney). Ci sono dentro storie straordinarie tra le quali una in particolare che si intitola “Le fate”. Questa Mafia e Idilio di provincia, invece, sono tra i libri che ha scritto Renato Candida, che era il fratello di mio nonno ed era mio zio. Risalgono al millenovecentosessanta e le mie edizioni hanno le pagine tutte mangiate e ingiallite. Ho dato un’occhiata, soprattutto a Idilio di provincia, che è un libro di racconti (l’altro è un saggio). Nella nota in fondo al libro nell’ultimo paragrafo ci sono scritte queste parole: ”Spero di divertire ogni lettore, ma se per qualcuno ciò, malauguratamente, non potesse avvenire, non mi porti rancore: i racconti, io li ho scritti per tentare di rompere il cerchio di aridità e di malinconia della mia professione, che mi porta a conoscere della vita, le cose più tristi”. Mio zio non stava facendo retorica: era maresciallo dei carabinieri in Sicilia e di cose brutte deve averne viste. Nella bandella c’è scritto:”L’autore di questi racconti non conosceva la Sicilia; ora vi risiede da circa un anno per ragioni professionali, di una professione che propriamente non concede margine al riposo e all’idillio e che continuamente lo mette a contatto con i più duri problemi nostri. Ma forse appunto perciò, in Sicilia Renato Candida si è aperto alla vocazione di scrivere: e ha scritto racconti di idillio, di riposo – mossi intorno ad un aneddoto “comico” o intorno all’osservazione di particolari del nostro costume; o articolati nella memoria di scherzi o di giuochi infantili. Raramente elementi tragici entrano nei suoi racconti; forse perché questi racconti rappresentano la controparte di una esperienza non priva, nei fatti obiettivi, di tragicità: e di questa esperienza vedremo il frutto in un prossimo libro a carattere documentario. Intanto ecco questi racconti: che nonostante il gusto dell’invenzione, della fantasia, danno misura di una intelligenza capace di assumere come dato dell’arte i più nudi aspetti della realtà.” (Qui invece un po’ di retorica c’è: ma siamo pur sempre nel millenovecentosessanta). [Marco Candida]
Era quasi di casa la zia Rachele, sorella della nonna, sposata a un curioso tipo di vecchio impiegato di non so quale ufficio delle Imposte o Dazio, lo zio Alfredo. Costui era un tipino smilzo, nervoso, tutto azzimato, che agitava sempre le mani; aveva un capino rotondo, calvo, con pochi peli ricciuti (ch’egli chiamava favoriti) vicino agli orecchi, grandi e a sventola; una boccuccia sottile, sormontata da un esiguo paio di baffucci, puntuti, ma quasi affogati nell’ombra di un nasone smisurato e spugnoso. Insomma, una testa da leprotto, con contorni da leone senza criniera.
Andava a lavorare di mattina, sì e no un’ora al giorno – quando ci andava – e tutto il tempo lo passava a casa sua o, più spesso, in quella del nonno a dannare la zia con le sue pignolerie. La zia Rachele, che non aveva avuto figli, era una donna anziana, fisicamente piena, alta e ripicchiata e, per la scarsità dei capelli, aveva un toppè in testa di quelli posticci, color biondo rame, in buffo contrasto con i suoi pochi rimasti, ormai cenerini.
Faceva uso di occhiali, di quelli antichi, con le stanghette di ferro, come si vedono nei ritratti di Cavour e Silvio Pellico, che sembrano degli 8 in corsivo, distesi; per cui noi ragazzi, con un nomignolo, la si indicava la zia 88.
Non li portava per la strada gli occhiali, ma quasi sempre in casa: per lavorare e leggere.
Aveva un difetto: il gioco del lotto e, più che un difetto, era una vera e propria mania: credo andasse a dormire solo allo scopo di poter sognare e di sognare unicamente per cavar fuori dei numeri. E dato che sognava per almeno quattro notti la settimana e che le sue scarse economie personali non le permettevano di giocare se non un “ambuccio”, il venerdì, giorno della posta, in cucina, ove si riunivano le donne, aveva luogo un continuo astrologare confuso di sogni e numeri.
Intendiamo, non giocava più di 14 o 15 soldi la settimana, perché, suo marito, avaro com’era, le passava solo qualche soldino di tanto in tanto ed erano lunghe discussioni a tavola e bisticci, in quanto lo zio, da buon spilorcio, con pacati ragionamenti, le voleva dimostrare l’inutile spreco del denaro ch’ella regalava settimanalmente a quel “ladro dello Stato”.
La zia, dopo tanti rimbrotti, bisbetica anzichenò, per uno o due giorni, non lo guardava in faccia, né gli parlava e si comprendevano fra loro solo esprimendosi con una specie di grugniti.
Poi lo zio Alfredo cedeva, mollandole qualche ventino e tutto tornava sereno, malgrado qualche recriminazione della zia, di questo genere:
“Sei un avaro! La buon’anima di mio padre sì, che era un vero gentiluomo!
“Quando il sabato rientrava a casa dai mercati dei paesi, svuotava le tasche piene di pezze d’argento e ne riempiva il grembiule di quell’anima santa di mia madre, Dio abbia in gloria anche lei. E mia madre che era una vera signora, sai tu, quanto giocava al lotto ogni settimana? Una pezza d’argento di 120 grazie, ecco!”
Il povero zio Alfredo, tentennava continuamente il capino, allargava le spalle con aria rassegnata e in tono conciliante la esortava:
“Altri tempi, Rachele, altri tempi! Ora non possiamo!”
Capitava anche, qualche volta che lo zio, prima di andare a dormire contasse i suoi soldi; la mattina dopo, appena sveglio, li ricontava e s’accorgeva che gli mancava qualche mezzalira, che la zia Rachele, di notte, silenziosa come una gatta, gli aveva sottratto dal portamonete: succedeva una scenata, perché lo zio, assumendo un’aria solenne e inquisitrice l’accusava:
“Rachele, tu mi hai rubato mezzalira!”
L’altra faceva il viso duro e rispondeva con le labbra strette:
“Chi, io? Sei pazzo!”
“Rachele, sono sicuro perché ieri sera li ho contati”
“Va, va! Lasciami bollire”
“Giuralo, allora, che non m’hai rubato!”
“Lo giuro!”
“Anche sulla Santissima Vergine?”
“Sì, anche su quella Santissima Vergine, lo giuro!”
“Non ci credo; per il gioco del lotto sei diventata persino spergiura!”
“Io spergiura? Zitto, zitto che fai meglio, miscredente!”
E ogni tanto si rinnovavano scenette di questo genere.
Prediletto della zia era mio cugino Luigi, al quale era serbato il segreto incarico di giocare gli ambi e di conservare le relative bollette del lotto.
Gli zii, in genere, la sera consumavano la cena in casa dei nonni e perciò, la zia Rachele friggeva per sapere se il cuginetto avesse adempiuto l’incarico e per essere tranquilla gli chiedeva notizie, usando particolari accorgimenti dialettici, gli domandava, per esempio:
“Luigino, che dici, piove domani?” e il cugino Luigi:
“Credo, zia, credo proprio che piova!”, volendo dirle che stesse tranquilla, che la giocata era fatta.
Tutti conoscevano l’essenza di tale linguaggio, tranne si capisce il povero zio Alfredo, il quale, ogni volta che si ripeteva quel discorso, cascava dalle nuvole e con la bocca piena e il naso all’aria chiedeva:
“E che ne sa Luigino? Che fa l’astronomo, il ragazzo?”
Tutti trattenevano le risa, solo mia sorella, Berenice, assai cimentosa, metteva legna la fuoco, sotto le orecchiate fulminanti della zia e diceva:
“No zio, è che Luigino ha i calli!”
E lo zio Alfredo con tono di sorpresa:
“I calli? Come i calli alla sua età?”, e rivolto alla nipote Atonia, madre di Luigi, con aria di esortazione continuava:
“Atonia, fallo vedere ad un medico! Se il ragazzo ha i calli, certo soffre di un difetto di circolazione; bisogna curarlo per tempo!”
“Va bene, vedrò!” rispondeva mia zia, con aria rassegnata.
Noi, fatti più grandicelli, pensammo di fare uno scherzo alla vecchia, in coincidenza con la festa di San Giuseppe, del quale era devotissima: festa che quell’anno cadeva di sabato.
Alla vigilia, in Puglia, c’è l’usanza di preparare le zeppole: un dolce fatto a ciambella, di pasta di bignole, ricoperto di crema; e l’incarico della confezione spettava di diritto alla zia.
Ci procurammo un pezzetto di striscia di carta, di quella che si adopera per batterci sopra le parole nei telegrammi, l’indorammo intorno e con l’inchiostro di china ci scrivemmo tre numeri: 19, San Giuseppe; 5, la fede; 41, la vincita; e lo arrotolammo. Con lavoro da certosino, mio cugino Luigi, con uno spillo bucò un uovo da un verso e, senza rompere il guscio, riuscì a infilarci dentro il rotolino. Poi sparimmo.
Più tardi la zia, in cucina, cominciò a rompere le uova per preparare la crema e scoprì in uno di essi il pezzo di carta. Rimase dapprima interdetta e confusa, poi cominciò a squadrarlo e, con grande meraviglia, agguantatolo, girandolo e rigirandolo tra le dita, si accorse che c’era uno scritto; fremette d’emozione, si aggiustò gli occhiali, vide e lesse i numeri e li interpretò in un baleno nel loro significato cabalistico.
Le entrò nella mete, come un fulmine, che San Giuseppe le avesse fatto la grazia.
Trattenendo a stento la sua gioiosa commozione, riuscì con qualche scusa a racimolare dal marito e dai parenti una lira e cinquanta, che mi cugino Luigi, in gran segreto, le giocò al lotto, sui tre numeri, per tutte le ruote.
Fino alla sera dopo, la zia Rachele, crogiolandosi nel suo segreto, stette come una pazza a girellare per la casa e a lanciare occhiate cariche di affetto alla effige di San Giuseppe, borbottando parole di gaudio e di filiale riconoscenza.
Ogni tanto, con un pezzo di stoffa o un piumino, s’avvicinava al quadro e lo lustrava in ogni verso e, ilare, rivolta al santo, diceva:”Ti pulisco, neh! Ti faccio lucido, come uno zecchino d’oro. Sei contento?”
Ciò fra lo stupore di tutti, che, ad eccezione di noi ragazzi, non sapevano a cosa attribuire quella strana traboccante devozione.
Come Dio volle, passarono i vespri e giunse l’ora in cui una tipografia popolare, stampato il bollettino del lotto, a mezzo di strilloni, lo vendeva a un soldo la copia.
Fu comprato il bollettino e la zia, inforcati meglio gli occhiali sul naso, tuta rossa in viso per la commozione, se lo lesse, guidandosi la vista con l’indice della mano destra teso e tremante sulla carta.
Ad un tratto impallidì, e allora ci squagliammo – noi ragazzi, s’intende –.
La vecchia, delusa e disfatta, guardò il Santo e disse:
“Barba gialla, neanche uno!”
Poi difilato corse a quadro, lo staccò dalla parete e lo riappiccicò al chiodo con l’immagine rivolta verso il muro, gridando come una pazza:
“Non voglio che mi guardi!”
Concitata e afflitta narrò del biglietto mandatole da San Giuseppe nell’uovo e che era dorato, con i numeri che avevano tutt’attorno un alone, come nelle figurine dei Santi; gli altri risero e lei, allora, s’alzò terribile, venne alla porta e rivolta a noi, gridò: “Lazzaroni!”