Prendendo di sicuro spunto da un notissimo proverbio che parla di peli e pariglie di buoi, Saverio Fattori mette in piedi una storia dichiaratamente falsa, ma tanto ben congegnata e legata al nostro passato recente da poter pure essere vera. Il sottotitolo – falsa biografia autorizzata – pertanto, assume il significato sia di dichiarazione paradossale, sia di affermazione-negazione necessaria per la compensione di un romanzo che solo chi ha vissuto per intero gli anni ’80 può afferrare a fondo. Mi torna in mente, per dire, una tragica mattinata del 1985 durante la quale mio cugino – frequentavamo insieme la terza geometri -, espose nei corridoi scolastici la sua capigliatura nuova di zecca, modellata con quantità spropositate di gel e palesemente ispirata alle chiome wild dei boys Duran Duran. Il cugino ricavò dalla nuova immagine un sensibile e vantaggioso miglioramento nelle classifiche di gradimento femminili, periodicamente stilate, in istituto, nei bagni delle ragazze. Ebbe anche, mi confessò, alcuni incontri con componenti delle giurie, a tutto beneficio dei suoi equilibri ormonali.
Fu un’illuminazione per noi diciassettenni. Avevamo pensato che i Duran Duran fossero solo musica, e invece no: erano soprattutto sesso. Promesso, potenziale, quello che volete, ma sesso.
Orfani di ogni ideale al punto di organizzare picchetti e rivolte per un termosifone che non si accendeva, scoprimmo che la cura della propria immagine era qualcosa per la quale valeva la pena vivere. Morire no, non erano più quelli i tempi.
La nuova rivoluzione passava attraverso l’educazione dei capelli, più che quello delle teste (o meglio, del loro contenuto).
Ben diceva il buon Battiato, che nella sua Preghiera del giovane patriota, recitava: “Benedici i parrucchieri e fai sparire in pace i professori universitari, perchè sono meglio i capelli messi in piega piuttosto che le teste.”
Che gli anni ’80 siano stati quelli dell’edonismo raeganiano, della Milano da bere, del look sovrano, è ormai un luogo comune. Ma cosa sono i luoghi comuni se non tragiche evoluzioni della realtà? Soffertissimi periodi storici sono stati confezionati sotto forma di comodi luoghi comuni e somministrate in dosi crescenti alla massa sino ad assuefarla. Operazione riuscita con i meravigliosi Anni ’60, che a ben guardarli poi meravigliosi non erano tanto, ma lo sono diventati nella fantasia di giornalisti nostalgici di bandiere gialle e in quella di vetusti musicisti persi in reminiscenze da circolo degli anziani.
Anche con i ’70 l’operazione sembra andata in porto, sicchè sono i Cugini di Campagna a portare il vessillo vergato di rime amore-cuore, nel quale non trovano spazio la strategia della tensione, il ’77, l’Italicus, Piazza Fontana, gli ‘ismi contrapposti e feroci.
Uno degli slogan più riusciti di quegli anni fu “una risata vi seppellirà”. Be’, chi lo urlava dovrà riconoscerlo: si era sbagliato. Non già una risata avrebbe seppellito i mille poteri – deviati o meno – impegnati a fare e distruggere per garantirci un futuro decentemente allineato, bensì un revival. E a finire seppelliti non sono stati i poteri summenzionati, ma le motivazioni dello scontro – generazionale e politico – di quegli anni. Il revival ha una sequenza ciclica: 20 anni. Tanto è necessario alla mente umana, evidentemente, per rimuovere i ricordi cattivi e trattenere solo quelli buoni. Minà iniziò a tartassarci con i meravigliosi ’60 solo negli ’80. L’operazione Anima Mia, superbamente condotta dalla gang Fazio-Baglioni, è del 1997. A noi, citadini di questo inizio del terzo millennio, toccano in sorte, per inderogabile scadenza, gli anni ’80. L’iteratività del revival non concede proroghe. Terribile destino quello di dover rievocare anni che, già loro, furono disastrati dai revival, ma tent’è, becchiamoci ‘sti 80 e cerchiamo di sopravvivere, che poi è l’imperativo categorico di ogni specie così definita in senso biologico. E’ angosciante rievocare cosa furono davvero gli anni ’80. Allora meglio aggrapparsi ai mondiali di Spagna e rimuovere Bologna. Molto più utile alimentare nostalgie per il trash che ricordare la mercificazione selvaggia che ne stava all’origine.
Uno scrittore contro come Saverio Fattori non poteva non cogliere certi spunti, non interconnettere coincidenze, politica e fashion, acconciature e ideologie. La lettura della biografia di Marco Orea Malià lascia nel malcapitato un’ansia e una speranza. La speranza è che ciò che è stato raccontato sia veramente falso come il sottotitolo assicura. L’ansia, invece, nasce dalla considerazione che una narrazione così frammentata, sfrangiata, destrutturate, possa veramente nascere dalle rivelazioni di un parrucchiere impegnato a rimodellare cervelli e non solo teste.
Chi è il vinto in questo romanzo ? Qual è l’eroe che rimane solo, nudo, abbandonato? Non Marco Orea Malià, splendido cavaliere errante del look. Men che meno I Righeira, Vasco Rossi, Oliviero Toscani e tutte le altre star anni ’80 che fanno la loro comparsa nelle pagine di Chi ha ucciso i Talk Talk. E nemmeno Saverio Fattori, compilatore della biografia non autorizzata, credibile alter ego di Saverio Fattori, autore della falsa biografia non autorizzata. E’, lo ammetto, un perfetto soggetto del verbo perdere, così solo, così fuori dai giochi, così incapace di comodi adeguamenti, ma non è lui il vero sconfitto di questo romanzo. Ecco, direi la verità. Più sconfitta di lei… Seppellita dai revival.
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