di Giovanni Monasteri
Brasi Mezzalenticchia
Fu l’uccisione del mulo il primo dei numerosi peccati che dannarono Biagio Marotta. Gli fracassò il cranio. E non con una schioppettata, né col dorso della zappa o con un mazzapicchio, ma con un pugno. Sì, proprio un pugno in mezzo alle orecchie, su quella testaccia di mulo impenitente. Lo zio Suoledilegno aveva visto coi suoi occhi quel pugno poderoso abbattersi sulla povera bestia come il maglio del maniscalco sull’incudine , e quella, colpita a morte, stramazzare per non più rialzarsi. Lui stesso, Biagio, aveva raccontato il fatto per filo e per segno, e quasi se ne era gloriato.
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Mezzalenticchia scese da cavallo e affiancò il compare, che andava a passo di bersagliere. Questi accelerò l’andatura, spronato da una collera reviviscente che gli imporporò le orecchie e la nuca taurina.
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<>, disse Biagio Marotta. <
Biagio vide la disapprovazione, il raccapriccio, lo scandalo negli occhi del compare, due occhietti senza luce né pupille, due pertugi. Vide un omino piccolo e gobbo, meschino, vile, geloso d’ogni sua cosa, del suo mulo, della sua grama salute. Era aprile e lui si teneva ancora avvoltolato in una mantella di panno tutta sbrendoli e rattoppi, quel lenticchiaro; e teneva strette in mano le redini del suo mulaccione come fossero un sacchetto pieno di marenghi d’oro. Allora Biagio si arrestò, buttò per terra la bisaccia, piantò in faccia al compare quei suoi occhiacci assassini, si morsicò i baffoni neri come il carbone, lo agguantò per le esili spalle e prese a scuoterlo con troppo cameratesca irruenza. <
Il quadrupede di Mezza Lenticchia rinculò, anche lui spaventato. <
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La taverna della ‘Gna Lippa
La sera, prima dell’Ave Maria, Biagio Marotta era già nella taverna della ‘Gna Lippa, con la sua cricca di undici o dodici compari che insieme bevevano come un reggimento. Tracannava intere cannate di vino e chiamava continuamente in causa Dio, la Madonna e i santi nel racconto di come, una volta, aveva lisciato il pelo a certi taglialegna forestieri che erano entrati con le accette e l’aria da malandrini nella sua proprietà. Era ancora sobrio, ma non abbastanza da versare vino nei bicchieri senza spanderne sul tavolo e addosso ai compari. Cantava, anche. Aveva una voce che pareva un coro di muggiti, e stornellava che era un piacere.
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In realtà Biagio non aveva vent’anni, e ormai neppure quaranta, ma i suoi capelli erano neri come il corvo, e neri i suoi baffi da saracino. Il vino rosso accendeva le sue gote dello stesso colore. Lussureggianti bioccoli neri, folti come il vello di un caprone, straripavano dalla camicia di panno male abbottonata.
Brasi Mezzalenticchia, insolito invitato in un posto come quello, arrivò per ultimo, e subito fu salutato da un coro di schiamazzi troppo calorosi. Biagio fece un gesto circolare col braccio e tutti tacquero. Poi si levò in piedi, il bicchiere in mano, nell’atto di un brindisi maestoso, e disse con smaccata solennità: <
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Rise Biagio Marotta, e la sua gola spalancata pareva il forno del fornaio. E tutti risero con lui.
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Brasi Mezza Lenticchia impallidì. Questa volta fu lui stesso a mescersi tre bicchieri di vino, uno dopo l’altro, e a tracannarli con gli occhi chiusi.
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Era partito. E chi lo teneva ormai! I compari appaludivano e fischiavano, la Gna’ Lippa andò a prendere un’altra pentola piena di brodaglie fumanti e non ci badò più.
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Brasi Mezza Lenticchia si segnò in nome del padre e del figlio, e rise anche lui. E siccome lo spirito santo gli lavorava già nella testa, si era scordato che il vino e le stigghiole non gleli davano gratis. Ma al momento di pagare Biagio Marotta gridò: <
Andarono poi tutti e dodici, o tredici che erano, a pisciare dietro il muro del carcere, alla faccia dei carabinieri. Il rivolo percorse ottocento metri di strada in discesa e, parola di chi l’ha raccontata, raggiunse la bottega dello speziale, in piazza Garibaldi.
Donna Concetta
Quando beveva, Biagio picchiava la moglie. Non mancava mai di picchiarla, se aveva bevuto. Non che la picchiasse troppo, da mandarla all’ospedale, s’intende, ma abbastanza da farla piangere per tutta la notte. Lui aveva il sonno e il vino pesanti, russava e non sentiva i singhiozzi della donna.
Donna Concetta era piccola ed esile come una bambina tisica: si rannicchiava nel suo cantuccio sotto le coperte, il corpicino infossato nel morbido materasso di lana, e singhiozzava e pregava, mentre il marito russava da far tremare i trespoli e le tavole del letto. Lei sapeva tutte le orazioni a tutti i santi del calendario: a San Francesco protettore degli animali, a Santa Barbara patrona dei tuoni e dei lampi (affinchè piovesse quanto bastava, né di più né di meno), a San Calogero protettore degli ubriachi, alla Vergine Maria, che mettesse buoni consigli nella testa di quello sconsiderato, e, infine, a Santo Minico Soriano, il Mercurio del Pantheon di donna Concetta, il quale aveva il compito di raccogliere le preghiere dei buoni cristiani e portarli ai destinatari in paradiso.
Biagio e donna Concetta non avevano figli, e magari proprio per questo lui la picchiava. Ma con la testa balzana che l’uomo si ritrovava, forse il Signore Onnipotente aveva visto giusto a non concederle di mettere al mondo delle creature: Biagio si beveva metà del raccolto, l’altra metà lo spendeva per comprare muli che puntualmente si azzoppavano e finivano in pasto ai cani. Lui non voleva saperne di camminare sulla retta via, e così portava anche le sue bestie per sentieri poco agevoli; fatto sta che ogni anno doveva comprare un altro mulo. L’ultimo, poi, era morto in circostanze misteriose. Addirittura – le era sembrato di capire – era stato lui stesso ad accopparlo, con le sue mani. O che sventura, che fuoco grande, con quel marito! Eppure l’uomo lavorava. Ah se lavorava! Era capace di tirare lui l’aratro, e di fare il lavoro di due muli da solo, con la forza e la lena che aveva. Quel sancristoforo d’uomo che le ronfava accanto, se appena avesse avuto la testa sulle spalle, avrebbe fatto la fortuna di sette generazioni… ma non c’era nessuna generazione, era proprio lì il male. Il materasso dalla parte di Biagio aveva uno squarcio da cui fuoruscivano filacce di lana. Era stato lui stesso, con una zampata rabbiosa, nel corso di chissà che incubo, ad aprire quello squarcio. Non si tagliava le unghie da mesi, forse da anni. E del resto il coltello che lui usava per gli innesti non ce la faceva a spuntare quegli artigli. Un’accetta, ci voleva, o il saracco del falegname. In fondo era buono, Biagio, aveva un cuore d’oro. Forse l’avevano affatturato, gli avevano fatto una magaria. Si, doveva essere proprio così: uno spirito maligno gli urgeva dentro, uno spiritello capriccioso e iracondo, lo stesso che lo aveva spinto a compromettersi con l’esattore.
Era accaduto per via di una certa tassa: biagio s’era rifiutato di pagarla e così, una sera, gli erano venuti in casa l’esattore e due carabinieri. Volevano pignorargli tre giare d’olio da seicento chili d’olio l’una, per dodici onze di tassa non pagata. Successe il finimondo, l’iradiddio, la rivoluzione del quarantotto. L’esattore e i carabinieri se la cavarono con qualche ammaccatura, grazie ai vicini che volevano bene a Biagio e accorsero per togliergli dalle mani i malcapitati; ma lui finì in galera e ci rimase per tre anni. I primi sei mesi – come lui raccontò dopo – gli lisciarono il pelo per bene: una triplice passata di legnate e nerbate ogni giorno, colazione, pranzo e cena. Quando uscì di galera, di lui erano rimaste solo una montagna di ossa, e aveva una fame da mangiarsi gli stipiti della porta. In tre giorni si mangiò dodici forme di formaggio da tre chili l’una, e bevve tutto il vino che non aveva bevuto in tre anni. La moglie, che mangiava meno di un passerotto, gli aveva messo via tutto il formaggio che i pastori avevano portato come balzello per poter pascolare nella terra di Biagio, dove neppure gli uccelli potevano entrare senza permesso. Quando si fu mangiato l’ultimo pezzo di formaggio, prese il lapis, scrisse alcune cifre sul retro di un santino e calcolò che mancavano sei forme da tre chili. L’indomani prese la zappa e, invece di usarla propriamente sulle fratte che avevano sommerso la vigna, la diede in testa a un pastore, e a momenti lo ammazzava. Di nuovo in gattabuia, ma questa volta ci rimase solo un anno. Quattro anni di galera, con un intervallo di quattro giorni tra la prima volta e la seconda.
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Il tesoro nella pignatta
Un ventaccio di ponente agitava il noccioleto in fondo al vallone e strappava gli ultimi ricci vuoti ai radi castagni a mezzacosta, nella chiusa che era appartenuta al trisavolo di Biagio Marotta, e che lui, Biagio, aveva ereditato dal padre assieme alla vigna di Rasalgone e alla mezza salma di terra di Malocristiano. Ruta, cardi, ginestre e qualche ficodindia prosperavano nel pietrame, lungo l’esigua striscia di terreno incolto che cingeva la chiusa e ne costituiva il confine. Non c’era una casa vera e propria in quel terreno, ma una minuscola stalla di campagna dal tetto mezzo sfondato e assediata dai rovi, quattro mura che a malapena, nei giorni d’inverno, riparavano dal vento durante il breve pasto meridiano. Spesso, quando voleva star lontano dalla moglie, Biagio passava la notte lì dentro, coricato nella mangiatoia o su un mucchio di strame, avvolto in una coperta. All’ora del pasto, legava il mulo all’anello di ferro infisso nel muro della casupola, accendeva il fuoco e sedeva su una pietra, svolgendo il fagotto dove la moglie aveva messo un’enorme pagnotta, un pezzo di pecorino pepato e un pugno di olive nere. Le olive le mangiava alla fine, con l’ultimo quarto di pagnotta, quando il fuoco aveva consumato i rami della rimonda o le ultime tavole della porta ormai inutile che lui aveva divelto. Prendeva quel pugno di olive, le buttava nella brace, in mezzo alla cenere, e poco dopo se le cacciava in bocca fragranti, croccanti, quasi carbonizzate, senza neppure pulirle della cenere. Poi s’attaccava al barilotto e, a quel popò di borraccia, a quel santo capezzolo di legno succhiava e succhiava finchè il vino non gli usciva dalle narici.
Quel giorno Biagio Marotta aveva bevuto più del solito e aveva dovuto fare uno sforzo per non cascare addormentato. Gli uccelli erano contenti perchè era una bella giornata e riempivano l’aria quasi tiepida di un dolce, soporifero coro di cinguettii. Ma l’uomo è nato per lavorare, la terra non aspetta e il cielo, in quella stagione, concedeva una rara, clemente tregua prima di riprendere a rovesciare pioggia e gelo sui terreni appena arati. Delle buone giornate bisognava approfittare e ringraziare la Provvidenza; Biagio, invece, bestemmiava. Non gli andava a genio che l’uomo fosse nato per lavorare, ma lavorare doveva. Non aveva con chi prendersela e se la prese con la giumenta, perchè non stava perfettamente immobile mentre lui le metteva il sellone, legava il sottopancia, il pettorale, la codiera, agganciava le catene al sellone e al bilanciere dell’aratro. La strattonò brutalmente afferrandola per il morso e bestemmiando come un giudeo. La giumenta apparteneva allo zio Suoledilegno, che aveva una chiusa in cima al colle, dove una cresta di rocce bianche brillava come alabastro al sole di mezzogiorno, in quella luminosa giornata di primo inverno.
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Ripassò mentalmente tutto ciò che sapeva e aveva sentito dire sui tesori ritrovati. non doveva farne parola con nessuno. Nel Libro del Cinquecento, il libro dei segreti e delle magie che solo i preti possiedono, c’era scritto che, chi trova una pignatta piena di marenghi d’oro, non deve dirlo a nessuno, altrimenti accadono due cose ugualmente spiacevoli: una è che la pentola, con tutto il prezioso contenuto, sprofonda cento canne sottoterra e neanche scavando per cento anni la si può più ritrovare; l’altra è che il disgraziato che non ha saputo mantenere il segreto sarà colpito con sette anni di mal’annate, e non c’è santo e madonna che possa preservarlo da questa sventura. Biagio non aveva mai letto quel libro: era scritto in latino. E del resto lui non sapeva leggere né scrivere. Solo i preti (e qualche fattucchiere nel passato) avevano potuto leggere il Libro del Cinquecento, ma tutti, da che mondo era mondo, sapevano e tramandavano questa sacrosanta verità: che chi trovava una pignatta piena di marenghi d’oro non doveva rivelarlo a nessuno, pena la perdita definitiva del tesoro e, per sette anni, di ogni fortuna e celeste protezione. Cioè, non proprio a nessuno, ma a nessuno tranne al sangue del suo sangue, cioè ai figli, ai fratelli e ai genitori. E qui era l’angosciosa questione che, subito dopo l’euforia del prodigioso ritrovamento, si presentò al giudizio sconvolto di Biagio: come spendere, da solo, quel tesoro, se non poteva farne parola con nessuno, neanche con la moglie, e con nessuno dividere, nonchè i marenghi, neppure la contentezza? Biagio non aveva né genitori, né figli né fratelli. Aveva avuto sei fratelli, ma tre erano morti da bambini, e gli altri tre, più anziani di lui, erano morti da pochi anni, chi di malattia e chi di precoce vecchiaia. Aveva una moglie è vero, ma quella moglie era sangue estraneo, non gli era cugina, aveva un altro nome, veniva da un’altra discendenza. Ma forse la moglie è come una sorella, congetturò, o almeno come una parente. Forse la moglie poteva essere considerata alla stregua di una madre, di una figlia. I preti sapevano sicuramente qualcosa sulla faccenda. Sì, doveva mettere da parte l’antipatia che nutriva verso il clero, far finta di volersi riconciliare col padreterno.
La confessione
Erano le sette di mattina quando Biagio bussò al portone della chiesa di San Filippo. Le cantonate della chiesa tremarono, un cupo bombito riempì la navata. Trasalì il santo nella sua nicchia e con le tre dita benedicenti si aggiustò l’aureola traballante. La finestra della casetta allato della chiesa si aprì e donna Menica, la madre di padre Bertolazza, mise fuori la testa. Era la prima volta in vita sua che donna Menica si mostrava con la chioma sciolta, senza la sua candida, perenne treccia arrotolata sopra il capo.
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<>, disse, sfilando il paletto dagli anelli. <
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<>, dichiarò Biagio, <
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Quello era un tasto delicato. Biagio andava a far visita, di tanto in tanto, a certe signorine coi capelli rossi e biondi, lì alla Ferraria, ma lo faceva di sera tardi. Chi glielo aveva detto, a quel diavolo di prete? La più bella si chiamava Giosefin, che in francese voleva dire Peppina.
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Dalle parole di padre Bertolazza Biagio aveva ricavato la convinzione che la moglie era sangue del suo sangue, e perciò poteva senz’altro renderla partecipe del segreto della pignatta. Manco male. E con chi avrebbe potuto, sennò, dividere, se non la ricchezza, almeno la contentezza di aver trovato quel tesoro? Avesse avuto dei figli, quattro figli, o quaranta, li avrebbe mandati ognuno in un paese diverso con le tasche piene di marenghi d’oro, uno a Mazzarino, uno a Caltagirone, uno a Ramacca; e là ognuno avrebbe comprato terre, carrozze e cavalli per vivere come un duca. Li avrebbe mandati in paesi lontani, lontanissimi, ancora più lontani di Catania, dove nessuno avrebbe potuto riconoscerli e far domande sulla loro improvvisa ricchezza. Nessuno, nessuno che non fosse un consanguineo, poteva esser messo a parte del segreto, pena lo sprofondamento della pignatta coi marenghi d’oro. Ma alla moglie sì, a lei poteva dirlo, c’era scritto nel libro del cinquecento, nella Bibbia e, gli era parso di capire, anche nel libro del seicento. Cinquecento e seicento, per Biagio, non erano numeri riferiti a epoche, a secoli, ma misteriose formule cabalistiche, roba da maghi e preti. Affrettò il passo. Non vedeva l’ora di dirle: <
Come un massaro ricco
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Pronunciata l’apocalittica minaccia, Biagio uscì sbattendo la porta violentemente. Alquanti calcinacci si staccarono del muro e piovvero sul tavolo. Il giudizio universale era prossimo, quella catastrofica pazzia ne era un segno premonitore. Se ne era andato, a fare strage di agnelli, a vendersi le proprietà rimastegli, a bersi una botte di vino, a compiere l’eccidio annunciato. Donna Concetta non ne poteva più. <
Nei giorni seguenti Biagio mise in atto quasi tutti i suoi proponimeti. Non ammazzò la moglie, perchè in realtà l’uomo abbaiava più di quanto mordesse. Per prima cosa andò al luogo dove aveva sotterrato i marenghi e scavò… Erano ancora lì. E chi mai poteva trovarli, in quel posto? Ne prese quattro, li avvolse nel fazzoletto e se li mise in saccoccia. Vendette il terreno di Malocristiano, si comprò un magnifico cavallo, un carretto nuovo di zecca, completo di finimenti, bubboli e pennacchi, e andò a spasso in paese e per le campagne seduto su quel carretto come un re sul trono. I villani lo salutavano togliendosi la coppola come davanti a un massaro ricco, e nessuno (per timore di inimicarselo più che per rispetto di quella pompa) osò dire ciò che tutti pensavano e andavano mormorando: che non era sensato vendere mezza salma di terra per mostrarsi al popolo con un carretto nuovo e un cavallo impennacchiato. Che se ne faceva lui del carretto? Non era un ortolano, e per il trasporto di quello che ricavava dalle suo poche terre un mulo e due cavagni sarebbero stati più che bastanti. Per di più, lo smidollato, ogni sera all’avemaria era già dalla Gna’ Lippa, e non smetteva di sbevazzare che all’undicesimo tocco della campana di San Giovanni, quando i carabinieri facevano il giro d’ispezione per badare che le cantine osservassero l’orario di chiusura e quelli che ne uscivano non si accoltellassero per le strade. E non si accontentava di bere e offrir da bere a mezzo paese, il Biagio Marotta, ma aveva persino preso la principesca abitudine di pasteggiare a salsiccia, sanguinaccio e agnelli, invece che a fegatelli e stigghiole come tutti i zappaterra. Lui mangiava, beveva e pagava, i compari mangiavano e bevevano. Tutti insieme stornellavano e bestemmiavano.
I quattro marenghi in tasca
Biagio non aveva ancora speso uno solo dei suoi marenghi d’oro. Dopo il terreno di Malocristiano, vendette per poche onze la vigna di Rasalgone. Gli restava solo la chiusa dove aveva trovato la pignatta, con la stalla dove aveva seppellito il tesoro, e quella non la vendeva di certo. Giornalmente andava a controllare che i marenghi fossero al loro posto, e per non insospettire i vicini e zio Suoledilegno dava quattro colpi di zappa qua e là. Poi, di primo dopopranzo, sellava il cavallo e se ne tornava al paese. Il carretto non poteva arrivare fin là, perchè non c’erano strade né trazzere in quella contrada. Alla vigna di Rasalgone il carretto poteva arrivarci, ma la vigna di Rasalgone non era più sua, e così il carretto era del tutto inutile. Ma Biagio era ricco, poteva comprarsi tutte le vigne che voleva. Teneva sempre in tasca quattro marenghi nel fazzoletto arrotolato e ogni tanto le toccava, saggiava la rassicurante consistenza del prezioso metallo, sentiva come un grato calore irraggiarsi dal fagottino alla coscia. Era ricco, non doveva preoccuparsi, era davvero ricco. Ogni sera, quando tornava a casa e donna Concetta, già a letto, fingeva di dormire, era fortemente tentato di svegliarla e sbatterle sulla faccia le quattro monete dicendole:<
La sfida
Tre mesi erano passati da quando il vomere dell’aratro aveva infilato la bocca della pignatta. Uno cammina sulla terra, la mesta e rimesta con la zappa e con l’aratro, e crede che sotto non ci sia altro che pietre e radici. Poi un giorno la giumenta devia di un palmo ed ecco che salta fuori una colossale fortuna. Così, per ventura (quando si dice il destino!). Come quando uno pesta una merda e un altro gli dice: <<è fortuna!>>. E che fortuna! Chi mai avrebbe potuto misurarla, una simile ricchezza? Ma le cose andavano male per Biagio Marotta. Non gli restavano che pochi spiccioli delle quasi mille e ottocento onze ricavate dalla vendita di Malocristiano e Rasalgone. Donna Cocetta si faceva sempre più magra e le scarpe del massaro ricco, del massaro prodigo, scarpe nere come quelle dei signori, erano sfondate (le scarpine da città non sono fatte per andare in mezzo alle zolle). Gli amici, che pure erano degli scrocconi inveterati, cominciavano a farsi degli scrupoli e si schermivano un po’, quando, alla taverna della Gna’ Lippa, lui li invitava tutti al suo tavolo. Uno di loro, un giorno, osò tirarlo in disparte e, con le dovute circonlocuzioni, gli fece intendere che la gente cominciava a non approvare quella esagerata prodigalità, e che era molto bello e ammirevole che lui avesse un così gran cuore per gli amici, ma doveva pensare un po’ anche a sè stesso, alla vecchiaia, a donna Concetta. Per tutto ringraziamento a quei santi consigli, Biagio gli diede uno spintone che lo mandò a gambe all’aria.
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Allora i compari si sedettero a un altro tavolo e tutti sembravano non badare più a Biagio. Parlavano a bassa voce come a un funerale. Insomma, Biagio Marotta avrebbe bevuto e mangiato da solo, quella sera, se non fosse arrivato, a un certo punto, un forestiero, un uomo sulla trentina, rosso di capelli e con un pastrano nero.
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L’uomo, che nel frattempo si era seduto, fece un cenno di assenso e sorrise. La ‘gnà Lippa portò il meno unto dei suoi bicchieri e Biagio lo riempì lentamente. Il forestiero lo prese e lo vuotò con un movimento elegante ma deciso, buttando il capo all’indietro in modo rapido e macchinale. Biagio vuotò il proprio studiandosi di tenerlo con due dita (manco fosse un calice di sciampagna o un uovo fresco), e si sforzò di non produrre i gorgoglii e i poco urbani risucchi che, insieme ai rutti, costituivano, di solito, l’immancabile accompagnamento musicale alle sue bevute. Il contadino riempì di nuovo i bicchieri, il forestiero bevve in meno che un sorso.
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All’inizio erano più i convenevoli che i bicchieri di vino. <
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Prima che coste e salsiccia fossero pronte, i due s’erano già scolate due cannate di vino da cinque litri l’una. Biagio, dimentico d’ogni signorilità, s’era messo a sbraitare una storia piena di muli abbattuti a pugni sul cranio, cavalli, carrozze, castelli, carabinieri, risse, legnate, galera, vendette; il tutto condito delle peggiori e più pittoresche bestemmie che avessero mai offeso i sentimenti cristiani della ‘gna Lippa. Questa potè anche notare che alcune di quelle bestemmie non facevano parte del repertorio di Biagio; anzi, non le aveva mai sentite prima d’allora… Doveva trattarsi di bestemmie forestiere. Il forestiero, al contrario di Biagio, non s’era scomposto di una virgola. Seguitava a bere con quel movimento rapido e preciso, simile a gesto di chi ingolla un sorso di rosolio in un bicchierino non più grande di un ditale. Malgrado il vino gli lavorasse forte nella testa, Biagio non potè non notare che il forestiero non solo beveva più di lui, ma era del tutto lucido, più lucido che se stesse bevendo acqua di fonte. Diavolo, non poteva certo farsi battere da uno sbarbatello! Con una manata spinse via il bicchiere, che andò in cocci sul pavimento, e brandì la cannata per il manico dicendo: <
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Biagio, con una zampata felina, afferrò un capo della salsiccia, che era lunga come la corda del pozzo. Il forestiero prese l’altro capo e lo sollevò dal piatto, delicatamente, come temendo di ungersi il pastrano con quell’insaccato.
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Il diavolo rise, sghignazzò, e la sua risata era simile al tossire del cane.
Biagio fu portato a casa in fin di vita. Nel suo delirio di moribondo farfugliò ancora della pignatta con i marenghi d’oro. Ma la pignatta, nell’istante in cui lui aveva rivelato il nascondiglio, era sprofondata cento canne sottoterra, fino all’inferno che l’aveva partorita. Come spirò, un terribile vento flagellò le valli e i monti, scoperchiò i tetti delle casupole, schiantò gli alberi, addensò nel cielo nubi spesse e nere come la pece. Erano i diavoli, che festeggiavano l’arrivo di un’anima dannata. O forse era Biagio che non voleva arrendersi all’inferno e combatteva un’estrema battaglia contro i diavoli che lo ghermivano. O forse, chissà, le straziate avemarie e i pianti di donna Concetta commossero l’Onnipotente e questi, all’ultimo momento, mandò l’arcangelo Michele a salvare dalle fiamme eterne un uomo che, se era stato un bestemmiatore, un iracondo, uno scialacquatore, aveva però adempiuto al cristiano comandamento di dar da bere ai compari assetati.
Pubblicato per gentile concessione dell’autore