di Stefano Amato
Ricevo da Stefano Amato questo suo racconto, peraltro apparso nell’ultimo numero di Linus, dove Matteo B. Bianchi lo presenta così: “C’è molta onestà e semplicità in questo racconto di Stefano Amato, fatto di piccole cose, pensieri quotidiani, di intimità”. Personalmente è un racconto che ho apprezzato molto per la sua capacità evocativa e la sua voglia di essere narrazione prima di tutto. (ma.mi.)
Mi chiamo Adele, e abito in uno di quei paesi che la Statale 113 infila come tante perle. Per chi non lo sapesse la 113 è la Statale che in Sicilia percorre tutta la costa nord da Messina a Palermo e pure oltre, non potete sbagliare. Alfio, il mio ragazzo, che abita nel paese accanto al mio, una volta che mi stava accompagnando a casa ha detto “perché non vediamo dove finisce la Statale?”.
Allora abbiamo proseguito verso ovest, con il mare alla nostra destra; entravamo e uscivamo da tutti quei paesi, percorrevamo il corso principale che era sempre la SS 113 che per un chilometro si chiamava Corso della Repubblica, Corso Italia, Corso Garibaldi, Corso Umberto, tutti così si chiamavano, e poi quando finivano ricompariva la freccia azzurra SS 113, e io e Alfio ci guardavamo e ridevamo, ché ogni volta pensavamo di incontrare un altro numero, chessò, SS 829 per esempio, e invece la statale sembrava non morire mai. Intanto parlavamo e parlavamo che non ce la finivamo più. Non avevamo mai parlato tanto in vita nostra, e a un certo punto Alfio ha detto quella cosa che mi ha gettata nel panico più totale. Ha detto che due persone si capisce che stanno bene insieme perché hanno sempre qualcosa da dirsi.
Ha fatto una pausa, e poi ha detto che si capisce che due persone si amano, praticamente, perché non la smettono mai di parlare. A me questa cosa mi ha innervosita per due motivi: primo perché Alfio non aveva mai usato la parola amore, innamorarsi, amare ecc, e io ci sono rimasta un po’ così. L’altro motivo è che a quel punto avevo una paura matta che smettessimo di parlare, perché metti che stavamo zitti per venti secondi di fila, magari per sentire una canzone alla radio, che voleva dire?, che non mi amava più? Uno non dovrebbe mai dire cose del genere, mandano nel panico. Comunque a me è venuto un colpo di genio dei miei, e scherzando ho detto “Che vuoi dire? Che se ora smettiamo di parlare tu al prossimo autogrill ci provi con la cassiera?”, e ci siamo messi a ridere, anche perché quella che avevo detto era stata proprio una stronzata, non ci sono mica autogrill sulla Statale 113, e siamo potuti stare in silenzio senza preoccuparci di niente, ognuno pensando ai fatti propri.
Io per esempio mi sono messa a pensare a mio nonno. Era morto un paio di giorni prima. Non era malato, e non si capiva perché fosse morto, e avevano dovuto fargli una spe-cie di autopsia, che io credevo facessero solo a quelli che morivano sparati, o avvelenati, o per overdose. E tra una cosa e l’altra il medico legale ha trovato, oltre alla causa della morte del nonno (ictus), gli ha trovato in un orecchio un mattoncino Lego, quelli piccoli da uno, rosso, che a sentire il medico doveva essere lì da una decina d’anni minimo. E quando il medico ha convocato i famigliari, cioè noi, e ha detto questa cosa del mattoncino, è stato terribile, tutti si sono voltati a guardarmi come se il nonno fosse morto per colpa mia, e non per tutta la carne e il vino che ingurgitava ogni giorno. Al massimo io ero responsabile dei suoi problemi all’udito. Ci sono rimasta così male per tutta la faccenda, che per riprendermi sono andata a finire Il castello di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda che da piccola non avevo completato proprio perché mi mancava quel mattoncino che a dire la verità non so nemmeno come ci sia finito nell’orecchio del nonno. Lo so che è una cosa da matti disertare la camera ardente per finire le costruzioni Lego, e a vent’anni per giunta, ma è andata proprio così, forse perché ero depressa da morire, al nonno io gli volevo bene, e in parte è per questo che Alfio quella volta mi ha fatto montare in macchina e ha proposto di seguire quel benedetto numero, 113, fino a quando non fosse diventato, boh, 247.
Dopo un po’ che pensavo al nonno, non ci posso fare niente, sono tornata a pensare a quella cosa che aveva detto Alfio a proposito delle due persone che si amano. Perché io e Alfio stavamo insieme da un pezzo, ma a me questa cosa del “ti amo” un po’ mi aveva spaventata, e mentre Alfio si è messo a parlare di qualcosa a proposito di certi mal di testa che aveva da piccolo, e dalla radio usciva fuori una canzone dei Beach Boys proprio nel momento in cui attraversavamo uno dei tanti Corso Vittorio Emanuele bordato di palme che sembrava di essere in California, con tutte quelle palme e in sottofondo Surfin’ USA, non in Sicilia, a me è venuto in mente quel fico di Han Solo, quello di Guerre Stellari.
Mi è venuta in mente la scena in cui Jabba the Hut vuole immergere Han nella grafite per ibernarlo. I suoi sgherri afferrano Han per le braccia per calarlo nel congela-tore mentre la principessa Leila gli urla di fermarsi, e dopo che per un film e mezzo lei e Han si erano beccati, con lui che si prendeva dei passaggi e lei che lo offendeva anche solo per aver pensato di potere avere a che fare con una principessa, lei in quel momento cede, e pochi secondi prima che Han diventi una gigantesca mina per matite Leila lo guarda e gli dice, inquadrata in primo piano: “Io ti amo”. E quando Jabba fa aprire il portello del congelatore alla grafite e fa calare dentro Han, lui la fissa con quell’aria da duro che ha fatto epoca in un certo senso, non sa se sopravvivrà né se verrà mai scongelato o quando, magari dopo centinaia di anni, cosa dice lui a Leila che ha appena confessato di amar-lo? Lui le dice: “lo so”.
“Hai capito Adele?” mi ha chiesto Alfio mentre pensavo a Han Solo.
“Capito cosa?”
“I miei mal di testa”.
Fuori intanto cominciava a fare buio, ma a me e ad Alfio non ce ne fregava niente. Non avevamo nessuno ad aspettarci a casa, non lavoravamo, eravamo studenti, che dalle parti nostre è come dire disoccupati ma un gradino prima, per questo tutti ci mettono dieci anni a laurearsi, perché fino a quando dicono “io studio” a chi gli chiede cosa fa nella vita, conservano un minimo di dignità, il problema viene dopo, quando qualcuno ti chiede “cosa fai?” e tu rispondi “niente” e ti senti piccolo piccolo, ed è per questo che quando uno fa un esame un po’ in fondo gli dispiace.
Fuori, dicevo, cominciava a fare buio, Alfio ha acceso i fari della macchina, ed è passato a raccontarmi che quando era piccolo soffriva sempre di mal di testa. Ogni giorno si svegliava e si sentiva pulsare la testa come se ci avesse avuto il cuore dentro, non il cervello. I suoi lo portarono da tutti i medici della zona, ma nessuno riusciva a capirci niente. Lui sotto sotto lo sapeva perché ci aveva i mal di testa, ma non diceva niente perché se ne vergognava. Alla fine i suoi si fecero convincere da un medico a riprendere Alfio ventiquattro ore su ventiquattro, per riuscire a capire quale fosse l’abitudine che gli causava le emicranie. Riempirono casa sua di telecamere, e fu rivedendo le cassette che beccarono Alfio a dormire con la testa sotto le coperte, finendo per respirare la sua stessa anidride carbonica che lo faceva sì addormentare, ma lo privava dell’ossigeno necessario al cervello, da qui i mal di testa. Tutto perché Alfio aveva sentito dire che l’anidride carbonica è soporifera.
Intanto, cose da pazzi, avevamo superato Palermo e ancora quella cavolo di 113 non finiva, “vuoi vedere che fa il giro di tutta l’isola?” ho chiesto io, e Alfio ha detto “no, no”, e ha continuato a raccontare quella strana storia senza capo né piedi. Ha detto che alla fine lui era un vero e proprio drogato di CO 2 , che uno non può mica privarsi di una droga una volta che ci ha il vizio, e così gli avevano sequestrato tutte le coperte ma non riusciva ad addormentarsi senza CO 2, stava per avere una specie di crisi d’astinenza. Per fortuna che per riscaldarlo i suoi gli avevano messo in camera una stufa che era risultata difettosa, e a momenti Alfio stava per morire di overdose da monossido di carbonio che sta alla CO 2 come l’eroina sta all’erba, e la storia finiva così.
Miracolo a un certo punto, saranno state le due di notte, è apparso un cartello con la scritta “fine tratto anas – SS113”, che voleva dire che potevamo tornare a casa, solo che ormai eravamo dall’altra parte della Sicilia, e né io né Alfio sapevamo bene se convenisse tornare indietro o completare il giro dell’isola, per noi era uguale, tanto nessuno dei due aveva niente da fare o qualcuno che lo aspettasse. I nostri genitori erano abituati a non vederci magari per due giorni di fila senza battere ciglio dato che ogni tanto andavamo a Lipari a farci i fatti nostri, pagavamo solo il traghetto e dormivamo in una spiaggia che non conosceva nessuno, ci si poteva andare solo con una barca, e Alfio conosceva un pescatore che ci portava per due lire ed è la spiaggia dove io e lui abbiamo fatto l’amore per la prima volta. Me lo ricordo come fosse ieri, mi ricordo soprattutto una grossa pietra rotonda sotto la scapola sinistra che poi mi è rimasto il segno per due settimane, ma lo stesso è stato bellissimo, con le lampare che lampareggiavano al largo e la spiaggia che si chiama spiaggia Vinci ma dovete conoscere il pescatore giusto, perché è una spiaggia piccolissima e nascosta, però non ci andate ad Agosto che davanti ci ormeggia il principe Carlo.
Insomma siccome ormai eravamo dall’altra parte, abbiamo deciso di completare il giro dell’isola, e siamo rimasti a bocca aperta quando abbiamo scoperto che la statale subito dopo era la 115 e non, toh, 652.
Allora abbiamo percorso tutta la 115, e mi ricordo che con Alfio siamo finiti a parlare di Nicola Arigliano senza capire bene perché, proprio nel momento in cui siamo entrati in un paese che era illuminato anche se era notte e in giro non c’era nessuno, e c’era questa specie di castello con le cupole a cipolla e le finestre ad ogiva, e dalla radio intanto usciva una canzone in arabo presentata da un DJ che parlava arabo anche lui. Alfio ha detto che era una radio tunisina che si riceveva fino a lì, e io vedendo le cupole e ascoltando la radio ho pensato qui non siamo mica in Sicilia, ho pensato, e nemmeno in California, qui siamo in Tunisia.
Alfio sosteneva che Nicola Arigliano era l’unico vero punkrocker italiano, chi se ne fotte se fa Jazz e ci ha ottant’anni. Io ho detto “e i Punkreas allora? E i Kina, e gli STP?” e tutti i nomi di gruppi punk italiani che mi venivano in mente e che mi piacciono da morire. Alfio diceva che erano tutti dei pessimi imitatori, che tanto vale comprare i CD dei gruppi inglesi e americani, mentre Arigliano aveva l’attitudine punk applicata all’Italia, qualsiasi cosa volesse dire, e infatti gli ho chiesto “in che senso?” e Alfio ha risposto che qualche sera prima aveva visto Arigliano in televisione mentre diceva che sarebbe andato a San Remo solo se lo avessero lasciato suonare coi suoi quattro elementi, senza orchestra, senza scaletta, improvvisando ché se no non si sarebbe divertito, e soprattutto fuori concorso, “dimmi tu se non sembrano i discorsi di uno sciroppato punkabbestia, non come Johnny Rotten che è finito a fare i reality show in Inghilterra” ha detto Alfio.
Alle cinque del mattino la 115 è diventata la 114, era-vamo stanchi morti, e all’orizzonte, sul mare che correva sempre alla nostra destra, abbiamo visto sorgere il sole, che voleva dire che eravamo sulla costa est, anche perché la 114 comincia a Siracusa e un minimo di geografia la sapevamo pure noi. Un po’ sopra Siracusa Alfio ha messo una cassetta di Industrial Metal che aveva nel cruscotto, una cosa tipo Nine Inch Nails, proprio mentre attraversavamo quella che al telegiornale, quando ci muore qualcuno, chiamano La Maggiore Concentrazione di Impianti Petrolchimici d’Europa, una cosa da andarci fieri uno direbbe, e invece se io abitassi da quelle parti un po’ lo odierei quel posto e preferirei morire di fame piuttosto che lavorarci vent’anni e poi morire lentamente, chessò, di una qualche malattia incurabile. E a passare attraverso tutte quelle ciminiere che ci abbiamo messo mezz’ora ad uscirne, con un puzzo tremendo, tutti quei tubi, le superfici metalliche, il fumo che usciva a ton-nellate e in sottofondo l’indutrial metal, non lo so nemmeno io dove sembrava che fossimo, io a dirla tutta mi sa che il posto più vicino all’inferno che ho visto in vita mia è quello, ecco cosa mi ricordava.
Per fortuna dopo un po’ abbiamo quasi completato il giro e siamo arrivati dalle parti di Taormina, che sarà pure piena di turisti ma di essere bella è bella. Ci siamo fermati, abbiamo comprato un cornetto e ci siamo affacciati da quella specie di balcone che dà sull’Isola Bella. Di turisti non ce n’erano poi così tanti, e a un certo punto ho tolto della crema dalla faccia di Alfio, e lui ha detto “Adele” che mi ha messo in imbarazzo come l’ha detto, “Adele”, ha detto, “io ti amo”. A me è venuto di nuovo il panico, anche perché cosa vuoi rispondere ad una cosa così, “grazie”? E invece ho guardato Alfio, ho finito di pulirgli la faccia, gli ho dato un finto cazzotto sul petto, e ho detto semplicemente “lo so”, proprio come avrebbe fatto Han Solo, e ci siamo baciati anche se era chiaro che quella non era la risposta che si aspettava Alfio, ma io ero felice lo stesso, affacciata a quella balconata, il mare da una parte, l’Etna dall’altra, e pensavo alle palme, e al nonno, perfino a Nicola Arigliano, ero proprio felice, non me ne fregava niente di niente, in quel momento tutto quello che volevo era essere ibernata nella grafite.