di Mauro Mirci
Il paese ci accolse in silenzio. Il comandante precedeva la colonna sul suo grande cavallo nero; aveva l’aria spavalda, come sempre. Non gli avevo mai visto mostrare indecisioni e a volte mi faceva paura l’assoluta inespressività dei suoi occhi. Avanzavamo in mezzo alla polvere che le scarpe malandate dei soldati sollevavano dalla trazzera ripida e irregolare. Giunti all’altezza delle prime case la trazzera si mutò in un acciottolato irregolare, meno ripido ma ugualmente polveroso. Il caldo era atroce e le borracce erano vuote anche se erano passate solo due o tre ore da quando le avevamo riempite l’ultima volta.
Dalle minuscole porte dei bassi ci scrutavano donne tristi e rattrappite, vestite di nero. Un vecchio piangeva in silenzio. Uomini dall’espressione sperduta ciondolavano indecisi per le strade.
Mentre scalavamo il versante sul quale si affacciava l’abitato li avevamo visti, quegli uomini. Scuri di barba incolta, rimanevano a osservarci dall’alto, accoccolati sui talloni e con le mani giunte in mezzo alle cosce. – Occhio! – aveva esclamato il comandante Bixio. – Se fanno segno di spararci o di rovesciarci addosso sassi o altre porcherie, ammazzatemeli tutti. – Ma quelli erano rimasti immobili, disinteressati spettatori, a guardarci; come se il nostro arrivo riguardasse altri.
Nella piazza principale vedemmo i primi segni del massacro. L’edificio del catasto bruciato; macchie di sangue sul selciato davanti al portone di un grande edificio dalla facciata barocca. – Hanno scannato pure il notaio – sentii mormorare da un soldato della mia compagnia. Intimai il silenzio.
Dall’alto del campanile pendeva un tricolore. Il vento lo aveva arrotolato contro l’asta e solo un misero lembo rosso riusciva a sventolare. Senza energia.
Ci acquartierammo nel municipio, che dava sulla piazza principale e sorgeva proprio accanto al catasto con le imposte carbonizzate e il tetto crollato. Mentre ci sistemavamo alcune persone si avvicinarono al comandante. Avevano atteggiamento umile e strizzavano le coppole tra le mani. Gli dissero qualcosa che, troppo distante, non sentii. – Andate – rispose brusco il comandante. – Io non sono quel minchione del Poulet.
Gli uomini che arrestammo urlarono e giurarono la loro innocenza. – Nenti fici. Nuddu mazzai. U viditi comu sugnu? – urlava uno di loro. Arrivava, in altezza, appena al petto dei soldati che lo strattonavano e non capivano le sue parole perché erano quasi tutti liguri e lombardi. Il sindaco del paese fu l’unico che si comportò con dignità. – Ho fiducia nella giustizia dei liberatori di questa nostra isola sfortunata – proclamò al sottufficiale che gli metteva i ferri ai polsi.
Degli altri tre non ricordo molto. Per la verità ho cercato di dimenticare. Di uno so che era molto giovane – sui vent’anni, o poco più. Mi somigliava, anzi, avrei potuto essere io se la mia famiglia non fosse fuggita via dalla Sicilia dodici anni prima, portandomi, ancora bambino, con sé. Faceva il taglialegna, e aveva braccia robuste e grandi mani callose.
Il giorno dopo giunse la Commissione di Guerra per giudicare gli arrestati. La presiedeva un maggiore cinquantenne dalla faccia paffuta. Non riuscivo a immaginarmelo con la toga del giudice. Volle parlare col comandante e gli chiese dove avesse rinchiuso gli assassini. Poi discussero a lungo su quale fosse il posto migliore per la fucilazione. – In bella vista – disse il comandante. – Che sia d’esempio. Però un posto sicuro. Che non rimbalzi qualche palla e non acciacchi qualcuno. – Avete avuto problemi a prendere il paese? – chiese il maggiore. – Nessuno, per loro fortuna – disse il comandante. – Solo quello ci sarebbe voluto. Versare ancora sangue per dare a questi animali una libertà che nemmeno capiscono.
Il tribunale si riunì nell’aula consiliare del municipio. Il processo durò in tutto meno di quattro ore. Alle dodici vennero notificate le accuse agli imputati e fu detto loro che le testimonianze a discolpa avrebbero dovuto essere presentate entro le quattordici. Alle tre del pomeriggio si presentarono due preti che il maggiore ricevette solo per rispetto del loro abito. Rimasero a colloquio nel municipio per dieci minuti o poco più. Poi vidi emergere l’ufficiale dal portone; uno dei due preti, il più anziano, lo tratteneva per la toga, mentre l’altro, pallidissimo, rimaneva in disparte. – Signor giudice, in nome di Nostro Signore… – E’ tardi – Ma è un’ingiustizia. Il sindaco Lombardo era in guardina quando è successo tutto. Lo hanno arrestato la mattina stessa che è stato affisso il decreto di disarmo. – Si era detto alle quattordici. La testimonianza non è ricevibile. – Il maggiore liberò la toga dalle mani del prete e lo fissò sprezzante. Poi andò via.
Alle dieci di sera fu pronunciata la sentenza: pena di morte per fucilazione. Alle dieci e quindici minuti il comandante mi fece chiamare. – Miceli, comanderà lei il plotone di esecuzione. Domani alle otto del mattino sul piano di San Vito, contro il muro della chiesa, sul lato della canonica. – Sentii un sudore freddo corrermi lungo la schiena.. – E’ impallidito, Miceli. Sta bene? – Vorrei essere esentato, colonnello. – Non dica bestialità. Può andare.
* * *
Il rasoio scorreva docile sulla mia pelle abbrustolita dal sole inclemente di quell’agosto terribile. Seduto su una cassa delle salmerie me ne stavo davanti al municipio, sotto la chioma di un grande ippocastano. Mi radevo alla luce del sole appena sorto, godendo del silenzio in cui il paese era ancora immerso. Sentii il nitrito di un cavallo, le imprecazioni di una sentinella cui tardavano a dare il cambio. Lo specchietto incrinato nel quale mi riflettevo bastava appena a contenere metà del mio viso, e mentre indispettito cercavo la posizione giusta per la passata successiva, notai qualcosa. Una scritta sul muro della chiesa, proprio dove avremmo fucilato i cinque condannati.
Mi levai di scatto. Stavo per chiamare a gran voce la sentinella e rimproverarla, forse anche denunciarla per inettitudine, perché quella scritta, la sera prima, non c’era. Poi lessi la parola per il verso giusto: LIBBERTA’, scritto con la parte carbonizzata di un tizzone. Ristetti. Cosa ci faceva una parola così in quel paese di senza Dio? Avevano ammazzato donne indifese, scaraventato infanti giù dai balconi, massacrato uomini perbene senza alcuna pietà. Che ne sapevano della libertà quegli uomini che, con le mani tra le cosce, ci avevano visto giungere al paese senza opporsi, pure se sapevano che portavamo con noi la punizione per le loro colpe? Quella terra bruciata dal sole e dall’avidità dei baroni, immersa nel silenzio e nella paura, poteva celare in sé una consapevolezza di libertà?
Che ne sapeva quel paese delle parole e degli ideali che avevano infiammato il mio animo di ventenne e mi avevano ricondotto nella terra dalla quale i miei genitori erano stati costretti a fuggire?
Mi costrinsi a rievocare i ceffi dei condannati. Cercai di rappresentarmeli in mente: sguardi obliqui di chi cela una natura violenta; fronti sfuggenti dell’individuo dedito al vizio e alla violenza. L’analisi fisiognomica di quegli uomini non mentiva, mi dissi, e veniva confortata nelle sue conclusioni dai fatti nei quali erano coinvolti. Cercai di convincermi che meritassero la condanna. Non ci riuscii. Mi tornò invece in mente il nano. U viditi comu sugnu? Rividi i suoi occhi pieni di terrore.
Terminai di sbarbarmi meccanicamente. Poi indossai la giacca dell’uniforme e il cinturone. Controllai che la sciabola fosse lucida. Provai il movimento che avrebbe ordinato il tiro. Ordinai al sergente di compagnia di far preparare gli uomini. – Faccia loro lucidare i fucili. Ultimamente ho notato troppa ruggine. Oggi avremo tutti gli occhi su di noi.
Il comandante Bixio mi raggiunse pochi minuti dopo. – E quella scritta? – mi chiese. – Non so. Ieri sera non c’era. – Consegni la sentinella… E la faccia levare. Per l’ora dell’esecuzione voglio quella parete pulita.
Trasmisi l’ordine al sergente, che a sua volta incaricò due soldati semplici. Lavarono la scritta con lisciva e dure spazzole dalle setole metalliche. In meno di mezzora il muro della chiesa non recava più tracce di libertà.
* * *
Avevo già combattuto. Avevo già ucciso. Ma quella cosa non era combattere, non era uccidere in battaglia. Non era nemmeno comandare una compagnia nell’assalto ed esporre per primo il petto al fuoco della fucileria nemica. Cinque uomini stavano inginocchiati, col viso rivolto al muro della chiesa. Il taglialegna piangeva. Da quando si era appartato con la madre, che aveva voluto sussurrargli la sua benedizione, non riusciva a frenare i singhiozzi.
Mentre sollevavo la sciabola sopra la testa e i soldati puntavano le canne dei fucili contro le schiene dei condannati, pensai di ammutinarmi. Quel pensiero esplose improvviso, in un istante, occupò tutta la mia mente. Mi immaginai gettare la sciabola per terra e urlare: “No”. Mi vidi già inginocchiato di fronte al muro della chiesa, attendere la scarica che avrebbe punito la mia ribellione.
Il silenzio era assoluto. Anche il taglialegna aveva smesso di singhiozzare. Tutti attendevano l’ordine. La sciabola pesava come tutto il mondo, come tutte le istanze di libertà di ogni popolo oppresso, come il dolore di ogni madre che deve vedere il figlio morire, ammazzato davanti ai suoi occhi.
Colsi con la coda dell’occhio un movimento. Il comandante Bixio mi si avvicinò con il suo passo svelto da brevilineo. – Cos’è, Miceli, debolezza di palle? – mi sussurrò ironico. Sentii una rabbia improvvisa montarmi dentro. Un’onda irresistibile di furore si impadronì di me. I miei occhi si riempirono di lacrime e le vene del collo divennero gonfie e turgide. D’improvviso la sciabola non mi sembrò più tanto pesante. Avrei voluto rotearla contro il viso irridente del comandante, spargere il suo sangue sulla polvere del sagrato e gridare Libbertà come avevano urlato gli uomini contro il muro.
Non so come successe. Un buon soldato deve obbedire agli ordini, non pensare. E anche quando pensa deve fare in modo che gli ordini vengano sempre eseguiti.
Calai con decisione la lama verso terra.
Quando urlai Fuoco avevo gli occhi chiusi.
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