di Girolamo Grammatico
Pyongyang, punto.
Credo che la recensione migliore per un libro del genere sia ripeterlo all’infinito fino a sfinire la gente in modo che corra in libreria a comprarlo.
È inutile descrivere ciò che narra. Completamente inutile. Bisognerebbe scrivere un altro libro, ma dovrebbe farlo uno scrittore serio, di quelli letti, di quelli bravi, almeno per pareggiare i conti.
Guy Delisle con il suo tratto minimalista sfonda una realtà orwelliana muovendosi solo sulle tonalità di grigio, ottimo rappresentante di una città agonizzante, e ce la presenta in un reportage che rimane, al tempo stesso, surrealista e documentarista.
Tutto ciò che accade è reale, purtroppo, ma la visione che l’artista ci offre vibra, con fare danzante, dall’inquietudine all’ironia senza lasciare mai il tempo, al lettore, di soffermarsi, troppo, su un unico sentimento. L’immobilismo che regna a Pyongyang aleggia nel sospensionismo delle tavole, ma non avvolge mai la totalità dell’opera, grazie ad una narrazione efficace e pungente.
Guy Delisle ha scritto un libro di sociologia. Ha rappresentato un documentario. Ha raccontato una storia. Ha fatto un salto quantico che in un periodo come questo riesce a fare solo la tecnologia. Dire che il libro non è etichettabile è banale, ma mai, forse, è stato così vero.
Dire che è un capolavoro non fa che aggiungere il libro nel marasma di capolavori che vengono proposti in rete e su carta ogni tre uscite, ma non si può non pensarlo.
Invito tutti a leggerlo e a proporlo ad amici e conoscenti.
A mio avviso andrebbe studiato a scuola, proposto nelle università, commentato nei circoli intellettuali.
C’è una città, ragazzi, dove un popolo è schiavo di un regime gretto e inutile. Dove si venerano persone come fossero dei e dove l’originalità, la creatività, il dubbio e il dinamismo sono demoni contro cui combattere. Dove l’ironia è un ombra che non rinfresca dalla calura dell’oppressione. Dove l’individuo è una divisa, una forza lavoro, un oggetto in un territorio desolato.
Esiste una città che si chiama Pyongyang. Sembra una città d’altri tempi, di un mondo inventato, sembra la realizzazione delle paure di uomini al limite della libertà … sembra tante cose, ma il problema è che è tutto vero… non è solo un fumetto!
Credo che la recensione migliore per un libro del genere sia ripeterlo all’infinito fino a sfinire la gente in modo che corra in libreria a comprarlo.
È inutile descrivere ciò che narra. Completamente inutile. Bisognerebbe scrivere un altro libro, ma dovrebbe farlo uno scrittore serio, di quelli letti, di quelli bravi, almeno per pareggiare i conti.
Guy Delisle con il suo tratto minimalista sfonda una realtà orwelliana muovendosi solo sulle tonalità di grigio, ottimo rappresentante di una città agonizzante, e ce la presenta in un reportage che rimane, al tempo stesso, surrealista e documentarista.
Tutto ciò che accade è reale, purtroppo, ma la visione che l’artista ci offre vibra, con fare danzante, dall’inquietudine all’ironia senza lasciare mai il tempo, al lettore, di soffermarsi, troppo, su un unico sentimento. L’immobilismo che regna a Pyongyang aleggia nel sospensionismo delle tavole, ma non avvolge mai la totalità dell’opera, grazie ad una narrazione efficace e pungente.
Guy Delisle ha scritto un libro di sociologia. Ha rappresentato un documentario. Ha raccontato una storia. Ha fatto un salto quantico che in un periodo come questo riesce a fare solo la tecnologia. Dire che il libro non è etichettabile è banale, ma mai, forse, è stato così vero.
Dire che è un capolavoro non fa che aggiungere il libro nel marasma di capolavori che vengono proposti in rete e su carta ogni tre uscite, ma non si può non pensarlo.
Invito tutti a leggerlo e a proporlo ad amici e conoscenti.
A mio avviso andrebbe studiato a scuola, proposto nelle università, commentato nei circoli intellettuali.
C’è una città, ragazzi, dove un popolo è schiavo di un regime gretto e inutile. Dove si venerano persone come fossero dei e dove l’originalità, la creatività, il dubbio e il dinamismo sono demoni contro cui combattere. Dove l’ironia è un ombra che non rinfresca dalla calura dell’oppressione. Dove l’individuo è una divisa, una forza lavoro, un oggetto in un territorio desolato.
Esiste una città che si chiama Pyongyang. Sembra una città d’altri tempi, di un mondo inventato, sembra la realizzazione delle paure di uomini al limite della libertà … sembra tante cose, ma il problema è che è tutto vero… non è solo un fumetto!