di Marco Scalabrino
Adagiata in una sorta di spleen, l’una all’altra addossate, una esigua compagine di case. Povere. Ma di quella indigenza, diffusa or sono mezzo secolo e più alle nostre latitudini, di cose; non certo di affetti, di umanità, o di valori.
Un passo appena, giusto l’intervallo per varcare la soglia di uno improbabile star-gate, ed ecco quello scenario catapultato a distanza di decenni.
Nelle dimensioni del TANNU e dell’ORA, la parabola parrebbe, dunque, venire a compimento. Ma …
Sono grato a Giacomo Luzzagni per avermi fatto grazioso omaggio del suo volume. Sono questi i gesti che, oltre a manifestare in modo concreto la stima verso i simili, contribuiscono a corroborare i sodalizi umani, che altrimenti rimarrebbero ad uno scalino di perenne precarietà.
Da qualche anno frequento Giacomo Luzzagni, quale fondatore e direttore della VENILIA EDITRICE e della rivista LA Nuova TRIBUNA LETTERARIA, e tuttavia, nonostante il mio interesse verso il nostro Dialetto e i nostri autori dialettali, non conoscevo questo scritto. Diciamo, però, che delle attenuanti specifiche mi soccorrono.
L’attuale pubblicazione ( non a caso rimarco ” attuale ” ), di cui si apprezza la delicata china in copertina di N. Sturiale e la conveniente veste editoriale, l’Autore in persona ce ne rende edotti, apprendiamo in realtà essere la ristampa della silloge dall’identico titolo che, nel 1969, ne contrassegnò l’esordio artistico.
La prefazione di Giuseppe Cavarra, già di per sé un ottimo viatico, e le note informative dello stesso Giacomo Luzzagni ci sono preziose al fine di cogliere lo spirito dell’odierna operazione, nonché, come appureremo, di esplorare la ” materia ” di cui l’opera medesima consiste. L’Autore, difatti, ci illustra i motivi della ripubblicazione: le 500 copie della prima edizione esaurite e la ripresa della sua attività poetica, ci partecipa della esigenza della rivisitazione con modifiche della riscrittura, ce ne rende esplicite le novità più rilevanti che albergano nella aggiunta di un – solo – testo: CANTU, posto all’inizio in una sorta di proemio, nelle traduzioni in lingua italiana, nella sua opzione di conformità a certe regole ortografiche …
Ecco allora, per ricollegarci e dirimere la sospensione d’apertura, appare in tutta evidenza che NON DUE, il TANNU e l’ORA, MA BENSÌ TRE sono gli stadi che attengono alla visione complessiva, e quindi alla comprensione, di questo lavoro: il TANNU, da situare tra i caratteri, le masserizie, i colori di quelle dimore; l’ORA, che agli sgoccioli degli anni Sessanta ne storicizzò, dandoli alle stampe, i ” sentimenti “; l’OGGI, nel quale, dopo un lungo periodo di confino in balia delle ingiurie del tempo, gli stessi sono stati recuperati.
Le tre dimensioni sono destinate, nella loro ” allungata ” unicità, a intersecarsi, in un continuo andirivieni nel tempo e nello spazio a confondersi, sulle ali della poesia a stabilire una scambievole, lirica connessione. Sì che, quanti oggi abbiano la ventura di imbattervisi, gli inquilini ” storici ” o gli eredi di costoro, vi si possano riconoscere, tuttora compiacere, struggere alle voci ” vive ” che vi abitano, al calore umano che vi vibra, alla tenerezza che vi traspira.
Si discorreva poc’anzi delle case. Di una di esse in specie, cui necessariamente perveniamo seguendo un percorso obbligato, Giacumineddhu ci spalanca l’uscio.
E scorgiamo, appena sporgendoci, che, malgrado l’accorata implorazione della madre < resta cca; / un pezzu i panu duru / non ti mmanca >, a vent’anni < carusu ancora > egli lascia la sua Sicilia, < non c’è tera gghjana: / unni vaddi vaddi sempi viti / o mari funnu o jàuti muntagni >, il proprio piccolo universo e si tuffa nell’avventura del < munnu ranni >.
Nel prosieguo, come per ciascuno di noi o dei nostri parenti o amici che abbia vissuto il dramma dell’emigrazione, incalzato dalle vicende della vita e costretto in fretta a maturare, passerà all’adulto Giacomo Luzzagni un prezioso testimone: la reliquia custodita nella teca del suo animo, l’icona di quel lembo di terra da cui prorompono le sue scaturigini, il sacro nome del suolo delle sue radici: Santa Margherita, in quel di Messina.
E, coinvolto com’è nella schietta tempra di quei ” sentimenti “, nella loro solida fattura, nella loro intatta fruibilità, amorevolmente oggi restauratili, quest’ultimo ne ha allestito una luminosa immagine olografica: Giacumineddhu e Giacomo che si incontrano e assieme, sottobraccio, si incamminano verso l’assoluto.
Il testo ci offre gratuitamente delle notazioni interessanti: < la matrice culturale sotto il segno di Pascoli >, la singolarità circa la doppia ” r ” che < non facciamo mai sentire: carettu, cùriri, birittu … >, le cinque quartine del testo programmatico CANTU, eccetera. Altri aspetti mi preme pertanto accentuare.
” Poesie in dialetto siciliano secondo la parlata maggaritana ” recita una delle notazioni, e più avanti: ” Santa Margherita villaggio del Comune di Messina nella vallata Santo Stefano è il mio paese d’origine, alla cui lingua, con le sue peculiarità rispetto ad altri vernacoli, ho cercato naturalmente di adeguarmi “.
Essa ci offre lo spunto per affrontare un tema che, tutt’oggi, investe buona parte degli scriventi in Siciliano, o quantomeno i più avvertiti, coloro che cercano di porsi in maniera seria al cospetto del Dialetto.
Il problema afferente alla scrittura del Siciliano non è di agevole soluzione. Da oltre un secolo, dall’Unità d’Italia e dalla affermazione del Toscano quale lingua dei sudditi del Regno che avrebbero dovuto decretare la scomparsa dei dialetti della penisola – Siciliano compreso di conseguenza, a dispetto del suo plurisecolare passato di storia e i poeti che l’avevano celebrato – esso è all’ordine del giorno. Ammesso che prima vi sia stato, non vi è più un criterio univoco di trascrizione del Siciliano, e tutto è demandato alla disciplina, al buon senso, al gusto degli scriventi. E dunque come venirne a capo?
La questione, riproposta non da ultimo da taluni poeti e letterati isolani nel secondo dopoguerra del Novecento, non ha sortito il florilegio di studi auspicabile, e tutto si è ricondotto alla tensione ideale verso una unità ortografica della scrittura, alla proclamazione di principio che vengano dettate alcune regole ortografiche comuni; elementi propizi ed opportuni sottolineano gli studiosi quantunque non necessari e di non facile praticabilità.
In questo clima, in relazione ad esempio a uno fra i poeti più grandi del Novecento appunto, Alessio Di Giovanni che entrambi in epoche successive li praticò, gli esperti hanno individuato due grandi aree: quella del metodo etimologico, che attiene all’origine, alla derivazione, alla ricostruzione dell’evoluzione delle parole, e quell’altra del metodo fonografico, ovvero della trascrizione fonetica della parlata, benché questa sempre diversamente modulata da ognuno dei parlanti.
Giacomo Luzzagni, nel constatare che < Non è stato sempre facile tradurre in segno scritto il suono delle parole >, dà prova di avere effettuato una chiara scelta di campo, sebbene – come ricordato – mediata da una < rivisitazione con modifiche della riscrittura >, rispettosa di < certe regole ortografiche >, ossequiosa di una coerenza interna.
La citazione precedente circa la Sicilia, che comunque si riporta perché notevolmente bella e azzeccata: < non c’è tera gghjana: / unni vaddi vaddi sempi viti / o mari funnu o jàuti muntagni >, ci dà l’abbrivio per una ulteriore considerazione riguardo a una tra le specificità del nostro dialetto: il raddoppiamento delle parole omogenee.
< Il raddoppiamento – scrive Luigi Sorrento in NUOVE NOTE DI SINTASSI SICILIANA – o la ripetizione di un avverbio ( ora ora, rantu rantu ) o di un aggettivo ( nudu nudu, sulu sulu ) comporta di fatto due tipi di superlativo: ora ora è più forte di ora e significa ” nel momento, nell’istante in cui si parla “, nudu nudu è ” tutto nudo, assolutamente nudo “. I casi di ripetizione di sostantivo ( casi casi, celu celu, nel nostro frangente: vaddi vaddi, vineddhi vineddhi, mura mura, strati strati ) e di verbo ( cui veni veni, unni vaju vaju ) sono speciali del Siciliano. ” Strati strati ” indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di ” estensione ” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. ” Cui veni veni ” intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente. >
Introduciamo, prima di esporre delle altre valutazioni, una brevissima digressione, un intrigante slalom ( del tutto soggettivo, s’intende ), un bizzarro gioco se preferite, tra i versi di ORA E TANNU:
U suli lluci ma non nni quaddìa
U tempu nni spappàgghia.
A prèscia nta l’ossa avemu
I ranni non sunnu cchjù carusi.
Ora ritonnu e u cori mantacìa
Sicilia unni si cianci novi misi.
T’avissi scutatu, ma’!
A una a una si stutàru i stiddhi.
Lungi dall’essere una fiera di ricordi usati, quella di Giacomo Luzzagni è essenzialmente poesia di memoria; di recupero e riproposta della memoria. E perciò popolata di parole, luoghi, persone, eventi.
La parola, per prima, ( Stéphane Mallarmé, Non è con le idee che si fanno i versi: è con le parole ) che rifulge di termini assolutamente distintivi: rupizzari ( rattoppare ), bbissola ( sedili ), firinghiddu ( girandola ), quagghiu ( < letteralmente caglio ma, riferito alla persona, la parte più intima e spirituale: l’anima, anche se Giuseppe Cavarra avrebbe preferito: cervello, perché sede materiale delle più elevate funzioni intellettuali ed affettive > ), sampetru ( piena della fiumara ), zaggàru ( fiele ), bucalaci ( conchiglie ), praneta ( aquilone ), sconzu ( fastidio ), cosuna ( pantaloni ), tafarìa ( vassoio ) –
i luoghi: Òttira e Gghianu î Bagni località agricole del territorio di Santa Margherita, via Dammusu la sua casa nativa, e poi Vaddhuni, Conicèddha, Llaggàra, Locu, Çiumidinisi –
le persone ed i personaggi: Peppina Geraci, soprannominata Mbivijàqcua, la madre, Santu Passalacqua conosciuto per le sue ” esagerazioni “, Çina Maria, Mmari Rosa, Cuncetta, Petru Mpullinu, Don Tanu, Don Pippinu, Donna Cìccia, Don Gaitanu –
gli eventi: il terremoto del 1968, il distacco in occasione delle partenze per il continente, i funerali < la pietosa usanza del trasporto a spalle della bare dei defunti >, la processione per la festa della Patrona con la < vara > che procedeva < nnacannu >.
Taluni componimenti, a tratti ovviamente e con i dovuti distinguo, hanno richiamato alla mia memoria gli ambienti di Spoon River di Edgar Lee Masters.
C’U SAPI A ST’URA CHI FA?, ad esempio, mi pare vagheggi LA COLLINA, la dove Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley cedono il passo a Pippinu Naseddha, Ciccinu Mbivijàqcua, Don Puddhu, Brasi, Praciteddhu; l’anafora: Dove sono? viene resa con: C’u sapi a st’ura chi fa?. Manca invero la ” collina “, ma ” quella ” suggestione vi aleggia tutta.
E CÂ FACCI Ô SULI inoltre e NONNU MITATERI, A PETRU MPULLINU, SANTU L’OBBU, LASSÀTIMI CCA, e beninteso CUDDUREDDHA ( soprannome dato alla bambina trovata sotto le macerie del terremoto del Belice ) rimandano a quelle pagine imperiture.
Mi avvio alla conclusione – ma ciascuno dei lettori potrà concorrere con le proprie riflessioni ad ampliare ed integrare la ” lettura ” di questo volume – con un paio di osservazioni finali.
Alcuni testi, perlopiù quelli di ” ambiente ” popolare, agreste, o ludico sono assai prossimi e a segmenti ricalcano le cantilene, le filastrocche, le svariate espressioni del canto, le quali a mo’ di colonna sonora ripercorrono quei fotogrammi.
Una rara prerogativa, infine, risiede nell’uso di un inusitato parametro: un’inedita applicazione, che vede il comparativo di maggioranza di norma indirizzato all’aggettivo associarsi all’accrescitivo del sostantivo, dagli effetti molto seducenti: cchjù rannuni nel significato di: molto più grandi, cchjù rannuna nell’accezione di: ancora più grande.
Ha avuto ragione Giacomo Luzzagni a volere riproporre ORA E TANNU.
Ora e tannu è edito da Venilia editrice