di Mauro Mirci
In un paese siciliano senza nome, Matteo Micciché, critico musicale misantropo e astioso, recensisce per il Gazzettino gli spettacoli lirici del locale teatro. I suoi articoli gli attirano l’antipatia dei musicisti e degli artisti, ma anche quella di alcuni personaggi le cui attività, per motivi non del tutto chiari, ruotano attorno al teatro medesimo.
Micciché è incapace di indulgenza, le sue recensioni sono una dura e costante reprimenda del pressappochismo e dell’incapacità con i quali vengono rappresentati gli spettacoli, ma anche un modo di opporsi al mondo che lo circonda, che lui rifiuta e dal quale è rifiutato.
Per una questione di cappelli la triste routine della vita di Micciché ha una svolta. Ignoti trafugano il suo panama. Micciché associa l’episodio a un altro, verificatosi tempo prima: aveva dimenticato il panama sulla poltrona di un cinema.
La maschera, solerte, glielo fa notare, ma anziché il panama, gli restituisce una coppola. Le strane vicende che coinvolgono i suoi cappelli sono la classica goccia che fa traboccare il vaso colmo di idiosincrasie e disagio che la mente di Micciché rappresenta. Convinto di trovarsi al centro di un complotto ordito dai suoi numerosi nemici, il critico si chiude in casa, manifestando, chiari, i sintomi della malattia mentale. Viene richiuso in clinica, dove troverà l’amore, ma un amore imperfetto, che sarà, in ultima analisi, la vera causa del suo declino definitivo e del precipitare degli eventi che coinvolge gli altri personaggi del romanzo.
Come il filosofo greco citato nel titolo, anche Matteo Miccichè vive nell’isolamento e scaglia sdegnate invettive contro ciò che considera un establishment gretto e pasticcione. E, come Eraclito, anche Miccichè costruirà con le proprie mani un destino di solitudine e sofferenza.
Eraclito e il muro, però, è essenzialmente un libro divertente, frutto dell’onesto desiderio di raccontare storie, un libro che si legge d’un fiato. Cinzia Pierangelini lo popola di personaggi tragicomici, bozzetti, figure che se potessero migrare in un fumetto dovrebbero essere disegnate da Horacio Altuna . Chiaramente archetipi, ma funzionali a una storia dove conta non tanto l’invenzione spiazzante, quanto il piacere del “cunto”, dell’affabulazione pura. E del “cunto” questo libro ha molto, a cominciare dagli ampi e frequenti inserti in siciliano – mai in corsivo, a significare che non si tratta di note di colore, bensì della lingua propria della narratrice.
Il romanzo è anche una storia piena di richiami letterari. Il critico Micciché viene rinchiuso in clinica, ne esce e si vendica dei suoi nemici, così come Edmond Dantès, fuggito dal castello d’If, si vendica dei suoi. Il rapporto conflittuale che, per il tramite delle fobie di Micciché, si crea tra i panama perduti e le coppole che gli vengono fatte trovare in sostituzione, evoca il racconto Libertà, di Verga, nel quale i popolani davano la caccia ai signori chiamandoli “cappelli”.
Infine, il muro. E’ il muro del regio teatro della città, al quale vengono affissi i cartelloni della stagione lirica, e sul quale pennelli maneggiati da mani sconosciute riepilogano, con frasi stringate e pungenti, le vicende paesane. A un certo punto sarà tinteggiato di bianco dall’amministrazione comunale. Le vecchie scritte soccomberanno alla spinta normalizzatrice del potere, anche se è un potere piccolo, locale e alla buona. Nuove scritte, ancora più evidenti, le rimpiazzeranno.
Cinzia Pierangelini. Eraclito e il muro. Ed. GBM , Messina, 2006. Pp. 155, € 12. ISBN 88-7560- 010-4