di Marco Scalabrino
La tentazione, non appena l’hai ricevuto, è quella di lasciarlo scivolare, destramente, nella tasca della tua giacca e da qui, senza ulteriori indugi, distrarlo nell’archivio morto della memoria. E gli appigli, in apparenza, ci stanno tutti: le dimensioni ridottissime, il corpo minuscolo e leggero del carattere che spavaldamente ti preannuncia la fatica alla quale dovresti sottoporre i tuoi occhi, le pagine: poche, spoglie. E come non bastasse… Dov’è la prefazione? E l’indice? Oddio, manca finanche la numerazione!
Passiamo ad altro! – verrebbe la voglia di dire. E invece, no. La curiosità, quella sana curiosità che ci avvince ogni qual volta ci si trova al cospetto di un testo nuovo – nuovo in quanto non conosciuto – è tanta, irrefrenabile. E l’amore per la Poesia, per il Siciliano, come sempre ci vince, ci convince. E allora beviamo, tutto d’un fiato, questo calice di inchiostro.
Ed ecco scopriamo che le dimensioni, il carattere, il titolo … non sono ingenuità, artificio, peccato. Essi sono, invero, la quintessenza di questo lavoro e si offrono, candidamente, al Lettore a significare la prima delle molteplici chiavi di lettura dell’opera stessa. Chiavi di lettura che, come in un gioco ad incastro a più livelli successivi, sovrapposti, ci introdurranno in questo prezioso scrigno, ci consentiranno di navigare agiatamente in questo universo virtuale, ci permetteranno di accedere responsabilmente a questa delicatissima miniatura. Chiavi di lettura oltretutto che, come vedremo di qui a poco, sono immediatamente, naturalmente, gratuitamente nella disponibilità del Lettore.
A volte, in specie all’inizio del testo, esse si presentano singolarmente, ognuna nella propria individualità, distintamente; in altre occasioni, nel prosieguo dello stesso, esse pure si combinano per tratteggiarlo, con le tinte più decise che loro derivano dall’unione.
E con la prima chiave appunto, l’Autore manifesta la propria volontà di porre in essere un contatto diretto con il suo Lettore, una sorta di familiarità, di confidenza. Una complicità programmatica che egli vuole si instauri e li leghi. Egli infatti intende, d’ora in avanti e per sempre, rapportarsi a noi come un tascabile; vuole essere insieme a noi, addosso a noi, comunque, in ogni istante. E per suscitare questa complicità egli, gradatamente, si svela. Ne acquisiamo infatti, sin dalle primissime battute, un importante dato anagrafico: egli è un giovane “ora comu ora / a morti para / na cosa / impossibbilissima ”; un giovane schivo che si offre del tutto disadorno: non un indizio biografico infatti è presente, né una foto; nessun cenno ad altre opere, nessun orpello critico; un giovane che ci parla sempre in prima persona, sebbene con un filo di voce “abbaiu pianu sti / paruleddi ”.
E al contempo, direttamente collegata alla prima, ecco già configurarsi la seconda delle chiavi: lo Scrivere “ scriviri… ca para e nun para”; il sortilegio dello scrivere “pigghiavu, / a mmenti, / du palori: / ncucchiavu, mi piaceva ” ; l’urgenza di scrivere “scrivu / picchì / mi mangiunu i manu”, “scriviri / scriviri senza / stancarisi”.
Uno scrivere che, di volta in volta, si fa ricerca interiore “Mi scavu intra o fogghiu”; liberazione “ora ca tuttu, no libbru, / ddiventa chiummu e nniuru / mi pozzu rripusari”; oblio “e tturnari / ne casciola”.
Ma scrivere cosa? Perché? – viene spontaneo chiedersi. Ed ecco, quasi avesse udito i nostri interrogativi, che la scrittura acquista una dimensione certa, definita, forte: quella della Poesia “poesii nichinichi”.
Una Poesia che affonda le proprie scaturigini nell’Amore e nella Vita, e della Vita e dell’Amore assume le fattezze: è irta di difficoltà “na strata curvicurvi”; è un percorso imprevedibile “ nunnnu sai mai / quannu finiscia, / quanna ffiniri”;
“è ttesta cauda / o sonnu ca nun vena?”.
L’Amore, dunque. L’Amore, la terza – o forse la prima, la fondamentale – delle chiavi. L’Amore movente di questo moderno, minimale Poemetto? O non invece il varco dalla Poesia prescelto per sgorgare, ancora una volta, fresca, irruente, armoniosa? Amore, mai apertamente dichiarato eppure costantemente in agguato, che irrompe, anch’esso, alla prima finestra utile “…nta stu iocu / nuddu vincia e nuddu perda”.
Un Amore grande “… pare unu sulu / quattru sbrizzi” , “mi dasti a vita”; che stravolge ogni riferimento temporale “u iornu è nnotti / rrusbigghiata”; “è ottobbri, / novembri, / cu sapi”; che sfianca “No vidi / ca semu tutti / peddi e ossa?”, “l’anni passati / mi sentu tutti / no calannariu / de dinocchia”.
Un Amore gagliardo “…ti vulissi / pigghiari / a pparoli”; “t’aiu nzurtatu na para di voti”; che si batte strenuamente per la propria sopravvivenza“ Mmazzimi / e stramazzimi. / Ma npaci, …nun miccilassari”; che, alla fine, pure è costretto alle corde “ora bbasta” , “Ora / ni putemu / sulu vaddari”.
Una esperienza, l’Amore, che se da un canto crea il Poeta, erige un monumento alla Poesia, d’altro canto mette seriamente a repentaglio l’Uomo; ne mina l’equilibrio “e m’ascordu cu sugnu” , “no sacciu unni vaiu”; lo rende solitario e insicuro “Ma spagnu, …di sulu a ssulu ”; lo estranea dalla realtà “u munnu / ora / cu sapi com’è” .
E tuttavia, pure nello sconforto “cchi / ccampu / a diri”; la Vita che, come la Poesia, tutto in un attimo brucia“ centu poesii / nta menza nuttata”, “a mmoriri / semu tutti sperti”; la Vita, la Poesia, hanno il sopravvento “tutti i cosi / s’aggiustunu …”, “menzumortu / ma ancora parrulìu”.
Amore per cosa? Per chi?
Per la Poesia, “u fogghiu, / figghiubbeddu, / iancu di latti ”; indubbiamente per la Poesia “i paroli mi o ccercu / una a una ”; solo per la Poesia che “… è / comu na cannila: / sciuscia ccà”.
La donna, quella donna anonima “A signurina cc’anfacci”; quella donna che l’Autore ha relegato nel Limbo del cuore di ogni uomo “arreri o vitru”; quella donna rinunciataria che “astutatu na vita vaddannu”; quella donna, che per un solo fugace attimo fa capolino… essa è solo “n’ùmmira”; non merita tanto struggimento, tanta passione, tanta devozione. Non può, non deve essere lei l’Amore!
E allora… la Poesia. La Poesia; all’altare della quale immolare tutto l’Amore.
La Poesia alla quale l’Autore, proprio come un innamorato, si rivolge appassionatamente sussurrando: “tutti sti carizzi / ca cciai / sabbili”.
Si accennava, in premessa, a molteplici chiavi. Altre interessantissime notazioni possiamo, infatti, trarre da questa silloge. Alcune di esse, correlate al codice di comunicazione, alle soluzioni ortografico-morfologico-sintattiche, all’impianto costruttivo adottati, sono evidentissime: le liriche molto brevi i cui versi, funzionalmente spezzati, sospesi, sottintendono la vocazione a concatenarsi, a connettere una pagina all’altra, in sostanza a un dispiegarsi monotematico proprio di una suite: “Chiddu ca t’ava ddiri / tu dissi… nunnanma ddiri / nenti cchiù”, “scinnu dò lettu / ccò pedi ggiustu… nesciu: / unni è / ll’aria?”, “i paroli mi o ccercu / una a una… ccà penna nte ita / a manu ferma / subbra u fogghiu”, “ti talìu / cche manu… ccà / ccì / sù / i / manu”, “chi / ccampu a ddiri… campu / pp’arriurdarimmillu” espressione di un sentire asciutto, minimalista, contemporaneo ricche di invenzioni poetiche di assoluto pregio “sta / quasi / chiuvennu. / U sentu / nte scarpi” , “nesciu: / unni è / l’aria?”, “poesii nichinichi / caramelli / ca sa schiogghiunu / na testa / mancutempu”, “no calannariu / de ginocchia”, “abbaiu pianu sti / paruleddi”, “ti talìu / cche manu”, “… l’ossa / ca ogni ssira appennu”, “u iornu è nnotti / rrusbigghiata”, “fazzu a fila / aspittannumi” pure, per un ancestrale retaggio fonografico, prevalentemente – ma non soltanto – dopo un monosillabo (sia esso l’ausiliare, l’avverbio, la particella pronominale, la congiunzione, la preposizione) piegano, la parola al raddoppio della consonante iniziale “bbona, bbasta, ccuccia, ccampari, ffattu, ffridda, mmenti, mmintari, nnenti, nnotti, ppassari, ppicca, rriparu, rrestu, ssira, ssulu, ttinta, ttesta…” tutte, esordiscono con la iniziale minuscola.
E ancora peculiare rilevanza assumono le espressioni legate, composte di cui Salvo Basso fa calibrato uso; locuzioni, sintesi di un sapiente combinato estetico-tecnico-contenutistico: ccabbannaddabbanna, figghiubbeddu, malibbenni, quannucomufù, culavaddiri, finanmumentufà, nichinichi…
E altre indicazioni potremmo altresì individuare nella interpretazione di alcuni singoli versi o nelle strutture di significato che essi evocano: “Di sti tempi… na poesia / nunnu sai mai / quannu finiscia”
Il poeta moderno, affrancato ormai dal giogo del verso costruito metricamente, emancipato dall’obbligo della forma predefinita – e nondimeno, suo malgrado, dal senso di protezione, di sicurezza che pure dalla forma gli derivava – appare smarrito, impreparato ad affrontare d’un tratto quella inaspettata, ritrovata libertà e avverte, quindi, tutta la precarietà della Poesia e forse della Vita stessa; “Sti quattru sbrizzi / ammenzu all’autri”, “antura pareunu sulu / quattru sbrizzi” per un attimo, avevamo immaginato “A signurina cc’anfacci” giovane; magari bella, perché no? Ma, un istante dopo, abbiamo appreso che “Idda / astatu na vita vaddannu”. E allora, quella donna – la cui vita dietro una finestra è scivolata via, come la pioggia, sempre uguale – giovane non è!
Da quale dei due componimenti – ci si interroga – prende titolo il libro?; “no calannariu / de dinocchia” le rughe sul viso, il tremolio delle mani, l’incanutirsi… sanno di stantio ormai, di ovvietà, di prammatica; non gli bastano più! E allora, il poeta, si inventa una nuova figura per rappresentarci il gravare degli anni.
Quattru sbrizzi… all’ennesima potenza!
QUATTRU SBRIZZI, di Salvo Basso. Edizioni Nadir, Scordia ( CT ) 1997.