di Roberto Di Maria
Raccomando la lettura di Paulu Piulu (Manni, 2005) di Giorgio Morale, scrittore siciliano che vive a Milano, agli amici siciliani e a tutti coloro che amano la lettura. Ecco una di quelle storie che hanno l’andamento della vita, che grazie a una scrittura serrata, moderna e vibrante risulta sempre intensa. Eppure non ci sono gli effetti speciali di tante scritture odierne, con profusioni di sesso e sangue. La storia è intensa semplicemente perché intensamente vissuta e rappresentata.
E’ intensa quando si parla del dramma della partenza: “Due valigie accanto alla porta, qualche cassetto aperto, qualche oggetto fuoriposto: tutto lì. Eppure contrastava tanto col puntiglioso ordine che abitualmente regnava nella casa, che questa sembrava sottosopra”.
O quando si parla della solitudine dell’emigrazione: “Alle sette ascoltavano il programma italiano a una radio avuta in regalo da gente che se ne doveva disfare. Mezz’ora: qualche notizia, qualche canzone. Poi a lavare i piatti e a letto. La domenica, chi aveva la forza di uscire? Al massimo, facevano quattro passi attorno all’isolato. Finiva che litigavano e rientravano bisticciati. Andavano a letto senza parlare”.
E’ intensa anche quando si parla della noia di un pomeriggio in casa: “Nei dopopranzo i mobili dormivano, e gli occhi, per quanto bussassero alla loro superficie, non ottenevano risposta. Solo le mosche, come Paolo, cercavano amicizia”.
I temi toccati sono tanti, pur nell’apparente linearità della vicenda. All’inizio siamo negli anni Cinquanta, in un paese della Sicilia splendidamente evocato. Paolo viene al mondo in una famiglia poverissima e segue i genitori da un trasloco all’altro, fino a quando vanno ad abitare in una casa messa a disposizione dalla fabbrica di cui il padre diventa il guardiano. Qui, quando finiscono i lavori, Paolo può spaziare nelle campagne attorno, riempiendo la solitudine con giochi e scoperte. Si sviluppa così una storia segreta, attraverso l’incontro con gli elementi naturali. Alla vita del nucleo familiare si affiancano personaggi forti – il nonno, la nonna, gli zii – e le situazioni tipiche di una società prevalentemente agricola: i lavori, i raccolti, le feste.
Alle soglie degli anni Sessanta il padre emigra in Germania e Paolo incontra nuove lacerazioni. La storia dell’emigrazione rivive nelle lettere e nei racconti del padre e di chi torna al paese: racconti in cui la miseria si mescola alla favola. Qualche anno dopo la madre raggiunge il padre in Germania e Paolo viene lasciato in Sicilia: prima in un pessimo collegio, dopo dai nonni. Nel frattempo ha scoperto lo spazio del pensiero, la parola, il libro.
Come in ogni vero scrittore, i temi toccati sanno farsi racconto, emergendo da fatti e gesti concretissimi. Si fa racconto la povertà: “Due soli erano i pasti: la colazione e la cena. Una diminuzione della pena era il sonno pomeridiano”. Si fanno racconto i turbamenti del piccolo protagonista: “Sai, i miei genitori non sono i miei genitori”. “Chi te l’ha detto?”. “L’ho capito”. “ Come l’hai capito?”. “Perché mi hanno lasciato”. Quella di Giorgio Morale è una scrittura fisica, fatta ascoltando il corpo, anche quando racconta i turbamenti della mente. C’è anzi una mirabile progressione nelle notazioni sensoriali, dall’olfatto all’udito alla vista. All’inizio “l’odore acido, aspro, pungente” del padre, delle medicine del nonno malato, della nonna morta. Poi “silenzio, voci, fruscii, frastuoni”, poi le avventure della visione, che hanno gli apici nel bacio fra il padre e la madre, nel passo con cui il nonno e la nonna si lanciano nella danza, nella descrizione dei variopinti frutti dell’orto e nelle fantasie che suscita la visione del mare. In conclusione, io vedo in Paulu Piulu quasi una lezione sulla scrittura.
Finirei proprio con questa affermazione, citando una brano dell’opera proprio sulla scoperta della lettura e della scrittura.
“Da certe storie si sentiva scoperto. Il libro parlava – a lui; sapeva – di lui – cose ch’egli ignorava. Avvertiva come un ronzio: la sua voce e un’altra… Dentro di lui, qualcuno parlava; gli guidava le mani, ascoltava il fruscio della matita sulla carta e lo traduceva in parole… La matita è una bacchetta magica. Ecco che oscilla. Accorrono uomini e bestie, nuvole e boschi, mari e fuochi. Sono più uomini e bestie, più nuvole e boschi, più mari e fuochi che nella realtà… A volte si presenta una parola sconosciuta, allora la magia è più fitta e impenetrabile”.