di Marco Scalabrino
C’è un termine, in questi giorni, che mi è capitato di sentire spesso in televisione (la nova magistra vitae!?): deriva. Il sostantivo “deriva” evoca lo spostamento scomposto di un natante per effetto delle correnti o in balia dei marosi; un vocabolo marinaresco, dunque. Ma evidentemente, mentre volgevamo altrove le nostre cure, una diversa accezione del termine nel senso traslato di “tendenza incontrollabile sul piano sociale e politico” si è attestata. Questo fenomeno avviene, invero, assai più frequentemente di quanto si creda.
La lingua difatti è un organismo vivente, una struttura articolata i cui elementi, le parole, sono in continua correlazione e trasformazione. Trasformazione dovuta al variare della società, connessa alla evoluzione filosofica, scientifica, tecnologica di questa. Le parole, gli studiosi rilevano, hanno una vita.
E in questa loro vita, esse nascono, si evolvono, muoiono. Si ammalano per l’eccessivo uso e invecchiano. Talvolta perdono il loro primitivo significato e ne acquistano uno opposto.
Direte voi:
Polvere di attese è un poemetto in ventidue frammenti. Un poemetto che tratta dell’Amore. E l’Amore, fatto che attiene alla natura dell’uomo, alla sua sfera emotiva e al suo essere sociale, si manifesta, si consuma, si enuncia, a seconda dell’epoca, del luogo, del costume, della lingua; della singolare formulazione che del patrimonio linguistico il poeta che lo canta opera.
In passato (ma non stiamo qui a rivangare) l’amore consisteva di serenate, di fidanzati accompagnati dai parenti (di lei), di matrimoni combinati… e si risolveva non di rado nella fuitina. Le parole pertanto, che per citare sommariamente Ludwig Wittgenstein sono deputate a rappresentare l’amore come ogni altro ambito del vivere umano, comprensibilmente rispecchiavano quei parametri etico-ambientali.
Oggi l’emancipazione, la convivenza, i messaggini… è mutata la società, la cornice storico-culturale, è cambiata la pratica dell’Amore e per conseguenza il codice di comunicazione relativo. Ecco quindi che la Poesia, il poeta c’entrano.
Giacché la Poesia, è giusto il caso di ribadire, è interiore urgenza, combinato esercizio di spirito e di intelletto, ufficio tra i più seri della vita del poeta. Poeta cui fa obbligo, se realmente è tale, il crearsi un proprio linguaggio, l’inventarsi nuovi canoni espressivi, il diuturno sperimentare la volontà di essere differente, originale.
In un tempo immerso nello spasmo di notti senza orologi, in una dimensione in cui i desideri corrono veloci, due bimbi, angeli inespugnati, inseguono grida, si abbracciano, si lasciano. Ma la polvere dei giochi, come lacrima del silenzio che nessuno apprende, spiove sulle impervie strade della vita. Un secolo declina e l’altro nasce, scorrono ruscelli d’un sogno da narrare: bruna con vesti a cenci, lei canta la tempesta che accompagna la sua anima di DONNA e nel cristallino degli occhi del suo imperterrito compagno – lagune pensose dove hanno rifugio gli uccelli e il vento riposa – troverà infine ciò che desidera.
In queste serrate tracce i dati salienti di quest’opera che, a partire dal titolo, la polvere tutta avvolge.
Non si pensi però, magari candidamente collegando la Nostra alla sua Sicilia e allo Scirocco che pure la sferza, alla polvere quale “terra arida e ridotta in particelle tanto minute e sottili che, ad ogni più piccolo soffio di vento, si levano per aria”.
Perché, ben aldilà della scontata immagine che suggerisce, essa – nelle figurazioni che Lina Riccobene realizza – scopre contingenze di rivalutazione, contempla estensioni del concetto, assume sorprendenti profili di rito, vita, morte:
“spora d’incenso quaresimale sul mio capo chino e obbediente
perduta nel cammino senza incontrare il mondo
incenerita dei nostri corpi disfatti da tempo e morte.”
E, per quanto più da presso ci concerne, perviene al rango di segno, alla qualità di scrittura, alla condizione di Poesia:
“all’altezza del cuore non muore mai la polvere
la polvere è ferite d’amoreodio da fermare al vallo della prudenza
non ha casa la polvere di attese, non possiede pareti dove appendere simboli e illusioni, non ha Natale nell’eterno vagare delle stagioni.”
La stesura del componimento, nello specifico andamento narrativo, segue un doppio, parallelo registro: quello, nel dolceamaro lasciarsi cullare, dei due bimbi:
“lui, tenero soffio e scalpiccio di cavalli imbizzarriti, a carpire ai passeri i segreti della malinconia
“lei, vago intarsio sull’alabastro rosa d’una colonna, che danza le tenerezze dall’anima compagna”
E, nel contraltare di un’altalena, gravi di margini di libertà, di ombre estive, di impronte di baci, quello dei due adulti:
amanti, fusione di corpi, giaciglio –
rumore la polvere se spezza la cadenza delle ore –
per confessare torti da non riparare, vergogne senza pena da scontare, aspirazione a cieli senza promesse.
Lina Riccobene, in precedenza, aveva affrontato, aveva celebrato l’amore. C’è, dunque, una novità nella odierna rivisitazione del tema?
Rispetto ad “Après nous le déluge” ( 1999 ) sono trascorsi sei anni.
Polvere di attese supera i caratteri di ebbrezza, irruenza, scontro di “Après nous le déluge”, non si propone come quel testo “grondante di umori”, declina il tono apocalittico insito nel proclama di quel titolo e, nella raggiunta maturità umana, fisica, intellettuale, mettendo a profitto le considerazioni appena esposte, riscopre, rinnova, rinsalda l’unione, l’intesa, la complicità tra i partner:
“nella pienezza del tramonto
polvere argentea del piacere
spazi di lieve pace e acqua di lacrime ad impastare ogni giorno creta ed argilla d’amore.”
Polvere o non invece pozzolana?
Pozzolana, la base vulcanica (il Mongibello, l’Etna, dista in linea d’aria grosso modo un centinaio di chilometri da Delia, la città di Lina Riccobene) per il cemento di una storia d’amore che dura da tutta una vita; un amore che nelle prove può ardue, nei frangenti più critici, nei giorni più bui e tempestosi ha saputo tenere; un amore che nemmeno
Polvere magica quindi che, come nel lieto fine delle fiabe, ha fatto sì che l’amore prevalesse sopra qualsivoglia antagonista, ha fatto sì che i due amanti finissero per
Dinanzi a un progetto quale Polvere di attese è, una plausibile eccezione che potrebbe essere sollevata è quella che esso incarni un disegno, un calcolo, una architettura della scrittura. Ogni tessera in effetti, ogni mattone, ogni livello incastona virtuosamente taluni dei coefficienti che tutti assieme torneranno poi utili all’equilibrio complessivo della struttura-vicenda. La quale ultima risulta sorretta da un solido uso del lessico-materia, da efficaci dispositivi tecno-retorici, da avanzata luce-scansione.
Ciò che appare gratuitamente piano, accessibile, immediato è prodotto di paziente applicazione, di assiduo studio, di ripetute verifiche.
Se costruire implica lavorare, provare, tendere ogni sforzo, energia, risorsa fisica e intellettuale allo scopo di scovare la parola, affermare la parola nuova, edificare la parola definitiva, ebbene sì questa poesia, come tutta la Poesia (una poesia – asserì Attila József – può essere considerata come un’unica parola nascente), è una costruzione.
Nessuno scandalo! Già per Orazio vigeva l’antica norma del limae labor et mora, per Rolando Certa:
Tengo per contro a trasferirvi, benché nella cognizione che ognuno di essi, come osserva Roland Barthes, è solo
Per primo, un itinerario tra le voci che nella silloge si offrono in corsivo. Un itinerario nel segno della circolarità dell’esistenza: polvere, bimbi, lei lui, vetri appannati d’infanzia, storia d’amoreodio, pettegolezzo, amore, gran soirée, polvere.
Per secondo, la sensazione che “dell’altro” aleggi.
Dell’altro da sé; da lei, da loro. Dell’altro che richiama protagonisti, età, accadimenti che incidentalmente emergono dallo specchio venato dagli sfregi del tempo. Dell’altro che ci rende edotti della premura della Nostra nei confronti di universi discosti dal suo, che contribuisce a comporre il quadro di una personalità spiccata, ma altresì sensibile e avvertita, che denota gli accenti di una autrice che mai arretra dall’essere persona, donna, madre.
C’è un alcunché di visionario, cupo, tragico in queste espressioni. Sta a noi individuarne i riferimenti a circostanze del nostro quotidiano, della più ampia realtà sociale, della grande Storia.
A che pro? Al fine di palesarne aggiuntivi gradini nella scala dei costrutti, insospettate chiavi di lettura, latitudini di significato più profonde, disagevoli da cogliere perché poco appariscenti, impalpabili, reconditi.
Demando, in chiusura, al lettore il gusto di scoprire quante più soluzioni formali ed estetiche. La Poesia, infatti, esige che questi non si limiti al ruolo di destinatario passivo, ma si lasci coinvolgere, si abbandoni, partecipi degli esiti di essa riversandovi la propria essenza, il proprio contesto, i propri valori. Il lettore, in sostanza, deve farsi complemento, frazione integrante del processo di creazione e a lui si richiede di fruire della Poesia sia con gli occhi che con il cuore, sia con la lingua che con la disposizione migliore dei sensi, sia con lo scrupolo filologico che con l’incontaminato avvertire.
L’attesa è l’azione dell’attendere, il tempo trascorso ad aspettare, l’ansia con cui si attende. Nel “laboratorio” della Poesia (per dirla con Paul Valéry), essa però assurge a intervallo nell’andirivieni di una barca attraccata, a matassa degli anni nello scrigno dei ricordi, a viavai che vivifica l’eterno.
Lina Riccobene. Polvere d’attese, in “La parola in vetrina”, Eranova Bancheri editrice, 2006.