di Marco Scalabrino
Da tempo ero al corrente che Licia Cardillo stesse lavorando a un nuovo progetto, dopo IL GIACOBINO DELLA SAMBUCA del 2000. Ci eravamo, difatti, incontrati l’estate di un paio di anni or sono a Sambuca di Sicilia, la sua città, e nella frescura della terrazza della sua villa in collina che domina la valle in cui insiste il lago Arancio, sorseggiando una bevanda e discorrendo come avviene in queste circostanze di scrittura e di scrittori, lei mi confermò quanto già mi aveva anticipato al telefono qualche mese prima.
E tuttavia, nonostante la mia manifesta curiosità, nulla allora trapelò in merito all’opera. Finché l’Agosto scorso, daccapo incontratici, mi fece, con amabile dedica, graditissimo omaggio del suo lavoro appena pubblicato.
Tardara, il titolo, e (la) Ninfa, acquaforte acquatinta di Bruno Caruso in copertina, mi intrigarono immediatamente e la lettura, anche in virtù del contenuto numero delle pagine – 160 circa – e della gradevolezza appena sfogliandole del carattere, ne venne ben disposta.
L’incipit è sullo Stretto. Al primo rigo della prima pagina, Gino Roveri sul Caronte, uno dei traghetti che fa la spola tra l’Isola e la penisola italiana, rientra dopo dodici anni; e al secondo, la Sicilia, che emerge dal mare.
Ecco diciamo subito che, Gino Roveri, benché risulti il personaggio fulcro della vicenda, non ne è, almeno a mio avviso, il protagonista, per la cui identificazione dovremo, tra poco spero converrete, ripiegare altrove.
È Settembre. Il paese di Rocca Regina è un canestro di confetti grigio perla. In quella stanza aggredita da un silenzio penoso, le donne tutte vestite di nero, sembrava però si celebrasse un rito antico, codificato: la morte al buio rappresentava se stessa. Solo il morto, Renzino Puglisi, sfuggiva alla finzione. Gino Roveri si segnò ripetutamente e si baciò la punta delle dita. Una morte assurda, sentiva egli sussurrare in un’aria di rassegnazione e di fatalità che si respiravano, una pietra dall’aria.
Una pietra, nondimeno, lanciata da qualcuno, considerò appena fuori Gino.
Una prima notazione – comune peraltro a tutta questa opera – ci serve per spezzare un po’ la lettura e per fissare quanto mano mano registrato, oltre ad essere comunque un sistema di procedere: il periodare breve ( il vecchio: soggetto, predicato, complemento ) agevola la lettura stessa e la comprensione del tessuto narrativo.
Tutto merito di Totò Raisi, disse il proprietario dell’albergo. Lo zio Totò – il terremoto, quello del 1968 nella fattispecie, gli ha dato una mano – ha cambiato tutto con la bacchetta magica dall’oggi al domani. E Gino apprende che la scala catalana che occupa troppo spazio e così pure gli archi e le maioliche verranno demolite, dando fondamento all’equazione: modernità = demolizione, svilendo il valore delle cose da valore d’uso a valore di scambio, trasformando il paese in un enorme forno crematoio, buono per bruciare memorie, dove l’antico combatteva con il nuovo una muta battaglia e l’orologio, sul quale si erano consumati i secoli, come un vecchio cuore, aveva smesso di battere.
Gli stralci fin qui illustrati decretano una seconda digressione allo scopo di porre in luce una peculiarità della penna di Licia Cardillo; una peculiarità, in aggiunta alla comprovata eleganza, che già nettamente connotava FIORI DI ALOE del 1996, il volume con il quale io la conobbi, ovvero la liricità della scrittura: traghetti che tessevano lo stretto, affogava nell’acquario dei ricordi, l’unica speranza è di aggrapparsi al cielo… e, non bastasse, alla pagina 53 e seguenti, un’intera poesia è riportata.
A Tardara – è il nome della forra, ossia cava, burrone – là dove il tempo al pari della Sfinge si era pietrificato, l’incontro inaspettato con Maria. Sei ancora bella, pronuncia lui, mentre lei se ne va, lasciando il posto ai ricordi che, davanti al baglio, affiorano: Renzino e Gino amici d’infanzia, compagni di scuola.
Il successivo abboccamento con don Giuseppe e il colloquio serrato e a tratti determinante che ne segue, ci forniscono lo spunto per focalizzare un attributo che, mai forse come in questo periodo, sta investendo i narratori siciliani: l’utilizzo nella loro prosa del Dialetto. Ritengo che Licia Cardillo non pratichi un mero canale di contaminazione, non metta in atto un espediente da captatio benevolentiae, l’accattivarsi cioè la simpatia del lettore cavalcando la moda – consumata, viceversa, nel mondo dello spettacolo – della caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti, quanto, piuttosto, la riappropriazione di una bistrattata identità culturale, la riaffermazione di uno strumento linguistico che, nell’attitudine a contemplare le complesse realtà del vivere e nella dovizia lessicale, mostra ancora intatta la sua vitalità antica. D’altronde, il nostro Dialetto ci appartiene da millenni, ci rende bilingue; e allora perché privarcene? Licia Cardillo, registro con favore, ne fa un uso misurato e conveniente, ne cura la trascrizione: Na petra di l’aria, E chi semu senza sagnu comu li babbaluci, li mura hannu l’occhi e li troffi hannu l’aricchi, scuitari lu cani chi dormi, agustu e rigustu capu di mmernu, donni, cubbaita, truvaturi, mutria …
Qui si sa tutto di tutti, ma nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla, sostiene don Giuseppe. E l’uno e l’altro constatano che noi riusciamo a vedere più di quello che vedono gli altri, ma parliamo meno o non parliamo, parliamo per dire e non dire, parliamo lento, sofferto, tiriamo in ballo uno per definire un altro; e le parole si spogliano come donne impudiche per vestirsi di allusioni, doppi sensi e la lingua, questa lingua senza speranza e senza futuro, manda segni al vento.
In una sorta di confessione, è messa a nudo l’anima dei Siciliani e in discussione uno dei capisaldi della cultura e della società siciliane: la famiglia, che è un marchio … lu criscenti. La famiglia è come il pane, è nuova e vecchia nello stesso tempo, ha dentro il passato, il presente, l’avvenire. Renzino, nessuno gli ha perdonato di non essere dello stesso criscenti di suo padre, l’hanno ucciso perché era di un’altra pasta, non è voluto entrare nel gioco.
Oltre a Renzino Puglisi e al suo sogno di cambiare il mondo, colpiti davanti al baglio con tre colpi al cuore, due altri uomini nel giro di due mesi saranno uccisi: Vito Zito, il proprietario della Tardara, scomparso alcuni mesi prima, e, proprio durante la permanenza di Gino Roveri, Menico Russo, che la Tardara aveva quindi acquistato, precipitato a bordo della sua auto da una scarpata di quindici metri sulla Statale 115.
Quest’ultimo riferimento ci suggerisce la collocazione della nostra storia: la Sicilia occidentale, la strada statale 115 Trapani – Agrigento, Segesta e la Sambuca di Gianbecchina, mentre molteplici risvolti sollecitano la rispondenza con la realtà, i richiami all’attualità: Chi l’ha visto?, il piercing…
Il dottor Antonio Curti, amico di Renzino Puglisi, non ha peli sulla lingua: la colpa più grave è l’essere vigliacchi, e ha le idee assolutamente chiare: un filo misterioso lega quegli omicidi. Il vero problema, insiste, sono i giovani: dovrebbero essere loro a cambiare le cose, se ne dovrebbero convincere, ma ne stanno davanti al bar, stravaccati sui motorini, appoggiati al muro, vivono con le pensioni dei nonni e lasciano naufragare qualsiasi progetto di cambiamento. Perché non si danno da fare? si chiede.
Ma che se ne fa Menico Russo, un impiegato comunale, di una cava abbandonata? si interroga Gino Roveri di ritorno dalla visita alla cava medesima: un paesaggio lunare, come se ci fosse il divieto di coltivazione della terra, recintata da filo spinato e chiusa da un robusto cancello.
Siamo prossimi ormai all’epilogo: i pezzi, lemme lemme, si vanno incastrando e vieppiù delineano il mosaico. Non vi anticiperò, ovviamente, gli sviluppi che porteranno alla soluzione del caso. Sappiate però che a Gino Roveri (l’unico, scopriremo, che potesse farlo, malgrado il minaccioso, eloquente messaggio anonimo recapitatogli dentro una busta per via aera con i rettangolini colorati ai bordi: Cambia aria) e alle sue indagini si unirà, in un fronte di omertà che si andrà disgregando in ragione soprattutto del ruolo capitale che assumeranno le donne – una fra tutte Rita, la vedova di Menico Russo -, l’acquisita consapevolezza – che sa di rivoluzione dalle nostre parti – che la parola fa l’uomo libero, che chi non si può esprimere è uno schiavo, che parlare è un atto di libertà, che, come professa Ludwig Feuerbach, la parola è per se stessa libertà.
Il caso, ma non la scrittura finisce qui.
Giacché è giunto il momento, riprendendo l’ipotesi lanciata in apertura e soppesate le considerazioni esposte, di palesare il vero protagonista della vicenda, che reputo sia il ” contesto ” sciasciano in cui si snoda il groviglio.
E proprio questo apprezzamento contribuisce a situare il lavoro – ma, Licia Cardillo in questo frangente è in buona compagnia: Francesca Incandela di Mazara del Vallo ad esempio ed Alfio Patti di San Gregorio di Catania – nel filone dell’impegno, per la denuncia, in una trama per dirla giustappunto con Leonardo Sciascia da
Le osservazioni finali passano attraverso:
* l’impiego, nella voce vellutata di Brigitte, la governante, del Francese: Ah les parfums de la Sicile, voulez-vous des figues?, c’est un crapaud;
* le citazioni da Pirandello: la corda pazza, la corda saggia, di verità ce ne sono tante, l’artificio qui è una necessità, tutto è apparenza, teatro, rappresentazione;
* l’accostamento alla mitologia: Tardara era una ninfa, Ati era il dio del ruscello, Zeus scese dall’Olimpo …
Non mi rimane, nell’invitarvi alla lettura certo che da essa trarrete quanti ulteriori motivi per ampliare e completare queste mie succinte riflessioni, che chiudere con un ultimo stralcio, dal timbro gattopardesco, da Licia Cardillo: la festa è un uragano che scuote il siciliano dal torpore per farlo entrare in un’altra dimensione: quella dell’ebbrezza.
Dicembre 2005
Marco Scalabrino
Licia Cardillo Di Prima – Tardara, Editori Riuniti, 2005. 166 pp, 12,00 Euro.