di Maddalena Mongiò
Parlare di un libro, raccontare cosa ti ha lasciato dentro, ricordare le emozioni che ti ha suscitato, è il post di ogni lettura. In ognuno di noi bibliofili onnivori vi è una biblioteca virtuale da visitare regolarmente, un aggirarsi tra improbabili scaffali senza ordine e regole per ritrovare quei personaggi che ci hanno accompagnato per tratti più o meno lunghi della nostra esistenza. Ovvio, non solo i personaggi e i loro tratti più o meno descritti. Ovvio, le loro storie/avventure/pensieri. Ovvio, come potrei dimenticare/abbandonare le fanciulle in fiore, i mulini a vento, le balene bianche, i rami che sfiorano i laghi, le metamorfosi, gli ossi di seppia, i castelli, i processi, i deserti?
Così ora ripercorro sentieri più o meno illuminati e riprendo dallo scaffale “I lanzillotti” ed. Palomar, romanzo navigante nel puro flusso di coscienza, autorevolmente introdotto da Livio Romano. Francesco Lanzo, l’autore, è nato negli anni ’80, è nato negli anni delle BR, dello yuppismo rampante, della tracotanza assunta a modello, della disco music, della fiction. La sua adolescenza l’ha vissuta negli anni in cui l’etica chiedeva un riscatto, negli anni della caduta della Prima Repubblica, della caduta del Muro di Berlino, della letteratura minimalista, pulp, noir. E’ adulto nel nuovo millennio, è adulto negli anni della globalizzazione selvaggia, negli anni del regno di Silvio, negli anni in cui letteratura, architettura, scultura, pittura, musica, si chiedono quale sia il loro senso e ruolo. Da Lanzo, I Lanzillotti, espansione gergale per sottolineare la stretta connessione fra il sé e l’altro da sé ché l’autore “dimentica” il macrocosmo e si riconduce unicamente all’individualità colta nel suo presente. Così questa terra periferica, questo sud con l’ambizione d’essere o poter essere l’ombelico del mondo, sono raccontati con le amnesie del passato prossimo e remoto attraverso una schiera di giovani ciondolanti tra birre amori immaginati/desiderati/inappagati corridoi universitari. Gli anni di piombo, le tangenti, la globalizzazione, Silvio, non “attraversano” i lanzillotti, ché si stravaccano a dormire in una stanza a Berlino o Lecce senza che luoghi o contesti abbiano per loro significati o siano parte di un progetto esistenziale: consumano la vita, come consumano i copertoni dell’auto. Lanzo tutto questo lo scrive con una prosa sincopata, avara di punteggiatura, eppure abilmente strutturata a non far cedere il ritmo. “I Lanzillotti” sono dunque il manifesto esistenziale di una generazione che ha visto i propri genitori ripiegarsi amareggiati dopo il turbine sessantottino, di una generazione cresciuta con l’imprinting della PS2 che in poltrona ti regala emozioni/batticuore/, di una generazione che al sud vive lo iato tra il vecchio e il nuovo, la parmigiana e i pub scimmiottanti l’Irlanda. Il tessuto narrativo è figlio naturale di quella prosa letteraria che trova i suoi prodromi in Pier Vittorio Tondelli e che Livio Romano ha ben interpretato in terra salentina. Ora si parte da qui insieme alla schiera sempre più folta di scrittori meridionali per contribuire a dare senso e ruolo alla letteratura, si parte insieme in un momento in cui si grida continuamente al capolavoro letterario e si piange per l’assenza di lettori.