di Marco Scalabrino
L’affastellamento delle combinazioni lessicali, l’attitudine a strutturare spirali dell’espressione, la sovrapposizione all’infinito delle architetture del pensiero paiono contrassegnare questo nostro tempo. La vis della parola, detta, scritta, vociata, sembra sopravanzarne i significati propri, sacrificarne i valori originari, i sentimenti autentici e vieppiù essa è usa provocare, ferire, scandalizzare; e al contempo, su un fronte solo in apparenza diametralmente opposto, soggiacere alle occorrenze della moderna spiccia comunicazione, piegarsi alla pelosa ripetitività della reclame, svilirsi alla cifra di gergo di chi ne fa disinvolto uso.
Alfonsina Campisano Cancemi ( di cui non staremo qui a ripercorrere il nutrito curriculum di pubblicazioni in italiano e in siciliano, le affermazioni quale autore sulle piazze culturali di tutta la penisola, le collaborazioni nella veste di provetto recensore con talune autorevoli riviste del settore letterario ) mostra viceversa volersi votare al ristabilimento della parola pura ( Donner un sens plus pur aux mots de la tribu, enunciò Stéphane Mallarmé nel sesto verso del sonetto LE TOMBEAU D’EDGAR POE ), al riscatto della parola lirica, alla nobilitazione della parola poetica; e favorevolmente ci sorprende per il sigillo di garbo che avvolge la sua opera, e per l’“ avarizia ” quantitativa di questa sua ultima silloge – solo dodici componimenti – e la misura stringata di questi – una media inferiore ai quattordici versi.
Ma procediamo con ordine.
L’inusuale formato quadrato, identico a quello dei due precedenti volumi FINU A L’URTIMU CIATU (1998) e TRASPARENZE (2001) entrambi edizioni ILA PALMA – Palermo, e la presenza in questo lavoro come in quelli di immagini fanno pensare ad un’unica sorvegliata regia, ad una precisa scelta.
I dipinti di Giacomo Angiletti, ad accurato complemento del libro e non già a mera suppellettile, a principiare da Adolescenza in copertina e per ben altre sei grandi tavole – un numero considerevole rapportato a quello dei testi -, coprono altrettante facciate del volume. Una felice combinazione tra suggestioni foniche e visive, tra il nero compassato dell’inchiostro e le rotonde tinte pastello dei paesaggi e delle nature morte che risulta seducente, sortisce un effetto armonioso, monta un sound-track a colori alla pellicola della memoria.
Come già in TRASPARENZE, l’antologia di Alfonsina Campisano Cancemi si avvale della brillante prefazione di Alfredo Pasolino. Assai convincente si rivela altresì la nota di Gaetano Quinci che, nei passaggi più significativi, viene riprodotta in quarta di copertina e della quale riportiamo taluni illuminanti stralci che appieno sottoscriviamo: < Alfonsina Campisano Cancemi, alla luce di un’attenta memoria e di una squisita sensibilità femminile, ha rappresentato la dimensione fonica e creativa del proprio vissuto, della propria spiritualità, del proprio essere donna e poeta. Una raccolta familiare nei toni ed elevata nei concetti; un incalzare di fermenti lirici, meditativi ed esaltanti che si ripropongono a ritmo mensile, sotto forma di intimità colloquiale e tematica che sa di confessione, di travaso, di liberazione. >
< I modi della poesia sono infiniti, tanti quanti i poeti >, ha affermato Ungaretti e sottolineato che < nella sua espressione essa deve portare il segno inconfondibile dell’individualità di chi la esprime. > E asserisce Gianmario Lucini: < la Poesia non argomenta, ma allude, evoca, celebra. La poesia che fa eccessivo uso dell’argomentazione e della logica razionale è noiosa e petulante, dice in malo modo ciò che compete alla filosofia. >
L’odierna prova di Alfonsina Campisano Cancemi, più risolutamente che in precedenza, pone in atto quei precetti, li coniuga al suo continuum filologico e antropologico, li trasfonde nel suo incessante iter di rinnovamento. E lungi dal mirare alla scoperta di parole nuove ( in LA SPLENDIDA ATTESA, difatti, non ve ne sono ), dall’interrogare temi inesplorati ( e quali sarebbero poi?: la vita la morte l’amore, la guerra la natura gli assunti sociali, politici, spirituali … ), dall’escogitare ammalianti “ effetti speciali ”, punta a creare, entro quei contenuti per così dire eterni, inusitati lirici accostamenti, a perseguire inedite intensità che forgino singolari timbri fonici, a formulare dinamiche che rispondano all’esigenza di fissare un sentire che nel tempo muta, si converte, si affina. Giacché la Poesia, ci rammenta Lucini, insegue sì < un contenuto, ossia l’essere che si manifesta tramite l’opera d’arte >, ma parimenti < i nessi che compongono la natura del segno nella forma del testo. >
Classe 1935, figlia della guerra ( il commento le appartiene ), queste liriche sono scaturite, tutte assieme, dopo la morte della madre, ripensando/rivivendo un amore giovanile. L’accento del periodo incombe su “ dopo la morte della madre ”. Come se tale scioccante circostanza avesse aperto d’un tratto uno squarcio nella sua dimensione spazio-tempo, e questo star-gate avesse originato un fiotto di ricordi, riguadagnato uno spaccato della sua adolescenza, le avesse restituito l’olografia di sé ragazza ( quella della copertina, ci figuriamo ). E non per uno stato di regressione, per un repentino transfert emotivo, per un nostalgico re-immergersi nel passato.
Alfonsina Campisano Cancemi, per un processo omologo a quello di Marcel Proust – allorché, nell’assillante sua introspezione de ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO, egli realizzò che < tutti questi materiali dell’opera letteraria erano soltanto la mia vita passata > – costruisce a partire dalla “ ricerca ” del proprio passato il suo progetto; il quale non si risolve nello sterile riesumare < il ricordo lontano >, poiché ciò, ci suggerisce Gianni Nuscis nel suo IL TEMPO INVISIBILE del 2003, < suonerebbe inautentico >, < sarebbe visto con sospetto >, quanto piuttosto contempla il < risalire la china > fino a ritrovare se stessa, il lucido rigettare < quel tempo > nella mischia, il ripristinarne il file dal cestino della memoria e, scrivendone, il contestualizzarlo, renderlo “ presente ”, farne occasione d’arte, Poesia.
Le confidenze a pagina 5, nonché alla pagina 17 il dato: < quindici anni >, confortano le nostre impressioni. E giusto l’indicativo presente ( tranne in DICEMBRE che, nelle more < della splendida attesa >, premia l’indicativo futuro: ci sarà, giacerà, si scioglierà ) sono il modo e il tempo egemoni: s’annega, s’infrange, risorge, scivola, fremono, piluccano, canta, muore, dissangua, trionfa, lacera, declina, indulge …
Le parole di cui consiste questo florilegio ( Non è con le idee che si fanno i versi: è con le parole, Stéphane Mallarmé ) levitano minute, evanescenti, melodiose, e, nondimeno, puntute, essenziali, profonde, come le venature policrome in una lastra di marmo. E connotano, significano, perfezionano una pratica dello scrivere che, nell’assenza della punteggiatura ( ad accentuare la liaison tra i componimenti ), nel consumato “ mestiere ” ( la costante: < mentre io aspetto / aspetto ancora >, posta in chiusura dei testi, che ritorna per undici volte, e che alla fine del dodicesimo canto si spiega nella: < sinfonia / della splendida attesa >), nella penna tenera e sognante e parimenti sicura e concreta, determina una fausta fusione tra il talento e l’animo della Nostra.
C’è da credere dunque, per quanto considerato, che l’essere di questa dozzina di poesie sarebbe stato concepito con un dominio lessico-sintattico, con riferimenti storico-ambientali, con cardini umano-psicologici differenti se scritto in altra epoca. L’Autrice di oggi assomma infatti in sé le facies della persona, della donna, della madre; della credente. E ( quella età allora, quella esperienza ) quell’amore, che adesso coglie la sua onirica esplicazione, si veste quindi di corpo e di anima, di febbre e di silenzi, di terra e di cielo. E nel compimento del suo ciclo, nel tramite cosmico di sensi e di spirito, nella sempiterna solidarietà tra creatura e Creatore, l’Amore, che all’uomo proviene da Dio, a Lui torna; sicché un giorno < tutte le creature viventi si ritroveranno unite nell’abbraccio di un amore infinito, sotto l’occhio innamorato dello stesso Dio creatore. >
Si perde Gennaio abbrividendo
Dondola nel frastuono una lacrima di Pierrot
Marzo s’annega in un volto senza rughe
Freschi giorni d’ambra dilegua Aprile
Dove s’aprono specchi si congeda Maggio
Questo pallido Giugno avrà colore
Luglio dei ricordi brucia la sua febbre
Senza eco conclude Agosto il suo turbine
Settembre tira reti d’autunno
Rotola Ottobre sulla mia pelle
Alla grande rinuncia agonizza Novembre
Si scioglierà la sinfonia dell’attesa.
Dodici liriche da Gennaio a Dicembre.
E in esse circoscritte ( a volerlo s’intravedono ) le stagioni della vita:
< la fronte irrequieta >, < le primule, i mandorli >, < i minuzzoli di sogno >, a definire la giovinezza;
< il canto del grillo nelle notti di luglio >, < l’azzurro spazio, la musica dei cieli >, < la campagna profumata dei sorrisi >, ad acclamare la maturità;
< la pelle orfana di fiori >, < la strada muta di stelle >, < l’ultimo approdo >, a profilare la senilità.