La siracusana, di Giuseppe Antonio Borgese

di Gianfranco Recchia

:: Canto del ricordo
“La Siracusana” è un racconto contenuto nella raccolta “Le novelle”, pubblicata nel 1950. Giuseppe Antonio Borgese, siciliano di Polizzi Generosa (Palermo), a quell’epoca aveva 68 anni e un lungo esilio alle spalle (il giuramento di fedeltà al fascismo l’aveva sorpreso all’estero, e lui scelse di essere esule; tornò in Italia solo dopo la fine della guerra). Io credo che il ricordo, a quell’epoca, dovesse apparirgli come una legittima droga. “La Siracusana” è il racconto di un ricordo: Alberto, il narratore, rimette piede a Megara dopo esserne stato a lungo distante, per motivi mai detti, e scopre che tutto è rimasto come lui l’ha lasciato. Questa apparente impotenza del tempo sulla materia gli permette di recuperare vividamente un ricordo tra tutti, quello della sua amata zia e della sua morte tragica.

:: Tutti i sensi all’opera
“A Megara ci sono ancora i garofani sui balconi, e le donne portano gonne lunghe; sicché, se si scopre una caviglia, voi vedete letteralmente i giovani tremare.” Borgese chiama il lettore alla cooperazione già da questo incipit in apparenza semplice: la caviglia si scopre da sola, come fosse un’entità autonoma; quei giovani, “noi” lettori li vediamo tremare.
Più avanti: “E sempre folla, come fosse sempre giorno di mercato; folla scura, vestita di scuro anche nel mese del solleone”. Dal rosso dei garofani al nero della gente, quasi una calca di coleotteri. Le prime pagine del racconto hanno una struttura evidente: prima c’è il colore, ovvero un turbine di descrizioni visive, uditive, olfattive (ben divise in questi tre blocchi), poi c’è la geografia di Megara, quindi la storia. Tuttavia, mentre il colore è preciso e perfetto, storia e geografia sono poetiche (“sono nato non a Megara, non proprio lì ma più su”).
Capiamo subito che il narratore ci spalanca le porte del suo amato mondo di memorie. Non sono le nostre, ma abbiamo già i primi schemi progettuali per ricostruire quel mondo. Eccone un esempio per suoni e rumori:
“Io ricordo il rimbombo dei portoni, all’aprirsi e al chiudersi; ricordo le campanelle delle capre, che vengon giù la mattina, con le poppe gonfie che le imbrogliano, strusciando le corna alle ginocchia dei passanti. Ho nell’orecchio perfino l’esplosione dello zolfanello di Mastro Angelo che, rincasando tardi, dirimpetto a noi, accende l’ultimo toscano.” Descrizione tutta uditiva, decrescente (dal rumore più forte a quello più impercettibile).
Odori:
“Verso sera […] l’odore guasto della pescagione letica col profumo di fior d’arancio, magro, acidulo, quasi come quello del mughetto; il fiato del mare si tronca nel pulviscolo sciroccale che arriva dalle Terre Rosse – rosse proprio come un vello di leone – dove le vigne danno un vino che è fuoco.”
Colori:
“[…] delle chiese grondanti di musica e d’oro, dove le statue dei santi pare che spicchino il volo.” Uso della rima interna alla frase e del contrasto: da una parte “grondanti” e “oro”, idea di pesantezza; dall’altra i santi protesi verso il cielo nell’atto di spiccare il volo.

:: Ottocento o Novecento?
Borgese viene spesso accostato ad altri autori suoi conterranei e, grosso modo, coevi: Pirandello, Verga, Tozzi. (Lui è nato nel 1882). La sua opera più famosa, “Rubé”, è nel Novecento per tema e spirito. Eppure in questo racconto il gusto sembra essere quello ottocentesco: uno sguardo minuzioso, acuto, che setaccia tutto. Occhi di Zola, orecchie di Balzac e pelle di Dickens. Lo sguardo onnisciente del narratore va a volo d’uccello per le strade di Megara, inquadra i balconi e dettaglia sui garofani, indugia sulle donne in nero e sfuma sulle gonne lunghe; si fa sera; i rumori lasciano il posto agli odori, tanti e mescolati assieme; la cinepresa si produce in virtuosismi tecnici come l’inquadratura delle statue dei santi “che pare spicchino il volo”; quindi, centra il personaggio.
La Siracusana viene presentata solo quando tutto ciò che l’ha prodotta, e in cui lei viveva, è stato rappresentato a colori vivaci, dopo 742 parole che è impossibile leggere di fretta, che dettano un rigoroso passo e un preciso respiro al lettore. La rappresentazione della donna è un altro capolavoro di ritardo e suggestione. Ne viene dato il nome, Clementina, e pochi altri tocchi di ombra, di descrizione per contorno. Il marito della Siracusana viene descritto per contrasto in modo preciso e materiale, con le sue “braccia tonde come clave”, “altissimo di statura”, “baffi, già grigi”, “respiro asmatico, da mantice”; ci viene detto che “era ricco e voleva figli; per questo cercò moglie. Per questo gli portarono la zia Clementina.”
Della zia sappiamo che veniva da una casa di orfani, che era silenziosa, ci vengono accennate le sue abitudini, ma il primo e unico dettaglio puramente fisico è il pallore da sonnambula che le veniva assieme alle frequenti emicranie. La Siracusana, per tutto il racconto, e per estensione per tutta la sua vita, non ha voce. Parla solo due volte: per chiamare per nome il narratore e per tranquillizzare la servetta in siciliano (“Mi fici ‘u sangu. Nenti è.”). Questo suo silenzio sembra una prefigurazione della morte; la sua appartenenza a un passato mitico è netta (“Le donne d’allora non erano come quelle d’ora, che somigliano a frutta ignude, fra il fogliame.”); la Siracusana è una figura archetipale.
Da qui capiamo che gli schematismi da antologia sono inutili per questo racconto. Non Ottocento, né Novecento: mito. Il tempo è sospeso, come la storia narrata, in una sacca placentare che tutto comprende.

:: Congetture sullo stile
La bellezza estrema di questo racconto è forse unica. Gli altri racconti di Borgese (alcuni editi da Sellerio, ma c’è una lontana edizione Mondadori più completa) sono piacevoli, ma possono causare qualche reazione allergica. Borgese, in genere, dà l’impressione di scegliere l’ambientazione per la tavolozza che essa gli permette di sfoggiare. Si comporta un po’ come un pittore a cui sia capitato tra le mani un tubetto di colore di eccezionale fattura, ad esempio un meraviglioso blu, e lo usi per dipingere un quadro intitolandolo “Oceano Indiano”. Si lascia ispirare dalla materia prima che trova, e la piega a comporre i suoi disegni; ma la materia prima resta ben visibile. E non sempre è la Sicilia; può essere la Finlandia innevata, una città così grigia da richiamare letterariamente Milano, oppure il deserto implacabile.
Borgese sembra cercare la parola perfetta perché mostra fede nella parola. La sua prosa fluisce a volte come una sinfonia di visioni, in cui ogni frase corrisponde a uno strumento. Questo risultato è possibile solo con una straordinaria perfezione formale; lo scrittore deve lavorare sul flusso di parole tenendo sempre presente la sinfonia; mai può permettersi di considerare una singola frase al di fuori del suo rapporto simbiotico con le altre. E tuttavia questo sforzo titanico produce alcuni effetti collaterali: un senso di oscurità, un lirismo eccessivo, dannunziano secondo alcuni, un fascino che, quando è troppo intenso, rischia di far svegliare il lettore dall’incantesimo della lettura.
Come viene controbilanciata questa prosa “fascinosa”? (a) Sicuramente dalla brevità delle novelle. Non solo perché una tale prosa si può reggere solo per poche pagine, ma anche perché la forma particolare usata da Borgese modella perfettamente il mondo che lui vuole descrivere. Colori, forme, rumori, odori, voci, ricordi, emozioni: una prosa secca, verista, realista, non ha un grande potenziale sinestetico; al contrario di una prosa barocca, lussuriosa, espressionista [1] [2]. (b) L’altro elemento di equilibrio è la ragione: Borgese non finisce mai non dico nel soprannaturale, ma nemmeno nell’insolito. Si mantiene lontanissimo dai racconti di E.A. Poe, dai fumatori d’oppio di Thomas De Quincey, dai fiori del male di Baudelaire. Preferisce cercare ciò che di magico ha la realtà. Usa con disinvoltura il discorso indiretto libero. A volte usa il dialetto, o un italiano “sporco”, per far parlare i suoi personaggi, senza che questo sembri un artificio ma, al contrario, una scelta necessaria, e oggi sappiamo (è pratica comune) che uno strumento popolare può stare a suo agio in un’orchestra di strumenti da conservatorio. (c) E infine, la concretezza. I suoi personaggi, siano essi borghesi, nobili, popolari, sono impegnati a gestire la vita: le sue illusioni, la sua amarezza, le sue rare delicatezze.

Note e bibliografia
[1] “L’esercizio della critica aveva impedito al Borgese di dare libero corso alla sua natura nativamente barocca.” (Antonio Rufino, “La critica letteraria di G.A. Borgese”, Istituto Tipografico Editoriale Venezia Lido, 1969.)
[2] In una lettera privata a George La Piana, scritta nel 1932, Borgese dice del suo maestro Benedetto Croce: “Come letterato e scrittore egli ha il merito -incalcolabile- di avere ricostruito, dopo gli eccessi gladiatori del Carducci e contro il lezio dannunziano, il gusto di una sana prosa discorsiva.”

(c) 2006 Grenar

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