di Bartolomeo Di Monaco
Il pezzo che segue proviene da vibrissebollettino.net. ma.mi.
Scomparso nel 2001, l’autore, nato in provincia di Agrigento, trascorrerà la sua vita al Nord, insegnando Lettere italiane nelle scuole superiori. La luna si mangia i morti” fu pubblicato da Mondadori nel 1960 su segnalazione di Elio Vittorini. Nel 1963 uscirà La grande sete da Bino Rebellato; ancora nel 1963 per Ronchitelli Siciliani prepotenti, nel 1969 per Flaccovio Giangiacomo e Giambattista e nel 1985 per le Edizioni della Galleria: Venezia zero e Lo sfascismo. Russello scriverà anche testi per il teatro. L’incipit è il biglietto da visita della sua scrittura, una dichiarazione esplicita di ciò che incontreremo: “Che ci fosse come un destino chiuso nel sangue di tutti che lievitasse dentro, non potevo capirlo allora a casagrande, cosidetta perché quelli del vicinato che v’entravano, era per venirci a passare il tempo.” La frase, con quella conclusione – una vera e propria sterzata improvvisa – assume tutte le stigmate di una rivelazione e di una scelta consapevole.
La storia si svolge nel paese natale dello scrittore, Favara, e si snoda sul filo della memoria, con i tratti dell’autobiografismo. Nella premessa, scrive: “Noi ci portiamo appresso non solo lembi di terra cielo e sangue di chi ci fece, ma anche il peso d’una data, della quale bisogna che uno scrittore assuma la piena responsabilità. E anche la data è una patria temporale in cui egli s’è sentito rivivere, ha sentito risalire il latte di quella nutrizione, il dolore di quella dentizione. Ora io penso che si può essere fedeli a sè stessi, solo quando l’ispirazione ci riporti sempre alla stessa terra, ci schiacci sempre sotto quell’urgere di terra e cielo e sangue i quali come destino, perciostesso che continuamente premono, vogliono essere placati come spiriti cattivi, con l’evocarli.” Viene in mente il romanzo di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio pubblicato postumo nel 1979, in cui si legge: “Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno.”
La Sicilia che ci appare è tutta nel linguaggio, aspro, contorto, spinoso come un ficodindia, dalla bellezza violenta, che scotta quanto il sole. La mente si dipana tra le parole allo stesso modo che gli occhi scorrono sulle persone e sul paesaggio: “ma chi capiva che tutta la compagnia di Belgiòvine, giacca sulle spalle, se correva al gioco delle nocciole e delle carte fuori nella strada, disertando casagrande quando quelli vi entravano, era per schivarli, e andare a sputare a terra invece che sulle loro mostrine?”. Si parla dei carabinieri che vanno nella casa di nonno Peppe (“Nonnopè”) e di nonna Rosa (“Nonnarò”), chiamata casagrande, e lo zio Belgiòvine mette loro davanti il fiasco del vino e poi se ne esce fuori per non discorrerci. Essi vengono, soprattutto l’appuntato Lobianco, anche per corteggiare Angelina, sorella di Belgiòvine e madre dell’io narrante, ancora una bella donna, rimasta vedova a vent’anni perché il marito era “morto di pistola nel fiore delle sue imprese che, per tutta la Piana lo resero famoso”. Era conosciuto come “il brigante Verdone”.
Quando il nonno Peppe consente che la figlia Angelina sposi Lobianco, Belgiòvine “aveva tirato lui per i baffi e dettogli vergogna”. Il protagonista ha sei anni. Stravede per lo zio, “il più allegro, il più spavaldo, il più mangione”, che ha mani grosse e “dalla finestra in fondo, sciogliendo sui garofani le trecce, gli rideva Lucia”. La sera insieme con il cugino Giugiù e Laurè si nasconde per ascoltare la serenata che lo zio canta a Lucia. Lo accompagnano con i loro strumenti gli amici Vento, Vincenzo e Gilillo. Divenuto brigadiere, il patrigno Lobianco viene trasferito in città ma, poiché il ragazzo e Angelina sentono la mancanza del loro paese, per le vacanze li accompagna a casagrande, dove tornano alle vecchie abitudini. Russello scrive come un cantastorie, non ci sono pause, silenzi, il ritmo è quello di una vita che fermenta nel sangue caldo della gioventù. Si guardi a questo brano, che è solo un esempio, ma significativo: ci si riferisce al frumento che è diventato farina, “Lo volevo vederlo piuttosto che mangiarlo così; avrei voluto io seminarlo, io durare la fatica di contarci le pioggie e i soli, crescerlo, falciarlo. Per questo non bastava andarlo a vedere dal balcone di casagrande come buttava fuori, come si cominciava a falciare nel sole, a mietere, e come brillava nella paglia l’aia di fronte e svolazzava la pula sotto la forcata alta degli uomini, e tant’aie scoprivo nella Piana fino in cima a Trerocche, e sopra le mule correrci, nelle trebbia. Guardavo assorto, com’era bello starci in un’aia.” Trerocche è chiamato così “per tre grandi rocce che sbucavano dalla terra, e sotto c’eran nidi di volpi e di falchi.”
Lucia è un po’ civetta, non disdegna la corte dei carabinieri che passano davanti alla sua porta e le donano rami di mandorlo in fiore. Belgiòvine la chiama “Cagna!”, ma “allo zio Lucia piaceva per questo, che gli calava nel sangue caldo, con l’amaro e il dolce.”
Il protagonista dorme nella camera del nonno, che tutte le sere, prima di coricarsi, carica la sveglia e dice: “Domani la sentirai cantare”. Una di queste sere domanda al nonno: “‘Come morì mio padre?’ Il nonno prima si lisciò i baffi, guardò il soffitto e rispose: ‘Se lo mangiò la luna’. ‘Come nonno?’ ‘La luna, quando è rossa, si fa lupinaro, tira fuori le unghie, corre per le strade ed urla. Così se lo mangiò. Dormi ora’.” È una fanciullezza, quella del protagonista, immersa nella magia di una natura affascinante e misteriosa, dove storie e leggende si mescolano e generano una vita parallela che è nascosta, e che si può scoprire stando sotto la luna o ascoltando il canto di un cuculo.
La scrittura particolare di Russello non risiede tanto nell’impiego di termini gergali, che mancano si può dire del tutto (uno “schiacchiarsi” per schiacciarsi), o nell’invenzione di qualche parola ricavata dall’esperienza quotidiana, bensì nella costruzione sintattica. Le parole seguono un loro ritmo la cui traccia è interiore, esclusiva della mente. Si legga qui, quando il protagonista ricorda il suo arrivo ogni estate al paese per trascorrervi le vacanze (una volta vi andò anche per Natale), e ad attenderlo alla stazione trova sempre i parenti e gli amici più cari: “Qualcuno ci mancava ed era nonna Rosa che non poteva più trascinarsi fino laggiù. Ma purché ci fosse Belgiòvine, Giugiù, Laurè; che afferravano le valigie e i grandi me di nuovo, mi facevano volare tra il cielo e il grano alto che aveva buttato bene fuori.” La scrittura segue, ossia, il tragitto della mente nell’istante in cui essa sosta ed osserva le cose, disegnandole attraverso un movimento spontaneo che, rifiutata la logica, si assuefa ai sensi.
Ne scaturisce una Sicilia primordiale, percorsa da briganti e da carabinieri dispiegati nei boschi e sulle colline alla loro ricerca. È la Sicilia di massaro Vito, di Vanni il puparo, “un vecchio con gli occhi tappati da lenti nere, attaccate con spago alle orecchie”, e di Pasquale il capraro che con il suo gregge e il bastone “bilanciato sulle spalle dietro la nuca” vigila sui briganti affinché non siano sorpresi dai carabinieri, e che ai ragazzi racconta quanti uomini sono stati uccisi sotto il grande olivo (“Ce n’è uno che quante olive dava una volta, tanti sotto ce n’avevano ammazzati.”), nonché le leggende che corrono per la montagna e che impressionano i ragazzi: “quando al ritorno, si rientrava tardi, ci accompagnava tutto un canto di grilli, che calata la luna, si levava con l’abbaiare dei cani e tremava nell’aria. Allora avevo un po’ di paura guardare verso Trerocche che si faceva nero negli ulivi, dove Pasquale andava a passare sulle croci.” Le croci erano quelle dei morti ammazzati che erano stati sepolti lungo una misteriosa strada che passava nel bosco. È Pasquale che racconta: “Il passo dov’eran morti tanti, diceva. Giugiù chiese dov’eran le croci, volevo vederle anch’io, invece solo ulivi si vedevano, mandorli e – Noi – finì Pasquale – ci passiamo di notte con le greggi. – Così un pizzico di paura ci venne nelle carni, a sentire.” Ci andranno, poi, sul sentiero “che s’infilava tra mandorli e ulivi.”, insieme con Pasquale nella cui faccia “c’era vento, pioggia, odori di caci, sicurezza dei paesi, degli agguati: una faccia scura e densa di tutto questo e di vallata.” E vedranno l’olivo saraceno: “Anche al tempo dei tempi ci ammazzarono saraceni e si dice di un olivo saraceno dove la notte si sente lamentare lo spirito del morto.”
Poi ci sono i Fanara, quelli di Villa Fanara, davanti al cui cancello i ragazzi sostano per vederne aldilà le meraviglie, i signori che possiedono terre fin dove arriva lo sguardo. Gli dice il nonno mostrandogliele dalla collina: “Io ti darò un giorno la figlia di Fanara!” Gli dice anche che pure suo padre, il brigante Verdone (“Verdone non la perdonava a nessuno ai suoi tempi, e torti, mentr’era vivo, non se ne facevano”), aveva avuto terre, ma se l’erano prese i fratelli: “Tradimento, tradimento, ve l’han tolte!” Alla domanda del nipote che cosa sia la “maffia”, risponde: “Quando uno passa alle masserie e gli danno uova, cacio, pane, frutta, zitto e gli mettono sul cavallo un agnello sano, e non si dice nulla, e si saluta solo. Questo.” Anche il cugino Giugiù, quando guardano dalle colline i forni dove lavorano lo zolfo, spiega: “Sai che ce n’hanno bruciati vivi anche lì? Di banditi dico che i compagni per vendetta uccidevano a tradimento e li buttavano dentro, e non se ne trovava la traccia, non se ne sapeva più nulla.” I carabinieri continuano nell’abitudine, anche se ora Lobianco, che ha sposato Angelina, non c’è più, di fare sosta, nel corso dei loro giri, a casagrande, dove Belgiòvine li accoglie offrendo ancora la solita fiasca del vino. Leggete questa bella descrizione: “I carabinieri sedevano in circolo in mezzo alla camera, deponevano i moschetti a terra e i berretti, avendo dietro loro Belgiòvine, appoggiato al muro, giacca sulle spalle, gambe su un panchetto, una mano a pizzicare distratta le corde del mandolino, appeso al muro.” A casa vive ancora l’altra sorella di Belgiòvine, Anna, che i carabinieri corteggiano, come già facevano con Angelina: “Ai carabinieri, con la risata di Belgiòvine, veniva il chiacchierìo, ed uno, la mano in confidenza l’aveva allungata per prendere la mano di Anna, mentre questa gli affidava le mandorle, Belgiòvine accorgendosene.”
È la Sicilia delle bande musicali che girano per i paesi e gareggiano tra loro, i giovani attirando le ragazze. Qualche volta tutto finisce a calci e pugni, come succede tra la banda musicale diretta da nonno Peppe e quella di un paese vicino, e come succede tra Belgiòvine e Bova, un rivale in amore, che Belgiòvine manda a gambe all’aria con un pugno e che si rivale sparandogli alla spalla. Sarà Lucia a medicarlo e a fasciarlo, con quei suoi occhi “instabili, che ci avevano dentro un volo di rondini.”
Sono giovani che non hanno molto da scegliere; la loro vita trascorre nei solchi di una tradizione aspra ed indifferente: “il lavoro, nemmeno a cercarlo con una candela di pecoraio si trovava. La candela di pecoraio era la lucciola.”
Sia il nonno che Pasquale il capraro insistono a dire al ragazzo delle terre che erano appartenute al padre e che gli zii avevano rubato. Pasquale un giorno ve lo conduce: “Quelle terre sono andate ai fratelli di tuo padre e ce l’hanno loro.” Le terre hanno un nome, “Furore”, e i contadini, quando suo padre passava a cavallo, gli cantavano “Passa lu guardiano della Piana…, la sua canzone preferita, “come un saluto.”
È il momento in cui cresce la figura di Verdone. Entrato nella masseria, lo zio Nardo, uno dei fratelli di Verdone, dice al ragazzo: “Tuo padre spuntava di lì, nel cavallo bianco che pareva l’Arcangelo!”. Poi lo porta in giro per le terre e giunto davanti ad una buca, dice: “Lì Verdone ci sparò uno della banda che aveva fatto la spia, tradito i compagni. Perché quando si tradisce, si paga.”
La madre non è contenta di ciò che ha fatto Pasquale; non doveva portarlo nelle terre di Furore né Nardo raccontare quelle storie terribili su suo padre. Giura che non tornerà più al paese “in mezzo a quei pettegolezzi. Le avevano rovinato il figlio”. Quelle terre, come si apprenderà più avanti, nel racconto che il nonno farà al ragazzo, erano state lasciate in eredità a Verdone da un vecchio inabile, e Verdone: “da selvagge che erano e piene di salvia, di salvia si fece odorose le mani, aprendo il sentiero, di sangue le mani per le spine, falciando i pruni, e alla prima zaffata di vento arò che la terra bruna diventò nera, seminò e piantò l’ulivo, il mandorlo, il pero, il susino, che a primavera, in quel trionfo di pollini negli ulivi, in quel fiorire dei mandorli alle prime sguazzate d’acqua, il cavallo c’infilò i fianchi come un’ape vogliosa, s’impollinò e s’intrise.” Che è pure descrizione mirabile, la cui bellezza sta tutta nel nervo della scrittura personalissima.
Ma la madre non mantiene la promessa di non recarsi più al paese, giacché il ragazzo immalinconisce, e saltano, dunque, solo un anno. Così l’anno successivo ritornano. La scrittura di Russello mi richiama alla mente quella di Vincenzo Pardini, la stessa asciuttezza, lo stesso nerbo. Nel parlare entrambi della montagna e della solitudine che vi regna, e dove la natura è signora e padrona degli uomini, che forgia a sua misura, ne trasferiscono forza e grandezza nella scrittura.
Nell’asciuttezza e nell’asprezza di quelle abitudini antiche Russello sa calare scene di autentica poesia, al modo del fiore che nasce dall’arbusto selvatico e ci colpisce per il suo colore e la sua bellezza inattesi. Si vedano le pagine dedicate al ricordo del corteggiamento di Angelina da parte degli spasimanti, quando fu scelto fra tutti Verdone. Ognuno recò un dono alla ragazza e lei scelse le due melagrane portate da Verdone, e la nonna le appese alla porta: “Le melagrane in segno di scelta furono appese dietro la porta, fuori, e passando Verdone col cavallo, le colse al volo, e a volo si prese in sella la sposa e galoppò per la Piana.”
A quella terra, a quelle abitudini è difficile rinunciare. Quando i giovani terminano il servizio militare, sono tutti contenti di ritornare a casa, sentono “d’esserci piantati come alberi e crescervi. Ma chi capiva che per la testardaggine di restarci, ci si consumavano nell’inedia, nella povertà?” Anche Belgiòvine rinuncia ad un lavoro promesso dal cognato Lobianco in città per rimanere a casagrande, e perfino il protagonista lascia partire soli la madre e il patrigno: “Sono contento invece. Mangiate, avete fatto bene.” dice loro il nonno, approvando che tanto il ragazzo quanto Belgiòvine siano rimasti a casagrande.
Belgiòvine riceve dal conte Fanara, il proprietario di Villa Fanara, l’incarico di eseguire certi lavoretti di falegnameria. Non è più il fannullone di una volta, si è sposato con Lucia e sembra intenzionato a mettere la testa a posto. Anche il protagonista, insieme con il cugino va in giro ad aiutare nei campi. È l’occasione per descriverci la Sicilia della tradizione: “Ci accolse lieto il massaro quando gli dicemmo di dargli una mano per i lavori, perché era solo. Così si cominciò ad andare con un mulo a prendere acqua alla gora vicina, riempiendo le giare; si cominciò sotto gli ulivi a lavar tine, a prepararle per la pigiata; intanto Giugiù gli aggiustava quelle crepate, e a sera, vedere come Lazzaro bruciava, dentro quella botte aggiustata, ramuncoli di vite (perché una botte che si brucia con vite è per intasare meglio e meglio si sposa al nuovo vino che deve empirla) era magnifico. Ci sedevamo davanti alla bocca della botte con dentro il fuoco; io mi godevo la fiammata, e a uno stecco Lazzaro accese la pipa, col tizzone segnò il buio”. Dovunque il ragazzo vada, gli parlano del padre e delle sue ardite imprese, compiute a beneficio della povera gente. La figura di Verdone entra, così, sempre più, nella mente del ragazzo, e sta per trasformarsi in mito. Racconta massaro Lazzaro, un altro dei fratelli di Verdone: “Una notte venne qui a riposarsi e gli feci la guardia; vennero i carabinieri e cercarono, ma lui volò su per i tetti, diede un balzo, chiamò il cavallo bianco col suo fischio, e il cavallo venne di corsa come un lampo, nitrendo.” Per i contadini il padre è già un mito, una leggenda. Parlano di lui come un essere straordinario, al quale tutto era possibile. Ricordate come risponde il nonno, quando il protagonista gli chiede come sia morto suo padre? Gli risponde: “Se lo mangiò la luna”. Perfino i carabinieri ne parlano con stupore: “Era un bell’uomo, – finì il carabiniere – gli vidi la faccia nella sparatoria, e quando scappò sul cavallo bianco, era bello come un Arcangelo che non spararono più.” Finanche il suo cavallo bianco entra nella leggenda: “Un cavallo che pareva avere giudizio, tanto lo cercò dappertutto il suo padrone; e mi disse che l’avevano visto correre nella vallata per tanti giorni, e tante notti l’avevano sentito nitrire.” Chi racconta al ragazzo è, ancora una volta, il nonno.
Tutto si colora del mito, dunque: anche la nascita del protagonista, come gli racconta Belgiòvine, rimproverandolo di aver lasciato partire soli la madre e il patrigno: “Quando sei nato lei ha fatto un sogno. Come due donne bellissime, le fate, che glielo avessero portato in braccio, e le dicessero: Tieni t’è nato, vedi com’è bello? Tua madre ti prese, ti portò in alto, al sole, esse ti toccarono la testa con una verga d’oro.” Invece è nato di notte, e proprio il giorno che Verdone e i suoi fratelli erano braccati da duecento carabinieri e per tutta la valle echeggiavano i colpi di fucile, “che ad Angelina affrettarono le doglie, e il bambino le nacque nella notte, per lo spavento.” Subito manda il figlio in una cesta a Verdone perché lo veda. Un carabiniere spara sulla cesta “ma rispose Verdone dalla colombaia, con una sparatoria infernale; allora l’ultima donna che prese la cesta, si vide correre in mezzo ai due fuochi, alzarla in alto con un bambino dentro e un vagito, e implorò pace col fardello, che Verdone fece segno agli altri di cessare il fuoco con la mano, sentendosi padre e intenerendosi. E nell’aria restò il vagito, il fumo della polvere sparata e l’arma puntata in mano a ciascuno, con la bocca fumante”.
Sotto il letto del nonno ci sono tre cassette, una di queste ha sempre destato la curiosità del protagonista: è “legata con la corda”. Tutte le volte che ha chiesto al nonno di aprirgliela, questi gliel’ha rifiutato. Ora che è tornato per le solite vacanze estive ed ha quindici anni, tenta di nuovo, ma il nonno risponde “che aveva perduto la chiave.” Ci immaginiamo che quella cassetta contenga qualcosa di importante, forse appartenuta al padre, a quel Verdone che nessuno, salvo ogni tanto e di nascosto il nonno, osa nominare più a casagrande, nemmeno Angelina. Lo definiscono “Un delinquente di quelli!” e anche Belgiòvine alla domanda del nipote se sia vero che suo padre fosse un delinquente, risponde: “Tuo padre è Lobianco ricordati!” Il romanzo, dunque, si connota di questa ricerca del padre da parte del ragazzo, dal quale si tenta di allontanarlo. Tuttavia lo stesso zio non può dimenticare il giorno che Verdone comparve con gli altri banditi in piazza dove si teneva una festa per l’inaugurazione della stazione dei carabinieri, in groppa al suo cavallo bianco e gridò il nome di Angelina, perché voleva ballare con lei, e “si vide Angelina alzarsi e andare da Verdone. Il quale le prese le braccia, e girarono.” Quel giorno il nonno e Belgiòvine, che aveva diciotto anni, si gonfiarono di piacere “per questo trionfo.” Belgiòvine l’indomani sarà però arrestato dai carabinieri per associazione a delinquere e sconterà “un anno e mezzo di carcere e la vigilanza.” C’è un’altra curiosità da soddisfare e riguarda la ragazza che abita Villa Fanara, che un giorno le aveva donato un melograno. La vede, è diventata signorina: “ma come grande fatta, come bella stavolta, come signorina!” Sarà il cugino a soddisfare la sua curiosità: si chiama Rosalba, “ed era nome di ricchi.”
Ogni occasione è buona per vederla: “Io la seguivo con gli occhi e col cuore in gola.” Comincia il cammino dell’amore, ed anche quello della gelosia.
Ma proprio quando anche il ragazzo impara a conoscere le pene d’amore, Lucia, la sposa di Belgiòvine, che la nonna aveva sempre considerata una malafemmina, viene vista lasciare entrare in casa sua Bova, sempre stato un suo spasimante. Ora si attende il ritorno di Belgiòvine e ci si aspetta l’esplodere di una tragedia. Che non mancherà. Sarà in quella occasione che il nonno svelerà al ragazzo che il padre, è vero che se l’era mangiato la luna, ma “dopo che i fratelli gli fecero il tradimento di invitarlo ad un banchetto, e lo fecero tanto bere e ubriacare che gli piantarono alle spalle una pistola.”, “per impadronirsi delle sue terre di Furore, e il cadavere fu lasciato al chiaro di luna, la notte.”
Il desiderio del padre è ormai definitivamente cresciuto e si è insediato nell’animo del ragazzo: “come avrei voluto conoscere mio padre, pensavo, vedergli il viso solo un momento tra i lampi degli spari, come dicevano! Conoscerlo, come adesso conoscevo tutti, riceverne in testa la carezza, come in bocca il sapore della frutta, nelle mani un grappolo d’uva!” Si noti come il sentimento viene comparato ai frutti della natura che lo circonda. È giunto il momento di aprire quella cassetta legata con lo spago: “Ti farò vedere il ritratto di Verdone!” gli dice all’improvviso il nonno una sera, prima di addormentarsi. Nella cassetta ci sono varie cianfrusaglie, anche una fotografia del nonno da giovane, ma in fondo, coperta dalla polvere, ecco comparire la foto di Verdone: “Il nonno pulì adagio adagio con la mano, e di sotto quella polvere, alla luce, spuntò la figura di Verdone sul cavallo bianco, tutt’intera, e il fucile tra le braccia. Era davvero come l’arcangelo”.
Il nonno morirà qualche anno dopo, all’età di settantaquattro anni, e delle cassette che teneva sotto il letto e della sveglia che caricava ogni sera prima di dormire, non si troverà più niente.
Lobianco si è fatto trasferire di rinforzo alla stazione del paese, giacché si dà la caccia ai latitanti e “per chi, dei brigadieri, riusciva a prenderli, ci scappavano i gradi di maresciallo.” In questo romanzo la presenza dei carabinieri, con i loro pattugliamenti continui, anche di notte, è costante. Non sono ben visti; quando si avvicinano alle case, tutti ne hanno paura. Tirano un sospiro di sollievo allorché si allontanano. Angelina sta in apprensione per il marito, uscito con la ronda, piange e tiene abbracciato il figlio. È in uno di questi momenti che finalmente racconta al protagonista come è morto il padre. Noi sappiamo già la storia perché l’abbiamo ascoltata nel racconto del nonno. Solo che non è vero che sia stato lasciato nel bosco di notte, sotto la luna, ma “il cadavere l’avevano invece chiuso dentro un sacco e portato in uno di quei forni vicini, dove bruciava lo zolfo e colava nella fornace, glie l’infilarono e, quando tutto fu arso e sbriciolato, la cenere la dispersero al vento della Piana, nel sole, che non si trovò più nulla.”
Che è, anche questo, un altro dei brani che testimoniano di una scrittura personalissima. Se si pensi che Russello insegnava lettere nelle scuole medie superiori, se ne deduce che noi ci troviamo di fronte ad una ricerca innovativa testardamente voluta, e per di più non facile.
Allorché il protagonista compie trent’anni, sente il desiderio di scendere dal Nord, dove insegna, e tornare a far visita al suo paese, proprio come accade al protagonista de Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. “Casagrande l’ho trovata diversa: ci abita altra gente, i vasi di garofani e di menta non ci sono: al loro posto vi è una pianticella rampicante che non sa dove salire e aggrapparsi perché il muro è tutto screpolato.” Il presente, dunque, è diventato passato, e si è consegnato definitivamente alla memoria: “Vedo che non si chiede più nulla di tutto ciò che ho visto tante volte, e che ha avuto il sapore delle cose consuete, il sapore né molto amaro, né molto dolce delle solite cose che non sanno di niente, ma hanno un sapore buono, come quello dell’acqua ch’è sempre stessa cosa, come quello del pane, che è sempre quotidiano.”
Anche la caccia ai latitanti avrà fine e Lobianco guadagnerà i gradi di maresciallo, ma allorché vedrà spuntare dalla buca dove si era nascosto l’uomo che cercavano, “trasecolò” quando lo riconobbe. Con quell’arresto si conclude la storia (“capimmo che alla Piana tutto era finito!”), che è storia di brigantaggio, della solidarietà per esso dei pastori e dei contadini, del mito che aleggia sulle loro imprese, della contrapposizione tra la legge, malvista, e i banditi, considerati degli eroi, ma, condensata in questo breve romanzo, è anche la storia di una Sicilia che perdura.